Tutti sanno che la creazione di uno Stato-nazione per gli Ebrei nella loro terra d’origine, la Palestina, fu il cavallo di battaglia del movimento sionista, nato alla fine del XIX secolo per opera del giornalista Theodor Herzl. Così come tutti sanno che questo sogno fu coronato ufficialmente il 14 maggio del 1948, con la proclamazione dell’indipendenza dello Stato d’Israele.
Quello che non molti ignorano, però, è che i tentativi di riportare gli Ebrei in Palestina sono precedenti al movimento sionista. E uno di questi ebbe luogo addirittura nel XVI secolo, ad opera di una delle figure più interessanti dell’epoca: Yossef Nasi, mercante, diplomatico dell’impero ottomano e signore di Tiberiade.
In giro per l’Europa
Yossef nacque in Portogallo nel 1524, col nome di João Miques, all’interno di una famiglia di marranos sefarditi, ossia di Ebrei iberici ufficialmente convertiti al Cristianesimo ma segretamente ancora praticanti del Giudaismo.
Suo padre Agostinho era medico e professore all’università di Lisbona, mentre sua zia Gracia aveva sposato Francisco Mendes, che aveva cominciato con il commercio del pepe dalle Indie Orientali per poi metter su un impero commerciale e bancario insieme al fratello Diogo. Insomma, non se la passava male.
Nel 1536 papa Paolo III ordinò la costituzione dell’Inquisizione portoghese: si prospettavano tempi duri per gli Ebrei convertiti, che sarebbero finiti nel suo mirino perché sospettati (spesso a ragione) di praticare segretamente la fede giudaica. Due anni dopo don Francisco Mendes morì e doña Gracia ereditò metà dei suoi beni; quindi pensò bene di trasferirsi ad Anversa, dove il cognato Diogo Mendes aveva già aperto una filiale dell’attività di famiglia. La donna portò con sé la figlioletta Ana, la sorella Brianda e il nipote, il nostro Yossef.
La società dei Mendes (che alla morte di Diogo nel 1542 passò totalmente nelle mani di Gracia) non si occupava solo di commerciare spezie esotiche o di prestare soldi ai regnanti europei. Segretamente contribuì a costruire e mantenere viva una vera e propria rete di salvataggio per gli Ebrei, che venivano aiutati a lasciare la Spagna e il Portogallo per raggiungere l’impero ottomano, dove c’era decisamente più tolleranza.
Come è facile immaginare, Yossef cominciò a lavorare nell’attività di famiglia, imparando l’arte del commercio. A un certo punto sposò sua cugina Ana e iniziò a frequentare l’università di Lovanio.
Ma ancora una volta, le cose iniziarono a mettersi male per i ricchi e invidiati Ebrei, nel mirino dell’imperatore Carlo V. Doña Gracia si spostò a Venezia nel 1544, poi a Ferrara nel 1549, infine a Istanbul nel 1553. Yossef, invece, lasciò l’università di Lovanio nel 1547 e trascorse del tempo a Lione, prima di ricongiungersi con la zia a Istanbul nel 1554.
Il suo arrivo è descritto, non senza astio, dal viaggiatore tedesco Hans Dernschwam, anche lui nella capitale ottomana:
«Il già menzionato farabutto è arrivato a Costantinopoli nel 1554 con circa venti servitori ben vestiti che lo seguono allo stesso modo di come si fa con i principi. Indossa abiti di seta, con rivestimento di zibellino. Seguendo le usanze turche, due giannizzeri lo precedono in modo che nessuno gli possa arrecar danno.»
La signoria su Tiberiade
Gracia e suo nipote Yossef fecero subito strada a Istanbul. Maliziosamente, c’è chi pensa che dietro tale ascesa vi sia stato il medico di corte, Mose Haimon, che avrebbe aiutato la ricca Gracia nella speranza di ottenere in cambio la mano di sua figlia Ana.
Quale che sia la verità, Ana andò invece in sposa al cugino Yossef, che cominciò ad acquisire sempre maggior potere nella società di famiglia. Gracia, dal fatto suo, preferì dedicarsi al mecenatismo e alla scrittura (fu la prima donna a pubblicare un libro nell’impero ottomano e ad aprire una propria bottega editoriale), oltre che ad aiutare il suo popolo costruendo sinagoghe e scuole ebraiche.
Nel 1560 Gracia acquistò dal sultano Solimano il Magnifico, in cambio di un pagamento annuale, la giurisdizione su Tiberiade e le terre limitrofe, in Palestina. Il cronista ebreo Yossef ha-Kohen riporta invece, nella sua opera storiografica Emeq ha-Bakha, che fu Yossef Nasi a ricevere dal sultano la signoria sulla medesima città e sette villaggi limitrofi in Palestina, e che in tale veste supervisionò la ricostruzione delle mura, completata nel tardo autunno del 1564. Le due informazioni non sono necessariamente in contrasto, anzi dobbiamo immaginare che zia e nipote fossero coinvolti in egual misura e lavorassero in sinergia.
