È lecita la manipolazione delle immagini per una “buona causa”? Se no, come possiamo giudicare lo straordinario lavoro di Roman Vishniac che documentò gli orrori del Ghetto di Varsavia? E se la manipolazione la operano i palestinesi a Gaza oppure le truppe americane in Afganistan? Bel problema.
Michele Smargiassi
Non passa giorno ormai senza che qualcuno scopra con scandalizzata sorpresa una cosa che sorprende ormai solo gli ingenui, ovvero che la fotografia ha un rapporto problematico con la realtà. Ora la croce tocca a un fotografo su cui è difficile nutrire sentimenti ostili: Roman Vishniac, mite biologo ebreo russo a cui la storia riservò il dovere di lasciarci una straziante, empatica documentazione della vita negli shtetl israeliti della Polonia alla vigilia dell’orrendo macello nazista, un lascito potentemente emotivo che ha strutturato il nostro immaginario della persecuzione, e ha fornito le basi iconografiche per innumerevoli film, non ultimo lo Schindler’s List di Spielberg.
In un lungo articolo sul New York Times Magazine ci viene raccontato che anche l’onesto compassionevole Roman non ce l’ha raccontata tutta giusta. Peccati veniali, certo, piccole infedeltà narrative: ma comunque infedeltà.
Tutto nasce dalle ricerche di una giovane curatrice, Maya Benton, che ha lavorato sul fondo fotografico di Vishniac appena acquisito dall’International Center of Photography di New York (per dire, la “casa” della fotografia concerned fondata da Cornell Capa). La signora, dopo raffronti condotti direttamente sul materiale originale, avrebbe scoperto alcune incongruenze e forzature nel quadro costruito dal libro capitale di Vishniac, A Vanished World. La più evidente di queste forzature sarebbe il prodotto di due immagini affiancate in una delle ultime pagine del volume: quella di un uomo che sbircia preoccupato dallo spioncino di un portone di metallo, e quella di un ragazzino che fa un gesto di allerta dietro l’angolo di un edificio. Le didascalie originali le uniscono nel drammatico racconto di un incombente pogrom: “Il padre si nasconde dalla milizia del Partito nazionalista democratico [formazione di destra antisemita, ndr. ]. Suo figlio lo avverte che si stanno avvicinando”. Ma le due fotografie, sostiene la studiosa, non furono scattate assieme, anzi forse neppure nella stessa città. Sarebbero insomma state impiegate, cancellando il loro senso originario, come fotogrammi di una fiction. Benintenzionata, ma puramente letteraria.
Da qui, la studiosa risale a quelli che sembra considerare vizi più generali del lavoro di Vishniac. Che offrirebbe una lettura orientata e parziale della comunità ebraica nella Polonia pre-invasione: un quadro cioè volutamente pauperistico, socialmente più desolato di quanto non fosse nella realtà, anche perché basato su materiale fotografico prodotto per uno scopo parziale: Vishniac infatti non avrebbe viaggiato nell’Europa orientale animato da una spinta puramente personale, ma su commissione di un’organizzazione di assistenza ebraica, il Joint Distribution Committee, che ovviamente gli chiedeva immagini documentarie sui destinatari dei propri interventi umanitari. Una lettura dunque non falsa ma parziale, che lascia fuori dal quadro i ceti ebraici meno poveri o decisamente abbienti per fondare, al di là delle intenzioni, un immaginario socialmente omogeneo e romanticamente pauperista della vita ebraica pre-olocausto.
Non ho modo di verificare se le conclusioni a cui arriva la giovane curatrice siano corrette e fondate: mi limito solo a segnalare che su questa ennesima “smitizzazione” di una memoria storica figurata si sta già scatenando un fiero dibattito nei forum degli storici della fotografia, oltre a un animato dibattito fra i lettori del NYT.
Chi ha letto il mio libro sul vero e il falso in fotografia sa bene che nessuno dei grandi miti è al di sopra di sospetti e al riparo da cadute: ma io penso che tutto questo faccia parte non solo e non tanto dell’etica individuale dell’autore, ma della intrinseca ambiguità e duttilità del mezzo fotografico. Dunque non mi stupisco nel venire a sapere, se le conclusioni della ricercatrice sono fondate, che anche Vishniac (se fu davvero lui a scrivere quelle didascalie e ad accoppiare quelle due immagini: dall’articolo nel NYT non si capisce se la famigerata coppia di foto figuri già nell’edizione originale di A Vanishing World pubblicata nel 1947 o solo in quella più conosciuta e sostanzialmente diversa nel 1983) non fu immune dalla tentazione di utilizzare la polisemia fotografica come base per una narrazione ulteriore: all’insaputa del lettore, cosa che costituisce oggettivamente un inganno. Mentre la parzialità della documentazione di Vishniac è un problema per il lettore solo fino a quando non vengono chiarite le circostanze e i limiti entro cui fu prodotta: dagli elementi che questa ricerca fa emergere, dunque, il “mondo che scompare” di Vishniac non viene sbugiardato e annichilito, ma al contrario portato a un grado maggiore di “verità” storica e ideale.
Per ultimo, una sensazione del tutto personale. Le ricerche storico-critiche sui fotografi e il loro lavoro dovrebbero tendere appunto a questo, a darci gli strumenti per rendere le immagini più eloquenti e trasparenti e in un certo senso “utili”, non per sollevare qualche caso clamoroso e spodestare qualche monumento. Forse mi sbaglio, ma anche in questo caso come in altri più che un contributo alla conoscenza mi sembra di sentire il sapore di certe “biografie non autorizzate” dei grandi dello spettacolo che si fanno strada sulle pagine dei giornali perché trascinano un mito nella polvere. Ma probabilmente mi sbaglio. In ogni caso c’è un antidoto sicuro a questo rischio: non costruire mai piedistalli, non credere mai ai miti, ma solo alle vite vere, alle contraddizioni, ai limiti, insomma alle “bugie” nelle quali soltanto è nascosto quel po’ di verità che la fotografia ancora ci può dare.
http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2010/05/27/ora-tocca-a-vishniac/