Intervista con Gioele Dix
Brunetto Salvarani
Gioele Dix, ovvero Davide Ottolenghi, attore: prevalentemente comico, di teatro, Tv (da Mai dire gol a Zelig) e cinema. Ma anche autore di libri di successo, fra i quali si insinua, nel 2003, uno spiazzante La Bibbia ha (quasi) sempre ragione. Spiazzante perché, ovvio, si ride mentre lo si legge (o se si ha la fortuna di incrociare la versione teatrale), anche se il sacro non ha sempre fortuna quando incrocia l’umorismo, ma si pensa anche. E si riflette inevitabilmente sulle radici ebraiche di Davide-Gioele, che affiorano qui costantemente, con la sfrontatezza di un figlio di una tradizione abituata dalla notte dei tempi a trovarsi con Dio faccia a faccia.
Vi si racconta, alla maniera dei midrashim, il Dio geniale ma svogliato della creazione, l’Adamo spaesato e alienato dai primi giorni nell’Eden; le peripezie di un Giona, tutt’altro che succube agli ordini divini, che si ritrova nella pancia della balena («Che faceva per ingannare il tempo? Contava i villi intestinali?»); le perplessità, anche giuridiche, di Abramo sul patto e sulla circoncisione («Proprio lì? Non si poteva fare su un’unghia?»); la carognata che Giacobbe mise in atto contro il fratello gemello e le umiliazioni cui si sottopose poi per amore di Rachele, compreso accettare di sposare prima la sorella bruttina… Per finire con le visioni da poeta psichedelico del profeta Gioele (al quale egli è, per ovvi motivi, molto affezionato). In questo momento Dix è impegnato nella stesura del suo primo romanzo («Spero non sia anche l’ultimo…», dice lui sornione), la storia – vista con uno sguardo tra il vitale e il malinconico – di un uomo che compie quarant’anni, cosa che gli suscita non pochi interrogativi sul proprio futuro. Il titolo sarà Sono io il tuo principe azzurro, e la sua uscita è prevista, presso Mondadori, per il prossimo Natale.
Può descriverci le sue prime relazioni con la dimensione religiosa della vita? Ha avuto maestri, o figure di riferimento?
«Beh, la persona che mi ha trasmesso maggiormente un senso religioso della realtà – ovviamente, in chiave ebraica – è stato mio nonno paterno, Maurizio, forte di una religiosità salda e tradizionale… del tipo “Ricordati che Dio ti vede sempre”, frase che mi ripeteva con una certa frequenza. È grazie a lui che ho compreso la necessità di avere un’identità religiosa, soprattutto come punto di riferimento etico. Come si sa, l’ebraismo possiede una grande varietà di sfumature, e vi vengono accettate le più diverse gradazioni: nessuno, lì, ha il diritto di dirti: tu sei fuori… anche se, pure qui, c’è chi si sente più uguale degli altri! La mia formazione è dunque legata a una religiosità tradizionale, con le feste rituali e il tempo dedicato alla preghiera… C’è poi un’altra persona che è stata importante in questa direzione: un amico fraterno con cui sono cresciuto, Renzo, che purtroppo non c’è più perché è morto a soli ventinove anni in un incidente stradale. Lui, che era un attivista di Comunione e liberazione, mi ha aperto all’idea che la religione possa servire nella vita di tutti i giorni, come una militanza e, insieme, una forza vitale. Lui pregava con precisione, trovava il tempo per la preghiera, cui si rapportava con una modalità ripetitiva: e questo mi colpiva, lo sentivo migliore di me. Dal canto suo, Renzo invece era spesso scontento, e diceva che ero meglio io… ci siamo influenzati a vicenda».
Che ruolo ha la dimensione spirituale nella fase attuale della sua esistenza?
«Ho maturato l’idea che essere credente sia una dimensione vitale, attiva, non fissa, che si dilata continuamente e cresce… anche se la vita non sempre ti fa incontrare delle cose belle! Da parte mia, ho sempre rifiutato, e rifiuto tuttora, l’ipotesi della religione come consolazione, come rifugio quando le cose non funzionano a dovere; e trovo che l’idea secondo cui il Signore Iddio si occuperebbe personalmente delle nostre faccende sia piuttosto fuorviante… come nel caso, buffo, di qualcuno che si è salvato miracolosamente da un incidente e ringrazia Dio per lo scampato pericolo attribuendo a Lui la cosa, mentre semmai in quell’incidente altri cinque sono morti! Siamo semmai noi a occuparci di Lui! Per me, in ogni caso, la presenza di Dio non è in discussione. La vita è un’occasione che si può giocare in tante maniere, ma in questo Dio non c’entra… la storia biblica del Giardino dell’Eden io la leggo così. Dio non è una presenza invasiva, però l’idea che esista una figura divina personificata è una necessità: basta che non la si prenda alla lettera. Siamo noi uomini ad avere bisogno di dare un volto alla nostra coscienza».
