Dall’Europa Orientale al Sud America. Non solo “Keyla la rossa” di Singer
Quella che Isabel Vincent racconta in Corpi e anime è una storia vera e terribile, che trova le proprie radici nella tragedia dell’antisemitismo, e che tuttavia ci regala anche una luminosa speranza. “Corpi e anime” recupera infatti dalla vergogna e dall’oblio il destino di alcune giovani donne ebree, nate e cresciute nell’Europa Orientale, le quali, per sfuggire alla straziante miseria e ai pogrom, abbandonarono i villaggi e i ghetti urbani confidando in una sorte migliore. Finirono purtroppo nelle mani della Zwi Migdal, un’organizzazione criminale interamente costituita da malviventi ebrei, che fino al 1939 avviò molte giovani alla prostituzione, destinandole alle case di tolleranza che gestiva a New York, in Sudafrica, in India e in Sudamerica. Seguendo dalla Polonia al Brasile le tracce di tre di queste ragazze, Sophia Chamys, Rachel Liberman e Rebecca Freedman, “Corpi e anime” ci racconta una vicenda straordinaria e commovente. Perché Sophia, Rachel, Rebecca e le altre polacas, seppur ridotte in schiavitù, sfruttate e oltraggiate, seppero affrontare la loro sorte con dignità e fermezza: mantennero vivo il loro sentimento religioso, malgrado l’ostracismo della stessa comunità ebraica verso queste donne immorali, e costruirono una rete di solidarietà, la ‘Società della Verità’ fondata sull’amore, sul timor di Dio e sulla fiducia reciproca.
Tra la fine dell’800 ed i primi anni del ‘900 l’Argentina era appena uscita dal periodo turbolento delle guerre d’ indipendenza dalla Spagna e delle successive lotte interne tra le diverse fazioni che videro contrapporsi Buenos Aires alle altre province, che non volevano perdere la propria autonomia in favore della capitale, vero fulcro dominante di un paese che stava trovando una propria identità politica ed un proprio sviluppo economico.
L’economia argentina, favorita da una estesa rete ferroviaria che collegava tutte le regioni del paese con la capitale, ebbe un rapido sviluppo tra il 1880 ed il 1930, quando le sue merci venivano esportate verso i mercati europei.
In quel periodo la popolazione aumentò di sette volte, provocando un vero stravolgimento nella fisionomia culturale del paese.
La storia argentina dei primi cinquant’anni del ‘900 è caratterizzata dapprima da una forte crescita economica, che segnò la mentalità nazionale e l’ambiente urbano della capitale, dove affluirono migliaia di emigrati europei.
In quegli stessi anni, con i flussi migratori si sviluppò con forza uno dei commerci più crudeli che segna la storia di quel paese: la tratta delle bianche.
A questo commercio si dedicarono con particolare ferocia ed interesse gruppi di immigrati ebrei, già segnati dalle origini del nazismo.
Quelli che si dedicarono a questo lavoro si costituirono in un’associazione, la “Zwi Migdal” che gestiva circa tremila bordelli, quasi tutti nella capitale. A Rio de Janeiro, nel 1913, molte delle 431 case di tolleranza della città erano controllate da ebrei affiliati all’organizzazione.
I responsabili della tratta delle bianche furono attirati dalla Rio di fine secolo, giunti lì per eludere i controlli delle autorità di Buenos Aires, intuendo rapidamente il potenziale del mercato del vizio commercializzato in quella che all’epoca era una città sempre più industriale e dove si mescolarono agevolmente ai nuovi immigrati .
Naturalmente gli ebrei non erano i soli ad approfittare delle ragazze povere e a detenere il monopolio sulla tratta delle bianche perché all’epoca altre bande criminali di varie religioni e nazionalità avevano fatto la stessa cosa per decenni .
