Un libro che sta facendo discutere. Per “Internazionale” è una trappola sionista. Per i sionisti è l’ennesimo testo che si ferma ai pregiudizi. Nostalgia del manicheo Joe Sacco e il suo Palestine, perlomeno è disegnato meglio.
Miriam Camerini
Israele vista con gli occhi di un americano. Potrebbe essere questo il sottotitolo del racconto a fumetti Capire Israele in 60 giorni (e anche meno) di Sarah Glidden, pubblicato in Italia pochi mesi fa da Rizzoli Lizard. Oppure si potrebbe mettere una bella croce su quel “capire”, o inserirvi a forza un “non”. Non capire Israele in 60 giorni, e nemmeno in 60 anni, di vita nostra o del Paese. Naturalmente, non si tratta di capire Israele, quanto di dipanare alcuni dei nostri intricati sentimenti verso la putativa patria.
Sarah, autrice della graphic novel, è una ventiseienne ebrea americana, laica, artista e di sinistra, la quale visita Israele per la prima volta grazie al programma Taglit, un viaggio che viene offerto gratuitamente agli studenti che non hanno ancora mai messo piede nella Terra dei padri. Nel racconto a fumetti, la protagonista parte per convincersi di avere ragione, vuole verificare che tutte le idee che ha accumulato sono giuste: Israele è uno Stato prepotente che ha usurpato la terra cacciando coloro che la occupavano prima e ai quali spetta ancora di diritto. L’esercito israeliano è colpevole di ogni sorta di violenze e prevaricazioni e i palestinesi sono vittime innocenti e inermi. Sarah appartiene però alla poco fortunata minoranza incapace di avere certezze e ben presto si rende conto che la situazione è più complessa di così. Nella testa dell’autrice, un immaginario tribunale in cui lei stessa è contemporaneamente accusa e difesa dibatte il caso: “mi stanno facendo il lavaggio del cervello oppure no?”. La corte si aggiorna. La notte non porta alcun consiglio, ma solo altri dubbi e domande senza risposta.
Mentre noi assistiamo al solito viaggio di tutti i gruppi organizzati che visitano Israele in autobus (io ne feci di quasi identici con il Keren Kayemet, la scuola ebraica, il Bnei Akiva e un paio di altre volte come accompagnatrice), Sarah si rende conto che la realtà dei fatti è ovviamente molto più sfumata di quel che pensava, e che stabilire chi ha ragione e chi no non è cosa che si possa fare stando su un piede solo.
Mi diverte vedere Sarah contrattare con il venditore di sandali al shuk della città vecchia a Gerusalemme perché anche per me fu una delle attività favorite.
Infatti, dopo i miei ripetuti viaggi in pullman (e forse un po’ anche grazie a quelli), trascorsi un periodo di più di tre anni a Gerusalemme. Fra l’altro arrivai nell’inverno 2007, lo stesso in cui si svolge la storia descitta dalla Glidden. Magari ci siamo perfino incontrate senza saperlo all’affollato mercato di Machané Jehuda un venerdì mattina, o nel caffè-libreria ‘Tmol Shilshom, disegnato da Sarah in maniera tanto fedele da essere inconfondibile. (Quante volte vi è capitato di sfogliare un fumetto e poter dire: “Ehy! Io ho cenato qui!”?). Il motivo per cui ho letto d’un fiato il libro di Sarah, è che ho condiviso spesso il suo stesso malessere.
Mi è capitato di essere seduta a una fermata d’autobus a Gerusalemme e leggere l’Alba, in cui Elie Wiesel racconta di se stesso ragazzo appena uscito per miracolo da Buchenwald e Auschwitz. Elie solo, debole, indifeso e tormentato dagli spettri di tutti quelli che gli sono morti nei campi e nei pogrom combatte per l’Irgun, nella Palestina del Mandato. Ha in mano una pistola e di fronte un ufficiale inglese prigioniero; nelle orecchie un comando che viene dall’alto: all’alba l’ufficiale inglese dovrà morire, poiché contemporaneamente, ad Akko, i suoi impiccheranno David, un giovane militante sionista. Meglio sarebbe stato passare per lo stesso cammino/camino dei suoi piuttosto che diventare un assassino? Forse. La realtà dei fatti però è così e un ebreo pio la accetta chiedendosi soltanto in che modo darle un senso.
Mi è capitato di leggere dei tormenti di Wiesel, di quelli che sono morti e di quelli che sono rimasti facendosi soldati e uccisori a loro volta, seduta su una panchina in un assolato pomeriggio d’estate in un quartiere industriale di Gerusalemme. Intorno a me la vita del Paese scorreva un po’ torrida e un po’ inquinata, quotidiana. Non avrei mai voluto farlo, ma in mezzo alle lacrime (misto di disperazione e smog) è successo che mi sia chiesta: “ne valeva poi la pena?”. Certo, se fossi stata più accorta mi sarei posta la domanda al tramonto, fuori dalla Cinematheque, in piedi sul ponte che guarda alle mura della Città Vecchia, oppure di venerdì mattina, posando lo sguardo amorevole su Emek Refaim pulsante di vita. Ma sarebbe stato troppo facile. Israele è un Paese come molti altri, con le sue prepotenze e sporcizie, autobus in ritardo e persone maleducate. Non siamo stati quindi in grado, nonostante l’attesa bimillenaria, di creare un posto migliore?
La stessa domanda sembra tormentare Sarah Glidden. Quale prezzo hanno dovuto pagare e pagano le nostre anime di ebrei per avere questo fazzoletto di terra che chiamiamo Stato? E però, proseguendo la lettura, mi sorge un dubbio: se il problema non fosse tutto qui? Qual è il vero motivo per cui la protagonista Sarah vuole inequivocabilmente separare se stessa dallo Stato di Israele?
Quanti tra noi ebrei della Diaspora tentano in ogni modo di tenere Israele fuori dalle nostre vite? Perché lo facciamo? Sarah affronta il viaggio avendo convinto se stessa che non potrà mai amare Israele perché lei è progressista e sta dalla parte degli arabi. Io mi ero convinta di non poter amare uno Stato ebraico che non ha trovato una posizione chiara e unica circa la sua identità religiosa: leggevo Danny l’eletto, sempre a una fermata d’autobus, in un quartiere religioso questa volta, e versavo compiaciute lacrime per lo “Stato ebraico creato da goyim ebrei” tanto disprezzato e temuto da Reb Saunders, il possente Rebbe chassidico del romanzo di Potok. Non consideravo il fatto che per Reb Saunders anche io faccio sicuramente parte della categoria “goyim ebrei”.
Arabi ed ebrei, religiosi e laici: questo è ciò che per ora tiene la nostra Gerusalemme saldamente ancorata al mondo dell’imperfezione. Ognuno trova la sua strategia per tentare di non sentirsi chiamato in causa. Il tentativo è però spesso vano, perché se già la Torah dice che questo Paese divora i suoi abitanti, un motivo ci sarà.
L’Unione Informa 30 ottobre 2011