Yossef non puntava solo a ricostruire Tiberiade, ma anche a ripopolarla con coloni ebrei. L’invito fu rivolto in particolare alle comunità europee, alle prese con governi sempre meno tolleranti. A cominciare da quello dello Stato della Chiesa. Nel 1555 papa Paolo IV aveva ordinato l’arresto dei marrani di Ancona: quanti avevano accettato di convertirsi al Cristianesimo furono spediti a Malta o sulle galee, quanti avevano rifiutato si erano visti condannati all’esecuzione in pubblica piazza. E quanti erano riusciti a sfuggire all’Inquisizione avevano trovato rifugio a Pesaro, salvo essere espulsi anche da lì nel 1558 per volontà del duca Guidobaldo II Della Rovere.
Dal 1566 al 1569 fu papa Pio V, un altro campione di antisemitismo, ed è proprio a questo periodo che risalirebbe una lettera della comunità ebraica di Cori, nel Lazio, indirizzata proprio a Yossef Nasi. Nella missiva i coresi scrivono:
«A quel punto giunse a noi poveri e miserabili Giudei, impazienti di ritornare dall’esilio, una voce che annunciava una nuova marea, grazia e misericordia: il nostro signore don Yossef, al quale Dio ha dato la terra di Tiberiade, che Egli ha scelto per essere segno e simbolo della nostra redenzione e della salvezza delle nostre anime. Secondo la tradizione, gli Ebrei inizialmente torneranno a Tiberiade e da lì faranno ritorno al Tempio.
[…]
Abbiamo inoltre saputo che molti hanno già attraversato il mare, con l’aiuto delle loro comunità e del summenzionato principe [Yossef Nasi]. Ci è stato detto anche che egli cerca soprattutto artigiani ebrei, che possa far insediare e stabilire nella nuova terra.
Sentendo ciò, noi ci siamo commossi come un solo cuore e siamo andati come un sol uomo alla sinagoga. […] Lì abbiamo fatto tra di noi un accordo riguardo il nostro proposito di partire, di andare a vivere sotto le ali dell’Onnipotente, su invito dell’onorevole signore, il principe di Tiberiade.»
Non sappiamo se e quanti Ebrei partirono da Cori e giunsero a Tiberiade. Così come non sappiamo che fine fecero i 102 pesaresi che durante il tragitto caddero nelle mani dei Cavalieri di Malta: fu spedita una missiva a Yossef Nasi per informarlo della cosa, nella speranza che il potente commerciante avesse i mezzi per liberare i prigionieri, ma ignoriamo se questi riuscì a liberarli o se li lasciò al loro destino.
In un manoscritto della biblioteca di Parma, infine, si trova una postilla in cui l’anonimo scrivente ricorda che suo fratello Moses Beth-el si aggregò a un gruppo di Ebrei veneziani diretti in Palestina e raggiunse Safed insieme ai due figli e alla figlia nel 1568.
Il fallimento del progetto
Quale che sia stata la reale entità dell’immigrazione ebraica in Palestina in quegli anni, è innegabile che i progetti di Yossef Nasi fossero davvero ambiziosi.
Nel periodo trascorso in Francia dopo la fuga da Lovanio nel 1547, il nostro aveva appreso la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco da seta. Volendo fare di Tiberiade un grande centro tessile al pari di Safed vi introdusse proprio queste colture, trasformando la città in una grande esportatrice di seta in tutto il Mediterraneo.
Per un decennio Tiberiade visse un momento di splendore, ma il progetto di Nasi era destinato al fallimento. Da un lato, per una sfortunata congiuntura economica che avrebbe messo in ginocchio l’area mediterranea. Dall’altro, per l’invidia e la paura dei monaci francescani residenti in Terrasanta, che temevano di essere soppiantati dai nuovi coloni ebraici. Nel loro odio antisemita i cristiani erano appoggiati non troppo inaspettatamente dal governatore di Damasco, Alì Pasha, anche lui preoccupato dal crescente potere di Nasi.
Così scrive Bonifacio da Ragusa, capo dell’ordine francescano in Palestina in quegli anni:
«Per via della moltitudine di serpenti, Tiberiade è una città inospitale. L’infedele ebreo Zaminex [storpiatura di João Miques] spera di espellere i serpenti [cioè i musulmani] e insediare al loro posto i suoi fratelli, le velenose vipere [cioè gli Ebrei], per trasformare la nostra chiesa in una sinagoga. Per evitare ciò, mi sono consultato segretamente con Rustem Pasha e Ali Pasha e loro mi hanno promesso che non succederà una cosa del genere finché il sultano Solimano sarà in vita.»
Le speranze di Bonifacio si verificarono, almeno in parte. Dopo l’iniziale successo del progetto di Nasi, Tiberiade sperimentò un sempre più massiccio esodo di Ebrei verso lidi migliori, con il risultato che in città rimasero gli elementi più poveri e meno produttivi.