Seppure secondo gli storici, giapponesi e cinesi svolsero il ruolo di maggior rilievo in quello che divenne eufemisticamente noto come “il Traffico”, ciò che contraddistinse la “Zwi Migdal” fu il suo concentrarsi su donne e ragazze ebree indigenti che venivano indotte con l’inganno a contrarre matrimoni religiosi. Quando partivano dai porti europei, la maggior parte delle giovani che si ritrovavano poi a fare le prostitute a Rio de Janeiro, Buenos Aires e New York, si credeva in procinto di raggiungere i rispettivi mariti in America. Molte di loro non superarono mai lo shock legato alla consapevolezza che i “mariti” erano in realtà protettori che avevano già “sposato” molte altre ragazze per lo stesso scopo. Tuttavia, le documentazioni dimostrano anche che molte, al contrario, sapevano quale destino le aspettava in America. Alcune divennero persino abili tenutarie di bordello e reclutatrici per conto della “Zwi Migdal”.
Numerose organizzazioni antischiaviste cercarono di fermare il Traffico. Avvisarono le autorità statunitensi e piazzarono nei porti alcuni loro rappresentanti incaricati di mettere in guardia le fanciulle sui pericoli della tratta delle bianche. Ma questi sforzi da parte della comunità internazionale furono vani. Il Traffico traeva vigore dall’estrema povertà che, all’inizio del secolo, pervadeva le comunità ebraiche dell’Europa orientale. Molte delle ragazze ebree reclutate per la prostituzione provenivano da ghetti urbani sovrappopolati o da shtetl rurali disperatamente poveri.
ìLa prima tappa di questa catena di montaggio del vizio erano le “case di istruzione” in cui le donne e le ragazze appena arrivate imparavano il mestiere; gestite da tenutarie spesso sposate con figure di spicco del mondo malavitoso, erano sparse in tutto lo scalcinato distretto a luci rosse nel centro di Rio. Una volta arrivata in città, una nuova recluta poteva restare in una casa d’istruzione anche per due settimane. L’ “istruzione” consisteva nel convincerle in tutti i modi ad accettare quel lavoro; venivano percosse e sfruttate finché, apparentemente, acconsentivano a fare le prostitute. In seguito venivano portate a “lavorare alla finestra”, ovvero a mettere in atto l’arte dell’adescamento sporgendosi dalle finestre dei bordelli, “una rosa tra i capelli, un’altra in mano, sorridendo ai giovanotti di passaggio”.
ìLe “mense” loro destinate erano altrettanto squallide.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento a Rio c’erano tre cucine clandestine di questo tipo, allestite come mense dell’esercito, dove le prostitute mangiavano oppure dove i pasti venivano preparati per poi essere recapitati nei vari postriboli.
ìL’elaborata infrastruttura faceva in modo che le donne introdotte clandestinamente in America dall’Europa orientale fungessero da importanti rotelle dell’ingranaggio di quelle che erano efficientissime imprese basate sullo sfruttamento. In un destino parentale fra povere, alcune riuscivano a ritagliarsi un ruolo di partnership con i propri sfruttatori, infierendo su ragazze disgraziate come loro, acquisendo, probabilmente, la stessa ferocia dei loro aguzzini.
Le ragazze che rifiutavano di obbedire o osavano denunciare i protettori alla polizia erano spesso vittime di un trattamento crudele: alcune venivano seviziate, altre uccise.
ìIl reporter francese Albert Londres, fu molto attento al fenomeno e a documentare in quale modo gli sfruttatori europei introducessero clandestinamente in Argentina queste ragazze.
Le autorità si preoccupavano essenzialmente della folla cenciosa che viaggiava nella stiva. Erano quelli i nuovi arrivati problematici, da chiudere immediatamente dietro il cancello metallico verde dell’ ostello per gli immigrati. Avevano i pidocchi? Quale genere di malattie stavano introducendo in Argentina? Avevano denaro? Un lavoro? Amici o parenti nel paese? Come intendevano sopravvivere? Ma ben poche delle nuove arrivate destinate alla prostituzione finivano nell’ostello per gli immigrati dove forse sarebbero state salvate da una vita di schiavitù nei fatiscenti bordelli che fiancheggiavano il porto a La Boca, letteralmente la bocca del Rio de la Plata.
ì”La Boca: la Bocca di Buenos Aires. Il più meridionale dei tre grandi porti del mondo. Per arrivare alla Boca bisogna fare altri tre chilometri. Osservate la mappa: vedrete che le donne che sono lì non potrebbero effettivamente scendere più in basso di così. La Boca è la fine del mare. (…) La Boca è come una coscienza che, appesantita di tutti i peccati morali e trascinata a riva, sopravvive alle maledizioni del mondo” (Albert Lourdes).
