L’introduzione di Tobia Zevi al libro La rivolta degli zingari di Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano (Ed. Mursia)
Zingari ed ebrei, in fuga dai nazisti, che si incontrano. Diffidenza, paura, smarrimento. Solo dopo essersi finalmente riconosciuti i due gruppi si sciolgono in una danza liberatoria, sulle note della musica klezmer e di quella gitana. Molti ricorderanno questa scena dal meraviglioso film «Train de vie», uno dei pochi casi in cui la Shoah ed il Porrajmos vengono messi in relazione. E questo è il primo merito del libro: raccontare con rigore scientifico – ma anche con pathos – il massacro nazista delle popolazioni nomadi della Germania e dei paesi est-europei. Una storia poco conosciuta (al pari delle persecuzioni a portatori di handicap, malati mentali, omosessuali, testimoni di Geova) dai tratti di violenza ed inumanità difficilmente immaginabili. Se la memoria della Shoah ha assunto un’importanza assoluta sul piano culturale e mediatico – il che non vuol dire che il fenomeno sia realmente conosciuto! – non possiamo affermare la stessa cosa per quanto riguarda la vicenda degli zingari.
Diversi fattori possono aver contribuito a questo stato di cose. In primo luogo le testimonianze del Porrajmos sono state disponibili generalmente per un lasso di tempo più breve, poiché l’aspettativa di vita è assai più bassa tra i nomadi (e si ricordi che dopo la guerra non fu immediato il racconto dei superstiti). Inoltre gli zingari erano già poco integrati nelle società europee. La loro tradizione millenaria, presente fin dal Medioevo, non era mai stata centrale per le culture del continente, come invece era stata quella giudaica per il Cristianesimo e poi a partire dall’Emancipazione. Gli ebrei avevano combattuto nella Grande Guerra – si pensi alla drammatica conclusione dell’«Amico ritrovato» di Fred Uhlman – e si consideravano francesi, tedeschi, italiani. Sovente erano stati nazionalisti, nel nostro paese la gran parte era favorevole al fascismo.
Da ultimo ha influito il confronto con la Shoah. Il computo numerico delle vittime e la pianificazione industriale nell’annientare il primo popolo monoteista ha reso unico il loro genocidio. Un secolo terrificante come il Novecento ha fatto della contabilità dei morti uno strumento comune e non sempre privo di utilità. Ed è per tutto questo che è assolutamente necessario recuperare una consapevolezza storica del Porrajmos, nel momento in cui si va chiudendo, anche per lo studio della Shoah, quella che è stata definita «Era del testimone».
Ma a cosa serve ricordare? La risposta più efficace, e paradossalmente banale, ce la fornisce Primo Levi ne «I sommersi e i salvati», lo straordinario saggio sull’esperienza e sulla memoria di Auschwitz che egli scrisse a un anno dalla sua tragica scomparsa. Affinché non accada mai più. Mai più. È plausibile che qualcosa di simile accada oggi, in un’epoca di prosperità e di sviluppo (almeno nella metà del mondo che mangia)? Secondo l’autore di «Se questo è un uomo» sì, la storia non insegna e l’uomo continua a perpetrare ingiustizie e sopraffazioni, come già dimostrano le varie carneficine della seconda metà del secolo scorso. Non può non colpire che ad affermare una verità così amara sia proprio Levi. D’altra parte è lecito nutrire dubbi sull’eventualità che oggi, in un pianeta così stabilmente interconnesso, un progetto sistematico di annientamento per ragioni culturali o etniche possa avere luogo con le medesime modalità. I massacri della ex-Jugoslavia, del Rwanda, del Darfur (tuttora in atto) sono impressionanti ed inaccettabili, scandalosamente tollerati dalla comunità internazionale per ragioni di realpolitik, ma certamente diversi dalla Shoah.
Occuparsi di memoria però ha senso solo se questa acquisisce una dimensione attiva, non monumentale, non retorica. Porre l’accento sulle responsabilità, indurre i giovani ad immedesimarsi non esclusivamente con le vittime, ma anche coi carnefici e con chi stette a guardare, spingerli ad indignarsi per l’ingiustizia dovunque si trovi. Il mondo non può essere globale quando serve – internet, viaggi low-cost, occasioni professionali -, e nazionale quando si ha che fare con la sofferenza altrui.
