Il punto d’incontro tra il tempo delle lacrime e quello della gioia
Da cinquant’anni – un periodo che indica ormai stabilità – l’anno ebraico si è arricchito di Yom Ha’atzmaùt, il giorno dell’Indipendenza, che viene festeggiato sia in Israele che nella Diaspora. È questo un fatto anomalo, come se gli americani di origine italiana, oltre a festeggiare il 4 Luglio, volessero celebrare anche il 25 aprile, un giorno che ha certo segnato una svolta, ma solo per gli italiani che vivevano in Italia durante il Fascismo o che vi hanno fatto ritorno dopo essere andati in esilio. Questa dicotomia dell’ebreo che afferma di essere interamente italiano, ma anche completamente ebreo, ha dato adito in passato all’accusa della doppia – e quindi poco affidabile – lealtà ebraica.
La diversità del modo con cui gli ebrei hanno vissuto e vivono gli eventi – ovunque essi si trovino – impone una domanda: Yom Ha’atzmaùt è una festa “nazionale” o “religiosa”? Anche se questi ultimi due aggettivi danno una descrizione limitata e una visione riduttiva dell’esperienza ebraica, non si può negare che nel mondo moderno, e in quello occidentale in particolare in cui la “fede” nazionale è così labile, festeggiare, e per di più “religiosamente”, una festa “nazionale” di un altro Stato è una contraddizione.
Qual è quindi il significato che l’ebreo oggi e le generazioni future dovranno dare a questa giornata? In altre parole, Yom Ha’atzmaùt non ha niente a che fare con le altre feste dell’anno ebraico, oppure si alimenta della medesima linfa e contiene qualcosa che lo lega intimamente ad esse.
Qualcosa possiamo imparare dalla storia di Israele, dove non sono mancate polemiche tra i Maestri circa l’opportunità di istituire nuove feste, come nel caso di Purìm e Chanukkà. Nonostante siano trascorsi cinquant’anni, il processo di accettazione di Yom Ha’atzmaùt non è ancora ultimato, anzi in certi ambienti “ortodossi” esso non è mai iniziato.
Ora, comunque si voglia guardare all’evento della nascita del terzo Stato d’Israele, è innegabile che si tratta di un fatto di per sé rivoluzionario, prodotto forse dall’unica rivoluzione veramente riuscita nel nostro secolo, quella sionista. Quali saranno gli strumenti che faranno sì che la festa potrà veramente perpetuarsi nelle generazioni? Come per il passato, mi sembra che lo strumento sarà sempre quello di riempirla di contenuti riconducibili alla Halakhà e alla Aggadà.
Per quanto riguarda i primi si dovrà rispondere alle molte domande che impone l’istituzione di una festa: Chi ha il potere di istituirla? Quali sono le norme che la caratterizzeranno? Si devono dire, come per Chanukkà e Purìm, le benedizioni che si pronunciano per le cose nuove (Shehecheyànu, “che ci ha fatto vivere”), per i miracoli accaduti (she’asà nissìm, che ha operato miracoli), se di miracolo si può parlare. E ancora, è opportuno dire l’Hallèl come a Chanukkà per un “miracolo” accaduto in terra d’Israele, apportare le modifiche alla preghiera (per esempio “’Al hanissìm, per i miracoli), scegliere un brano appropriato per la lettura pubblica della Torà o dei Profeti (haftarà), interrompere il periodo di “lutto” dell’òmer e via discorrendo? Ma – e questo mi sembra ancora più rilevante – utilizzeremo fino in fondo la possibilità di applicare modernamente la Torà e in particolare le “Norme sui governanti” del Maimonide? L’introduzione di Yom Ha’atzmaùt come festa comporta quindi da una parte dei cambiamenti nella sfera del Beth Hakeneseth, ma d’altra dei cambiamenti in quella che è la vita pubblica e politica che trova la sua espressione nella Keneseth.
Per quanto riguarda l’elaborazione aggadica, non mancano certamente gli agganci per “dimostrare” come l’avvento di questa giornata non sia un fatto casuale. Intanto, si arriva a una scoperta sorprendente applicando il sistema mnemotecnico dell’Atbash (l’alfabeto ebraico al contrario). I Maestri avevano individuato un sistema semplice per poter individuare il giorno della settimana in cui cadono le feste una volta noto il giorno in cui cadeva Pésach: il giorno in cui cade il primo giorno (alef) di Pésach, corrisponde al giorno della settimana in cui cade Tishà beav (tav), il secondo (bet) quello in cui cade Shavu’òt, etc. In questo schema mancava una qualche corrispondenza tra il settimo giorno (zain) e la ‘ain. Con l’introduzione di Yom Ha’atzmaùt anche il settimo giorno di Pésach ha un suo partner, appunto ‘Atzmauth che inizia con la ‘ain.
