Da una derashà di Rav Sacks
Nella parashah di Shofetim viene articolata una teoria ebraica del governo. Il popolo ebraico stava per entrare in Israele. Le esperienze che maggiormente lo avevano modellato erano l’esodo e la rivelazione. Nonostante la loro esperienza spirituale risalisse a svariate centinaia di anni addietro, vi era un aspetto che ancora non avevano sperimentato: l’autogoverno. I loro padri, nella terra loro promessa, avevano vissuto come individui, famiglie allargate, clan, ma mai come nazione. Ora la questione dell’organizzazione di governo diveniva urgente.
Quale forma di governo adottare? Prima di vedere qual è la risposta della Torah è utile considerare alcuni aspetti: il primo è che l’Israele biblico non è una religione nella nostra accezione attuale. La nostra visione è un prodotto della Riforma, del protestantesimo e della storia europea dal XVII sec. in poi. La religione è un fatto privato, che si pratica in casa o in un luogo di culto. Non influenza il modo in cui impostiamo la vita collettiva, lo stato, la società, l’economia, l’informazione. La Torah ha un altro punto di vista. La fede ebraica si estende praticamente a tutti gli aspetti della vita collettiva. La Torah contiene norme di diritto civile, penale, norme per l’ordinamento sociale, sull’agricoltura, sui rapporti di lavoro, e così via. La Torah è molto più interessata a questioni pubbliche che a quanto avviene all’interno dei singoli individui. In secondo luogo la visione della politica era molto particolare. Mosheh nel libro di Devarim intende affermare che il governo non compete agli uomini ma a D. Per descrivere questa forma speciale di governo Giuseppe Flavio deve coniare un nuovo termine, teocrazia.
Questo è molto indicativo, perché i greci avevano numerosi termini per designare le varie forme di governo. Oggi teocrazia richiama gli spettri di governi guidati da pseudo-religiosi, in cui le libertà individuali sono ridotte al minimo, non in grado di rispettare uno dei grandi principi della modernità occidentale, la separazione formale e sostanziale di stato e chiesa. Questo non è ciò che la Torah prevede. Non abbiamo un dominio dei sacerdoti, e tutto il potere è delegato ad altri. La libertà è un concetto religioso. In terzo luogo il fatto che l’alleanza con D. precede la costituzione di una qualsivoglia forma di governo ci indica che la politica è un mezzo, non un fine. La politica fine a se stessa è una pericolosa forma di idolatria, che ha trovato la sua spaventosa espressione nei regimi totalitari del XX secolo. La Torah invece tende a valorizzare ogni singolo individuo in quanto creato a immagine divina. La società è più importante dello stato. Sono più importanti le relazioni che le strutture di governo. Nella società si realizzano determinati ideali: la giustizia, la compassione, lo stato di diritto, la santità della vita, la dignità dell’individuo. Si tratta del tentativo, unico nel proprio genere, di creare una nazione senza farla cadere nella ricerca smaniosa del potere. Tentativo quasi impossibile.
Il Tanakh è anzi in gran parte dedicato a descrivere i fallimenti di questo difficile modello. Ma non si è mai persa l’aspirazione a realizzarlo. Secondo la Torah, come poi avrebbe affermato John Locke “dove non c’è legge, non c’è libertà”. Abbiamo quindi un governo delle leggi, non degli uomini. Abbiamo tre tipi di leader, il re, il sacerdote, il profeta. La Torah insiste molto nel limitare la monarchia. Sotto certi aspetti si tratta della prima monarchia istituzionale nella storia. Il re non è al di sopra della legge. La monarchia è una concessione che viene fatta al popolo ebraico che vuole equipararsi agli altri popoli. La presenza di altri poteri, quello sacerdotale e profetico, anticipa il modello che Montesquieu affermerà nell’Esprit des Lois, quello della separazione dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario. La separazione è essenziale per creare una società libera. La fioritura della libertà non discende da diritti naturali o da rivoluzioni. Dipende da una certa organizzazione del potere. Il sacerdote insegna la parola divina che è eterna, il profeta quella valida in alcune circostanze specifiche, il re si occupa del resto. I poteri restano abbastanza distinti fra di loro.
Il Tanakh nel suo complesso è un intreccio delle loro voci. Il sacerdote si esprime usando le categorie di sacro e profano, puro e impuro, il profeta parla di giustizia e misericordia, mentre il re si avvale della saggezza mondana. Non è un caso che due dei libri sapienziali, il Mishlè e Qohelet, siano strati attribuiti a un re, Shelomò. Il re insegna meno di quanto non riceva dagli altri. In alcune occasioni troviamo delle cooperazioni fra queste forme di potere, per esempio quando David intende nominare il figlio Shelomò la decisione fu ratificata dal sacerdote Tzadoq e dal profeta Natan. Secondo i chakhamim importanti decisioni nazionali, come la dichiarazione di una guerra facoltativa, necessitavano dell’approvazione dei vari poteri. I Maestri criticano aspramente il re Yannai, reo di aver cercato di unire corona e sacerdozio. E’ inutile dire che dalla distruzione del tempio alla fondazione dello stato d’Isrele il pensiero politico ebraico è stato più teorico che pratico. Gli ebrei non avevano sovranità, al massimo avevano delle autonomie locali, e mai comunque l’autogoverno. Il tema nel medioevo fu sviluppato da Maimonide e da Rabbenu Nissim, e poi, agli albori dell’età moderna, da Abravanel. Maimonide proponeva una monarchia illuminata di stampo platonico, Abravanel riteneva invece che il potere assoluto conducesse ad una corruzione assoluta.
Per la Torah la monarchia è una concessione piuttosto che un ideale. Rabbenu Nissim aveva una posizione intermedia. L’unica legge senza tempo è quella divina, gli uomini sono tenuti sempre a promulgare dei provvedimenti temporanei in base alle situazioni. Avvicinandosi a tempi più recenti, Rav Kook sostenne che la scelta della monarchia derivava dal popolo e che in assenza di un re la scelta tornava al popolo. Un parlamento democraticamente eletto è quindi l’equivalente funzionale di un re. Quello che possiamo comprendere è che sin dall’inizio l’ebraismo si confronta con la politica. Deve essere necessariamente così, perché la Torah vuole istituire un certo tipo di società, ma a differenza della Grecia l’ebraismo non vede nella politica la massima espressione della vita collettiva. La politica è piena di pericoli, corruzione e compromessi. La più efficace difesa della libertà è la divisione dei poteri, e da qui la struttura tripartita della parashah di Shofetim. Se dovessimo riassumere in una frase il senso di questa impostazione è che gli individui non esistono per servire lo stato, piuttosto il contrario, e che il popolo è a sua volta al servizio di D.