La nota più preoccupante, tuttavia, è che sentimenti che ritenevamo ormai estranei al nostro dna – razzismo, xenofobia, antisemitismo, o «nuove» apparizioni come l’islamofobia – sono recentemente tornati di attualità anche in Italia. Il tema della «sicurezza», ovviamente cruciale per l’opinione pubblica, è stato frequentemente cavalcato per ragioni elettorali o di bottega. Si è soffiato sul fuoco dell’intolleranza utilizzando terminologie pericolose nei riguardi, tra gli altri, di romeni, musulmani, immigrati in generale e naturalmente degli zingari (nel nostro paese poco più di cento mila, la gran parte cittadini italiani!). Un meccanismo perverso – aggravato da provvedimenti legislativi ingiusti e discriminatori nei confronti degli immigrati – che tende a creare nell’immaginario collettivo fantasmi di «gruppi» indipendentemente dalla loro reale composizione sociale. Il rumeno che stupra, lo zingaro che ruba (i bambini!), l’immigrato che delinque, il musulmano che ci invade. Non contano i numeri, i dati oggettivi, persino la percezione individuale passa in secondo piano: l’anziana di provincia che tiene da sempre la porta di casa aperta gira senza ragione la chiave nella toppa, la donna teme di essere violentata percorrendo le strade dove ha sempre passeggiato, il pensionato assistito dalla badante rumena ha paura dell’etnia di cui questa fa parte. Si è decisamente passato il segno, sebbene nessuno contesti che la sicurezza debba essere un valore per tutti, indipendentemente da destra e sinistra.
Per gli zingari, poi, – soprattutto in un’epoca instabile come la nostra, aggravata da una crisi economica spaventosa e da un ingigantirsi inevitabile dei flussi migratori – la situazione è ancora più complessa. Uno stile di vita alternativo al nostro, nomade e non stanziale, con una tradizione eminentemente orale (bellissime le pagine sul diario a più mani redatto nello Zigeunerlager). La paura del diverso, che è spesso alla base dell’intolleranza, si nutre in questo caso anche di un’alterità oggettiva di tipo culturale ed esistenziale, percepita però come minacciosa – in un certo senso come temendo la propria immagine riflessa nello specchio – in un’epoca di mutamento, di precarietà, di transizione. La globalizzazione è certamente un’opportunità, ma ha mostrato di essere anche fonte di ingiustizia, ed il nomadismo è degli aspetti negativi simulacro di straordinaria potenza evocativa. Non è strano che su questo elemento abbiano storicamente fatto perno le persecuzioni ad ebrei e zingari, i due popoli senza terra che hanno attraversato la storia europea. Nel caso degli zingari senza aver mai imbracciato armi, cosa non priva di importanza!
Nella tradizione giudaica Amalek, lo spirito demoniaco, si può manifestare in vari modi. Egli vuole distruggere il popolo ebraico o sul piano fisico o su quello spirituale. La prima modalità è incarnata da Aman, plenipotenziario del re di Persia che tentò di sterminarli poiché rifiutavano di inchinarsi al suo passaggio (Hitler è stato ritenuto il nuovo Aman), la cui sconfitta viene celebrata nella festa di Purim; per la seconda ci si riferisce invece ad Antioco III Epifane, reggente della Palestina ellenista, che vietò di pregare nel Tempio e di osservare i precetti religiosi, e che fu sconfitto nella rivolta guidata dai Maccabei. Oggi tutti abbiamo sfide importanti davanti a noi. Le classi dirigenti, la politica, chi si occupa di memoria, devono evitare l’imbarbarimento della nostra società – anche dal punto di vista linguistico, con il pretestuoso attacco al politically correct – e del nostro modo di rapportarci con il diverso. Per quel che riguarda gli zingari non dobbiamo temere solo la violenza vera e propria – il raid di Ponticelli – ma anche lo scherzo sull’autobus, lo sguardo di sufficienza, l’incapacità di vedere in quella persona un altro essere umano che ride, soffre, ama e sbaglia. La vergogna non è solo non volerli, ma anche accettarli purché siano come noi, estirpandone particolarità e cultura. Dal sentirsi superiori all’aggressione, il passo è più breve di quello che immaginiamo. Spesso, purtroppo, nell’indifferenza colpevole di tutti.
Roma, Febbraio 2009