ìInizialmente, molte di coloro che si ritrovarono poi nelle case chiuse di La Boca giungevano in Argentina come clandestine, spacciandosi per lavandaie quando s’imbarcavano nei porti europei. Forse erano prive di documenti di viaggio e minorenni. Senza dubbio quasi tutte si credevano dirette in Sudamerica per lavorare come sartine o commesse. Ben poche sapevano quale destino le attendeva.
ìQuando il transatlantico attraccava a Buenos Aires, un gruppetto di passeggiatrici e sfruttatori
Si rivolgevano a loro con domande in yiddish, indirizzate alle giovani donne stanche e intontite che sbarcavano da sole, per attirare la loro attenzione.
L’opera di reclutamento era davvero facile? Le poverine finivano cosi di buon grado nei postriboli? Giungevano così in fretta a fidarsi ciecamente di costoro?
ìI protettori “venivano a vederle, a esaminarle, a tastarle accuratamente, perché un dente marcio o un lineamento deformato da un incidente facevano diminuire più o meno considerevolmente il valore intrinseco dell’oggetto”. Un vero e proprio mercato dove
non era insolito che le autorità locali, per esempio alti papaveri della politica o giudici che erano sul libro paga dei papponi, si dedicassero a un piccolo tour delle aste per poter visionare in anteprima la nuova “merce” giunta dall’Europa. Normalmente il banditore parlava ad alta voce mentre le donne erano costrette a sfilare nude nella stanza, “queste infelici fanciulle, come Frine, esibite davanti a questo areopago di persone meschine”. In quel “mercato mobiliare costituito da donne”, come lo definì un quotidiano locale, gli spettatori erano incoraggiati ad “avvicinarsi alle schiave per tastarne le forme oppure esaminare certe parti anatomiche onde determinare il loro valore per i bordelli”. Alcuni compratori si comportavano come se si trovassero a un’asta di bestiame, ghermendo il seno delle povere tutte, infilando loro le dita in bocca per esaminarne i denti e tirando loro i capelli.
Le vergini spuntavano il prezzo più alto, di solito tra le trecento e le quattrocento sterline, una somma cospicua nell’Argentina fin de siècle. Naturalmente il prezzo era giustificato: un “esemplare” grassottello, avvenente e virginale valeva tanto oro quanto pesava e, in qualche mese di lavoro, poteva guadagnare più del triplo del suo prezzo d’acquisto.
Unica differenza per gli sfruttatori era considerato lo stato gravidico della donna poiché nessuno di essi desiderava sobbarcarsi il fardello rappresentato dall’acquisto di una donna incinta. Ci sarebbero state spese ospedaliere o parcelle per l’aborto. Naturalmente le si poteva facilmente detrarre, come tutte le altre spese, dai guadagni delle prostitute ma alla fin fine una ragazza gravida non costituiva un prodotto pregiato. Non come una vergine che, a prescindere dall’aspetto fisico, poteva essere pagata cifre astronomiche.
ìA Rio de Janeiro, la rete di postriboli controllata dagli sfruttatori provenienti dall’Europa orientale era organizzata in modo impeccabile. I protettori univano le loro risorse finanziarie per assoldare un esercito di cuochi, tenutarie, avvocati e altri dipendenti il cui unico scopo era far sa che l’attività dei loro bordelli procedesse senza intoppi.
Il distretto a luci rosse era dominato, a quei tempi, da ex schiave di colore che si erano date alla prostituzione. Una donna di colore ultracinquantenne nota nel mondo della malavita come Barbuda, dominava i cosiddetti bordelli delle schiave; specializzata nello sfruttare “schiave nere giovani e belle” da lei acquistate negli anni in cui la schiavitù era ancora autorizzata. Tra le dipendenti era famosa per la sua brutalità, imponendo “castighi barbari” a quelle che rifiutavano di cooperare.
Anche se le schiave di colore rappresentavano il punto di forza dei quartieri a luci rosse di Rio, l’afflusso di nuovi immigrati e la ricchezza in rapida crescita dell’élite bianca provocò un’enorme domanda di prostitute straniere.