Ma v’è molto di più. Le feste date dalla Torà (Pésach, Shavu’òt e Sukkòt) sono un’espressione di quella che secondo la mistica ebraica è chiamato “il risveglio dall’alto” (hit’arutà dele’ela); mentre Chanukkà e Purim sono un’espressione del “risveglio dal basso” (Hit’arutà diltatà). Come è scritto nel libro dei Maccabei, Chanukkà fu istituita in corrispondenza di Sukkòt (“fecero otto giorni di festa come a Sukkòt”, Purìm completa Shavu’òt, perchè è scritto che “gli ebrei accettarono a Purim volontariamente la Torà che erano stati costretti ad accettare a Shavu’òt”); per completare il quadro, mancava una festa che corrispondesse a Pésach. In effetti “la festa della liberazione” e “la festa dell’indipendenza” sono tra loro simili.
La differenza sta proprio nel fatto che la seconda è una conseguenza del “risveglio dal basso” e richiede una partecipazione attiva del popolo. Le tre idee fondamentali di creazione, rivelazione e redenzione trovano così la loro applicazione non solo nella Torà che Dio ha dato al popolo d’Israele, ma mi si permetta l’immagine, nella “Torà” che il popolo ha dato a Dio. Yom Ha‘atzmaùt si inserisce così armonicamente nell’anno ebraico e nel mondo delle grandi idee della Torà.
Uno degli elementi basilari del pensiero della Torà, infatti, resta quello secondo cui non è tanto importante la teoria o l’interpretazione, quanto l’azione. La libertà – come ogni altra grande idea – non può quindi essere un’affermazione astratta, ma qualcosa che viene accompagnato da atti concreti da compiere, sia individualmente che nell’ambito della società. Ogni cinquant’anni, nel Giubileo, accadevano due fatti importanti strettamente collegati tra loro: da una parte, la liberazione degli schiavi “recidivi” , cioè di quelli che non avevano voluto approfittare delle varie occasioni che la legge dava loro per tornare in libertà, dall’altra il ritorno della terra al padrone originario che l’aveva venduta, dopo averla ricevuta al tempo della conquista di Èretz Israèl da parte di Giosuè. Se con la festa di Pésach l’ebreo raggiunge la libertà dalla schiavitù, solo l’ingresso in Èretz Israèl e il possesso dei mezzi di produzione sono la garanzia dell’indipendenza.
Per capire appieno l’importanza di questa festa dobbiamo però fare ancora un passo. La vita ebraica si è svolta tra due poli: quello della Diaspora (Golà = ghìmel, vav, làmed, he) e quello della Redenzione (Gheullà = ghìmel, àlef, vav, làmed, he). La differenza tra le due parole sta solo nell’aggiunta di una àlef, che diventa quindi simbolo della Redenzione: noi sappiamo quanto sia preziosa e importante questa lettera con cui non inizia la Torà, ma i dieci comandamenti. Àlef, che è la prima lettera di El-okìm (Dio), perchè l’unità sta fuori dal mondo della dualità, la bet con cui comincia la Torà.
La àlef è anche quella lettera che ha trasformato le ‘Atzamòt (le ossa secche della visione di Ezechiele), in ‘Atzmaùt”. Quando “la speranza era persa” (avdà tkvatenu) – così dicevano le ossa secche di Ezechiele – lo Spirito ha soffiato nelle ossa e queste ossa sono tornate a rivivere, trasformando la golà in gheullà e le ‘atzamòt in ‘atzmaùt.
Un processo che necessita ancora di molta strada, perché secondo la definizione che noi troviamo nella preghiera per “la pace dello Stato”, Yom ‘Atzmaùt è “l’inizio della fioritura della nostra redenzione”. E, come per ogni inizio, bene ha fatto rav Maimon, tra i firmatari della carta d’indipendenza, a pronunciare la benedizione per le cose nuove.
Così fin dall’inizio della fondazione Yom Ha’atzmaùt ha assunto un significato in cui è difficile distinguere il momento “laico” da quello “religioso”. La partecipazione degli ebrei della Diaspora non può essere ricondotta alla volontà di esprimere uno spirito nazionalistico di mera identificazione con lo Stato d’Israele, ma un momento di sintesi religiosa, che come tale, viene intesa, magari solo sul piano dell’inconscio anche dai “laici”. Yom ‘Ha’atzmaùt rappresenta dunque un punto di incontro del destino del popolo ebraico, dove la storia incrocia lo spirito, l’immanente il trascendente, e il “tempo delle lacrime” “il tempo delle risa”.