“Manda per te degli uomini e visitino la Terra di Canaan che Io do ai figli di Israele…..”
Con queste parole inizia la parashà di questo shabbat; essa narra interamente del viaggio dei “dodici esploratori” nella Terra che diverrà poi la Terra di Israele, come il Signore D-o aveva promesso di dare al popolo sin dai tempi dei Patriarchi.
L’espressione iniziale “shelach lekhà” denota già da parte del Signore, una posizione contraria a quella del popolo, che pretende che qualcuno visiti la terra, prima di iniziare le guerre di conquista.
Infatti, sia Rashì che altri commentatori, spiegano il termine “lekhà – per te” dicendo che è per “quello che tu e che il popolo ha chiesto” che Io ti ordino di mandare ad esplorare la Terra.
La cosa va a finire male, in quanto, al loro ritorno, il racconto del viaggio avrà conseguenze catastrofiche: il popolo sarà punito, dopo essersi disperato vanamente, dimostrando ancora una volta mancanza di fiducia in D-o, con una sentenza irreversibile.
Essi rimarranno quaranta anni nel deserto, affinché la vecchia generazione, quella uscita dall’Egitto e tutti coloro che avevano dubitato, non entrino nella Terra di Israele, all’infuori di Giosuè e Calev, che furono gli unici a manifestare la volontà di conquistare quella terra, con l’aiuto incondizionato di D-o.
E’ un episodio abbastanza complesso che ci lascia riflettere; il popolo ebraico era da poco uscito dall’Egitto dove aveva trascorso quattrocento anni in schiavitù, a contatto diretto con una popolazione idolatra, che vedeva nelle proprie divinità, solamente una forma di vano egoismo e personalizzazione voluta dai capi del popolo; gli egiziani, credevano nelle varie divinità soltanto perché obbligati dai capi, ma in esse non riponevano fiducia alcuna.
Il popolo ebraico, per quanto avesse assistito a manifestazioni incredibili da parte del D-o unico, il quale attraverso il Suo operato aveva salvato Israele dalla schiavitù, facendolo uscire verso la libertà, aveva ancora però, un atteggiamento legato a quelle tradizioni, che pur non appartenendo alle proprie lo avevano influenzato non poco.
Piangere per una cosa senza fondamento, senza certezza “…e il popolo pianse quella notte….” manifesta un atteggiamento puerile, privo di maturità e di coscienza; per questo motivo vengono definiti dal Signore, non idonei ad affrontare la conquista della terra.
Le parole di Giosuè e Calev: “è vero che è una terra abitata da giganti, è pur vero che vi sono in essa molte difficoltà per essere conquistata, ma con l’aiuto di D-o, noi riusciremo” manifestano, da una parte la conferma di ciò che avevano detto gli altri dieci esploratori, dall’altra però incutevano nei cuori del popolo la fiducia necessaria, sia in se stessi, sia e soprattutto in D-o che aveva fatto una promessa storica e che, come aveva mantenuto tutte le altre, avrebbe sicuramente mantenuto anche questa.
Non a caso, secondo i commentatori, “quella notte” sarebbe stata la notte del 9 di Av, giorno in cui, molti secoli dopo sarebbe stato distrutto sia il primo che il secondo Tempio di Gerusalemme.
Un midrash spiega che, dato che all’epoca non vi era alcun motivo per piangere, il Signore avrebbe decretato che in futuro, esso avrebbe trovato un motivo giustificato.
Questo motivo è la distruzione dei due Templi di Gerusalemme, avvenuti entrambi nello stesso giorno: il 9 di Av.
Shabbat shalom