La maggior parte delle donne di piacere ebree lavorava nelle cosiddette case da cinquanta cent e da un dollaro che, per usare le parole del Bureau di igiene sociale di New York, erano semplicemente “inadatte all’abitazione umana”.
Le meretrici ebree erano per lo più destinate alla clientela proletaria, “di solito scaricatori di porto, camionisti, spazzini, carbonai, soldati e marinai, immigrati giunti di recente e con bassi standard morali, e operai di ogni genere”.
Lavoravano come schiave, soggette a quello che un ispettore definì il “brutale” trattamento dei protettori. Il registro contabile di un bordello da cinquanta cent attesta che una certa prostituta ricevette 273 uomini in due settimane, “una media di 19 al giorno (il suo picco fu 28 inun solo giorno) , fruttando alla casa 136,50 dollari”. Altre due donne dello stesso postribolo ricevevano tra i 120 e i 185 uomini a settimana, con una di loro che soddisfò 49 clienti in un unico giorno.
Naturalmente, quasi tutte soffrivano di malattie veneree di ogni genere. Gli studi d’igiene condotti nella città agli inizi del secolo scorso mostrano che circa l’ottanta per cento delle prostitute di Manhattan aveva una malattia trasmessa per via sessuale che spesso le portava alla morte, una morte solitaria e priva di ogni conforto.
Quelle che assistevano ai loro funerali sicuramente temevano la stessa fine tanto che ad un certo punto, decisero di impedire che anche a loro toccasse lo stesso destino.
“In vita sopportavano umiliazioni, abusi ed emarginazione, ma la morte era diversa. La mattina di buon’ ora, quando nei bordelli regnava il silenzio, quante di loro restavano sveglie a pensare alla morte nell’angusto letto dall’intelaiatura metallica, accanto a un cliente che russava? L’idea di mori re non le tormentava, era il rischio di farlo senza dignità che le ossessionava. Qualcuno si sarebbe ricordato di loro? Ci sarebbe stata una lapide con il nome sulla loro tomba? Qualcuno avrebbe recitato il Qaddish per loro?”.
Le prostitute e gli schiavisti coinvolti nella tratta delle bianche nell’America latina erano rigorosamente banditi dalla comunità ebraica rispettabile, l’unica che avrebbe potuto aiutarle.
Costrette alla schiavitù sessuale lontano da casa ed evitate proprio dai loro simili, le prostitute ebree di Rio de Janeiro fondarono quindi una propria organizzazione religiosa e caritatevole che non ha precedenti storici in nessuna parte del mondo.
L’organizzazione nacque come confraternita funeraria volta ad assicurare un’adeguata sepoltura ebraica alle sue iscritte, che nel 1916 avevano già acquistato l’appezzamento a Inhauma per farne il loro cimitero e prima degli anni Quaranta comprarono un edificio al centro di Rio che trasformarono in sinagoga e uffici amministrativi.
Benché il suo nome ufficiale, tradotto dal portoghese, fosse Associazione filantropica e funeraria ebraica, la maggior parte dei suoi membri la chiamava con il suo nome ebraico, Chesed Shel Errmess, “Società della Verità”. Le donne che ne facevano parte si definivano “sorelle” e quelle che costituivano il consiglio direttivo divennero note come “sorelle superiori”.
In concorrenza a questa, anche i protettori fondarono organizzazioni benefiche e religiose di mutuo soccorso dirette da loro stessi ma in realtà per assicurarsi una prosperità duratura e conquistare un prestigio che non si sarebbero mai visti concedere all’interno di comunità di ebrei perbene. A New York i principali responsabili di questa “tratta”, che possedevano e gestivano i bordelli del Lower East Side in cui lavoravano prostitute dell’Europa orientale, formarono nel 1896 l’Associazione benefica indipendente che, fondata come società finalizzata al commercio e ai servizi funebri, nel suo periodo di maggior successo guadagnava più di un milione di dollari netti grazie al commercio di carne umana nella sola New York.
Ma l’organizzazione creata dalle donne a Rio de Janeiro era unica perché fondata non dagli oppressori bensì dalle oppresse. “L’aspetto straordinario di questa vicenda è che in nessun’ altra parte del mondo le prostitute, soprattutto ebree, si sono riunite per creare una propria associazione religiosa” (Zevi Ghiivelder) che mantennero in vita per più di mezzo secolo.