Quando Yossef morì nel 1579, la signoria su Tiberiade passò a un altro ricco mercante ebreo, Solomon ibn Yaish, che preferì incaricare della gestione del territorio il proprio figlio Yaqob. Questi si dedicò a costruire nuovi edifici e nuove case, ma sembra fosse più interessato agli studi che allo sviluppo economico della regione. Inoltre, dopo la morte di Solomon il destino sia del figlio sia della concessione ottomana su Tiberiade si perdono nelle nebbie della storia.
Il successo e la caduta
Yossef Nasi non si occupò solo della Palestina e il resto della sua carriera dimostra quanto nell’impero ottomano si potesse arrivare in alto con intelligenza, carisma, le giuste amicizie e un pizzico di fortuna.
Mentre il sultano Solimano era ancora in vita, Yossef strinse amicizia con suo figlio Selim. Come spesso accadeva alla corte ottomana, questi era in aperto contrasto con l’unico fratello ancora in vita, Bayezid, in quanto entrambi aspiravano al potere alla morte del padre. Tra i due nel 1559 scoppiò un breve conflitto civile, culminato con la sconfitta e la fuga di Bayezid in Persia; qualche anno dopo, nel 1566, Solimano finalmente spirò e Selim gli succedette a capo dell’impero ottomano.
E ovviamente si ricordò di Yossef Nasi, al quale conferì nientemeno che il Ducato dell’Arcipelago. Si trattava di un antico possedimento veneziano, comprendente le Cicladi, fondato all’indomani della quarta crociata e divenuto nel 1537 tributario dei Turchi. Ovviamente, per dare all’amico questo ducato, Selim dovette espropriarlo al suo legittimo signore, Giacomo IV Crispo, che non poté far altro che rifugiarsi a Venezia.
Proprio con Venezia scoppiò una nuova guerra nel 1570, per il controllo dell’isola di Cipro. Si diffuse la voce, mai confermata né smentita, che Yossef avesse contattato gli Ebrei di Famagusta per convincerli a tradire i Veneziani e consegnare la fortezza agli Ottomani; nel timore che fosse vero, il Senato ordinò di espellere dall’isola tutti gli Ebrei non autoctoni. Misura inutile, perché Cipro cadde comunque in mano ottomana. Si dice anche che Selim, in preda ai fumi dell’alcool, avesse promesso a Yossef di nominarlo viceré della terra appena conquistata ma poi si fosse rimangiato la parola.
Grazie alla sua rete di conoscenze in tutta Europa, Yossef fu capace di diventare una figura di spicco anche fuori dall’impero. Nel 1561 aiutò, soprattutto economicamente, Ioan Iacob Eraclide a conquistare il trono di Moldavia, e tre anni dopo avvenne lo stesso con Alexandru IV Lăpușneanu. Spronò Guglielmo il Taciturno a guidare la rivolta dei Paesi Bassi contro la Spagna, grande avversaria dell’impero ottomano nel controllo del Mediterraneo, e ottenne da Sigismondo II Augusto il monopolio del commercio della cera d’api con la Polonia.
Ovviamente, si fece anche dei nemici. Anche piuttosto illustri. Come il regno di Francia, che nel 1569 arrivò a cospirare per toglierlo di mezzo, corrompendo un Ebreo della corte di Istanbul di nome David affinché accusasse il Nasi di tradimento. Yossef non faticò a dimostrare la sua innocenza e fece in modo che David fosse esiliato a Rodi, nonché scomunicato dai rabbini. In un secondo momento pare si sia lasciato convincere della sincerità del pentimento di David e abbia tentato, senza successo, di far rimuovere la scomunica.
Tutta questa fortuna, però, non poteva durare a lungo. Nel 1574 Selim morì e il suo successore Murad III si rivelò molto meno interessato alla sua amicizia, tanto che il visir Mehmed Sokollu, suo storico rivale, riuscì senza troppi problemi a fargli perdere qualsiasi influenza a corte, ma non i titoli e le entrate. Di conseguenza Yossef poté trascorrere la “pensione” in pace nel palazzo del Belvedere a Istanbul, già residenza di sua zia Gracia, morta nel 1569. Lo stesso Yossef la seguì dieci anni dopo, nel 1579.
Non avendo figli né eredi, le sue proprietà furono confiscate da Murad III, su sollecitazione di Sokollu (che però lo raggiunse nella tomba lo stesso anno). Il Ducato dell’Arcipelago, che Nasi aveva fatto amministrare dal suo rappresentante Francesco Coronello, fu trasformato in una provincia ottomana, il sangiaccato di Nasso e Paro.
FONTI
Hans Dernschwam, Tagebuch einer Reise nach Kostantinopel und Kleinasien
The Jewish Encyclopedia (1901-1906)
Abraham David, To Come to the Land. Immigration and Settlement in 16th-Century Eretz Israel (1999)
Marianna D. Birnbaum, The Long Journey of Gracia Mendes (2003)