Uno dei suoi libri di maggior successo è “La Bibbia ha (quasi) sempre ragione”. Purtroppo la Bibbia, in Italia, per certi versi rimane un vero e proprio libro assente, nonostante la sua rilevanza come testo sacro (per molti) e grande codice culturale (teoricamente, per tutti). Per quale motivo? Come si potrebbe fare, a suo parere, per ovviare a questo autentico dramma nazionale?
«Nella tradizione ebraica il rapporto con la Parola di Dio è un fatto necessario: leggerla, confrontarsi con essa, elaborarne le interpretazioni mediante discussioni con altri fa parte del Dna ebraico. Nella tradizione cattolica, in effetti, questo elemento si è un po’ perso per strada, perché a un certo punto la Bibbia è divenuta appannaggio di un’élite… finendo per favorire quel rapporto che abbiamo noi italiani, se mi è concesso fare un esempio, con un romanzo quale I promessi sposi: tutti sappiamo cosa vi succede, ma il rapporto con la sua lettura l’abbiamo vissuto come un obbligo, finendo per sentirlo come distante… eppure, la Bibbia è tanto più ricca de I promessi sposi! Oggi, forse si sta riscoprendo l’importanza della lettura biblica… Nel mio piccolo, credo che aver portato in giro La Bibbia ha (quasi) sempre ragione abbia rappresentato un segnale in tal senso. Mi vengono in mente un paio di episodi significativi. Il primo, ad aprile 2006, quando il cardinal Bertone, allora ancora arcivescovo a Genova, mi chiese di tenere una prolusione per un pubblico di giovani, prima di Pasqua, in cattedrale, su Giona. È andata molto bene, il cardinale mi aveva dato carta bianca, chiedendomi solo di “non farli troppo ridere perché dopo devo parlare io”! In venti minuti, ho cercato di fornire una chiave di lettura appassionata, rispettosa, amorevole, verso un testo biblico così curioso, quasi monco, polemico, paradossale… Poi, una volta ho ricevuto una e-mail da un prete veneto, che mi diceva: vorrei essere capace di raccontare ai miei parrocchiani la Bibbia come fa lei… ma tenga presente che la copierò… Ecco, vorrei dire con un’immagine: mi piacerebbe vedere una copia della Bibbia sporca di sugo! Vale a dire, impastata con la vita…».
Chi è stato Gesù di Nazaret, a suo parere?
«Ho letto tanti libri su Gesù, anche dei classici, come Renan, per cercare di capire: ma devo ammettere che ho deciso di fermarmi sempre un passo indietro, perché qui c’è un grande mistero da rispettare. Il fatto è che, oggi, la religione rappresenta un nervo scopertissimo delle persone, fino a produrre intolleranze varie. Per me la religione è il senso della vita, i padri, l’identità, la terra… Ecco allora: certo, Gesù nasce ebreo, e ricordo bene la bella affermazione di Giovanni Paolo II in sinagoga, quando ammise che gli ebrei sono i fratelli maggiori dei cristiani… In definitiva, apprezzo tutto ciò che è apprezzabile (ed è tantissimo!) in Gesù…».
Nel suo mondo di lavoro, quello artistico e dello spettacolo, quale ruolo ha la dimensione religiosa, stando alla sua esperienza?
«Beh, nel mondo dello spettacolo, soprattutto televisivo, ci sono delle persone – diciamo così – devote, che sentono importante anche esibire la loro religiosità… oggi, ad esempio, ci sono molti buddhisti, o presunti tali. Diverso è lo scenario che offre il teatro. Il teatro rappresenta, di per sé, una forma di religiosità, che nasce da una forte dedizione a questo tipo di lavoro (spesso fatto di ore tarde, viaggi continui, cattivi ristoranti, brutti alberghi…): un elemento che, peraltro, si va oggi un po’ smarrendo. Penso a uno dei miei maestri come Franco Parenti, che viveva il teatro come una sorta di missione, qualcosa che ha a che fare con la spiritualità. La spinta a fare questo lavoro, del resto, è qualcosa di più alto del puro narcisismo: la speranza di dare delle emozioni agli altri. Da questo punto di vista il teatro è un rito religioso, con l’attore che funge da sacerdote, e il pubblico da fedeli…».
Per concludere, lei vede il pluralismo religioso che caratterizza anche il nostro Paese come un elemento di arricchimento sul piano umano e sociale o come un fattore di destabilizzazione e di conflitti irrisolti?
«Risponderò un po’ provocatoriamente. Penso che la presenza sempre più forte di altre religioni, in Italia, avrà come conseguenza il fatto di metterci di fronte a domande importanti. Ci costringerà – avendo a che fare con diverse alimentazioni, diversi costumi… – a interrogarci sulla dimensione della religione come coesione sociale, e potrebbe servire a ritrovare una spirito che sembra ormai scomparso… Mi auguro che il futuro vada in questa direzione: e se per caso tanti, nel frattempo, abbandoneranno forme puramente esteriori di religiosità, pazienza! Ciò che conta sono le scelte interiori… e naturalmente una Bibbia, se sporca di sugo…».
http://www.avvenire.it/Cultura/gioele+dix+intervista+bibbia_201008140845266130000.htm