Fu proprio nei primi anni del Novecento che alcune di loro cominciarono a parlare della creazione di una loro società funeraria, un progetto davvero radicale per un gruppo di donne emarginate decise a metterlo in atto da sole.
Il l0 ottobre 1906, una prostituta chiamata Mathilde Huberger convocò una riunione straordinaria in un fatiscente bordello nei pressi del porto. Lei e le altre otto polacas che vi si presentarono sapevano a stento leggere e scrivere, ma in qualche modo riuscirono ad abbozzare il progetto per un’organizzazione che chiamarono Associazione ebraica benefica e funeraria. Avevano scopi davvero ambiziosi: oltre ad aprire una sinagoga intendevano fondare una scuola religiosa per i loro figli, e con le quote mensili che il direttivo avrebbe raccolto dalle iscritte si sarebbe istituito un fondo speciale volto a fornire alle donne tutto quello di cui potevano avere bisogno durante la vecchiaia: farmaci con prescrizione medica, visite di specialisti, cure ospedaliere e shabbat.
Anche Sophia Chamys, Rachel Liberman e Rebecca Freedman, le tre donne ebree di cui racconta la Vincent, erano giovani donne ebree cresciute nell’Europa Orientale e anche loro per sfuggire alla miseria , abbandonarono i villaggi e i ghetti cittadini, alla ricerca di una sorte migliore.
Anche loro furono ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi, come accade a migliaia di altre donne ebree. Giudicate impure dalla comunità semitica ed espulse dalle sinagoghe, venne loro rifiutata la sepoltura ebraica..
Seppur oltraggiate e sfruttate, Sophia, Rachel e Rebecca, affrontano la loro sorte con fermezza e dignità mantenendo viva la loro fede.
Il racconto che fa l’autrice, ci riporta a quella moltitudine di polacas arrivate con il piroscafo, ignare della propria sorte; a Sophia Chamys che, tredicenne, non aveva mai conosciuto un uomo come quello che credette suo marito e anni dopo, in Brasile “quando raccontò la sua storia alla polizia, ricordava ancora il profumo dell’olio di lavanda che lui usava sui capelli e la sensazione che le davano i suoi fazzoletti di seta sulla pelle. Ma soprattutto ricordava le sue mani, cosi eleganti e lisce, come quelle di un bambino. Nello shtetl alla periferia di Varsavia, dove lei divideva con i genitori e la sorella minore una casetta dal tetto di paglia con una sola stanza, tutti avevano mani da lavoratore: deformi, perennemente screpolate, bruciate dal sole e coperte di vesciche indurite” e che forse credeva davvero di essere arrivata in quel paese, incredibilmente ricco e fiabesco, chiamato America.
Le morti erano molto frequenti fra le polacas e Rebecca Freedman si offrì di lavare i loro cadaveri
“In qualità di ebree pie, tutte le prostitute avrebbero dovuto essere ansiose di collaborare al tahara, la purificazione e preparazione rituale dei cadaveri alla sepoltura, ma la verità è che ben poche di loro avevano il coraggio di rimanere ferme accanto ai corpi afflosciati e nudi delle colleghe per lo più giovani donne – stesi sul tavolo di marmo bianco nella casetta accanto al cimitero. Ben poche riuscivano a costringersi a ripulire da sangue secco ed escrementi le vittime di un omicidio o a fissare troppo attentamente l’espressione tormentata delle suicide, molte delle quali sembravano affrontare la morte con l’intontimento sbigottito di sempre, gli occhi sgranati come se avessero davvero compreso l’orrore del loro atto solo quando ormai era troppo tardi.
Per alcune l’odore putrido della carne in decomposizione era semplicemente troppo. Impregnava i vestiti, si insinuava sotto la pelle, rivoltava lo stomaco. Ecco perché erano cosi grate a Rebecca e non si interrogavano mai sulle sue motivazioni, sulla sua ossessione per la purificazione.
