La parashat Itrò è considerata la colonna portante di tutta la tradizione, la storia e l’identità del nostro popolo; in essa infatti sono contenuti gli ‘aseret ha dibberot – i Dieci Comandamenti.
La grandezza di questi dieci discorsi, pronunciati per bocca divina direttamente a tutto il popolo, che si trovava attonito alle pendici del Monte Sinai, sta nell’ innovazione di far sì che un popolo fosse considerato tutto alla stessa stregua, in totale assenza di una gerarchia – chi più chi meno importante – con a capo un unico imparziale Sovrano:
“Anokhì A’ Elo-hekha – Io sono il Signore D-o tuo”.
Quindi il dovere del popolo è quello di sentire tutti gli stessi diritti, tutti i medesimi doveri.
Nel racconto della promulgazione del Decalogo, la Torà esordisce con le parole “vajachanù ba midbar va ichan sham Israel neghed ha har – e si accamparono nel deserto e si accampò Israele di fronte al Monte”.
Rashì commenta con una espressione grandiosa che è poi considerata il destino del nostro popolo in tutta la nostra storia: “ke ish echad be lev echad – come un solo uomo con un solo cuore”.
Infatti appena usciti dall’Egitto gli ebrei erano un gruppo di persone, senza un punto di riferimento; quel punto di riferimento lo trova soltanto nel luogo dove, di li a poco, verrà donata la Torà. Quindi, da quel momento è possibile considerare quell’insieme di gente, un’unica persona, come avessero un solo cuore.
Rambam – il Maimonide, si chiede il motivo per cui il Decalogo inizia con la parola “anochì” e non “Anì” entrambi significanti “Io sono”.
Egli spiega che le lettere che compongono il Decalogo, sono 613 come le mitzvot; mentre se fosse iniziato con “Anì” la somma delle lettere sarebbe stata 612.
Cosa significa questa spiegazione?
Rambam sostiene che, attraverso l’osservanza delle 613 mitzvot, si garantisce al popolo una indennità e quindi soltanto quando c’è una indennità, può esservi responsabilità.
Quella responsabilità che accompagna la vita di ogni ebreo nei confronti del suo prossimo ossia di un altro ebreo.
“Ogni ebreo è responsabile dell’altro” ci ammoniscono i nostri Maestri; questo è il nostro destino. La settimana scorsa, nel mio devar Torà al tempio, ho spiegato che la somma delle lettere del nome ‘Amalek, è 240 lo stesso numero corrisponde alla somma delle lettere della parola safek – dubbio. Dove c’è un dubbio non c’è sicurezza, non c’è fiducia in D-o e in se stesso e questo porta alla spaccatura, nella quale si insedia ‘Amalek che è il peggior nemico del nostro popolo. Quindi l’esperienza di ‘Amalek, la sofferenza che ci ha portato l’Amalek di tutta la nostra storia, deve avere come finalità quella di far sì che potessimo compattarci, fino ad essere Ke ish echad be lev echad – volenti o nolenti.
Shabbat shalom