La donna maneggiava i cadaveri con grande solerzia e profondo rispetto. Con dita pazienti staccava la garza incrostata di sangue dalle ferite da coltello, chiudeva delicatamente gli occhi itterici delle vittime della febbre gialla, sfilava gli indumenti cenciosi fradici di sudore, lisciava con acqua e una spazzola i lunghi capelli arruffati, toglieva addirittura il sudiciume da sotto le unghie. A quel punto, con l’aiuto di un’altra donna, versava l’acqua contenuta in varie caraffe di terracotta allineate sotto il tavolo di marmo, svuotandole sul corpo della defunta. Sapeva che questo simboleggiava il miqwè o bagno rituale finale a cui si sottoponevano le donne ortodosse dopo ogni ciclo mestruale.
Per anni immaginò che l’acqua lavasse via la vergogna e le sofferenze delle ragazze degli
shethl, le fanciulle venute così volentieri in America a cercare fortuna solo per ritrovarsi completamente inermi e sole.
Esisteva forse un destino peggiore che morire di febbre gialla, in miseria, su un materasso puzzolente in un bordello di scandole così lontano da casa? Sì. Per un ebreo era di gran lunga peggio morire senza dignità e con l’anima macchiata.
Quante prostitute ebree erano spirate senza la redenzione finale delle acque? Quante erano morte impure?”.
Rebecca Freedman non era presente alla prima riunione della Società della Verità, ma non aveva alcuna importanza. I suoi servigi e la sua ossessiva dedizione all’ente le valsero il rispetto delle donne, che sarebbero giunte a definirla la loro regina.
Rebecca Freedman non è sepolta nel cimitero delle prostitute a Inhauma. Quando morì, nel 1984, la Società della Verità era ormai scomparsa da tempo e non restava nessuno che potesse seppellirla nel camposanto che era diventato il simbolo della sua lotta. Quasi tutte le sue amate sorelle erano scomparse già da molti anni. Rebecca, che viveva ai margini della società, lottando per conquistare la dignità e il diritto di praticare la sua religione, riposa tra gli ebrei “perbene” nel cimitero ebraico di Caju.
Purtroppo le cose raccontate in questo libro, basate su documenti ed una ricerca precisa, non ci allontanano molto dalla realtà delle odierne schiavitù cui le donne sono sottoposte.
Pur essendo passato ormai più di un secolo, giovani donne dei paesi dell’Europa dell’est
vengono indotte al mestiere di prostitute e subiscono gli stessi violenti maltrattamenti, quando non se ne ritrovino i cadaveri.
All’ epoca dei fatti narrati non solo povertà ma anche, o inoltre, l’antisemitismo, convogliarono una moltitudine di ebrei/e fuori dai propri paesi.
All’interno di questi gruppi di uomini, disposti a tutto per cogliere un benessere facile, la prima azione che si compì fu lo sfruttamento verso il più debole.
Nel caso di genere, verso le donne si è compiuta (e si compie) una vera e propria azione criminale e discriminatoria che appare difficilmente estirpabile alle radici della storia.
La miseria è la prima imputata, responsabile all’origine di questo percorso; ma una volta che essa conduce verso il degrado e lo sfruttamento, le cose assumono una luce ancora più sinistra. Quello che colpisce ancora è la scala di potere che si forma fra oppressori ed oppressi nella gestione dello sfruttamento.
Si stabilì, infatti anche fra le sfruttate, una sorta di leadership e alcune di esse si offrirono come collaboratrici dei malfattori nell’adescamento prima, nell’obbligo all’esercizio di prostituzione poi, infine nel controllo totale della persona.
Un ciclo vizioso: la società contro gli ebrei, gli ebrei contro le ebree, le nere contro le bianche, le ebree inserite nel giro contro le giovani reclute…una sorte di gironi infernali che in questo libro si evincono con molta crudezza.
Eppure, nonostante tutto e alla fine, l’unica forma di solidarietà che queste donne riescono a mettere in atto è proprio fra di loro, quando prendono coscienza che davanti alla morte sono tutte, indistintamente, sole e abbandonate come cani sul ciglio della strada.
L’autrice si sofferma nel raccontare come, nonostante quell’immane tragedia, la loro “Società della verità”, nacque, si organizzò e crebbe; essa consenti, se non di eliminare il dolore dell’esclusione, di recuperare almeno la dignità umana.
Ed è tutto ciò che rende tragico ma anche straordinario il racconto di Isabel Vincent.
CORPI E ANIME
Il tragico destino di tre donne ebree
di Isabel Vincent
Garzanti Editore