Intervento di Sharon Nizza al VI Congresso dell’Associazione milanese pro-Israele
Nel 2000, quando avevo 17 anni, è scoppiata la Seconda Intifada. Non sapevo quasi nulla di Israele allora. La mia vita di ebrea milanese fu scossa dalla perenne richiesta di spiegare cosa “stavamo facendo lì ai palestinesi”. Una full immersion di dibattiti durante le occupazioni nelle scuole pubbliche mi portò a decidere, terminato il liceo, di andare a vivere in Israele. Arrivai il 30 luglio 2002 e andai a iscrivermi all’Università ebraica di Gerusalemme. Il giorno successivo, vi fu l’attentato all’Università che lasciò 9 morti. Fu il mio welcome nel Paese. Da allora sono passati 22 anni in cui ho cercato di capire tutte le sfaccettature della realtà israeliana: destra sinistra, religiosi, laici, arabi-israeliani, palestinesi d’Israele e palestinesi dei Territori. La quotidianità era costellata da attentati suicidi nei bus o nei ristoranti, quando i luoghi dei massacri venivano ripuliti nell’immediato e si tornava a vivere. Nel 2005, i dibattiti laceranti intorno al disimpegno da Gaza, che peraltro hanno portato presto a svariati round di guerra con la Gaza gestita da Hamas dopo il colpo di Stato del 2007. La guerra con il Libano nel 2006, la risoluzione Onu 1701 con un Unifil che non è riuscito a farne rispettare i termini, per cui 18 anni dopo, Israele e Libano sono sull’orlo di una nuova guerra. Le fallite trattative di pace di Annapolis nel 2007. E mentre in sostanza regnava lo statu quo rispetto alla soluzione con i palestinesi, il Paese prosperava: economia fortissima, la startup nation, a inizi 2023 Israele svetta al quarto posto al mondo nell’indice di felicità globale. Mi sono sempre detta: tutto ciò è estremamente vitale e interessante, pieno di spunti. Ma la sensazione era sempre di una società che vive un post trauma collettivo. Una polarizzazione perenne tra voglia di vivere e minaccia costante di morte, come in un elettrocardiogramma impazzito. Ovviamente l’ultimo di questi picchi è stato dato dal passaggio immediato, senza possibilità di respiro, dalla frattura interna che aleggiava nel Paese fino al 6 ottobre all’unità palesatasi 24 ore dopo, quando le discordie sono state accantonate – temporaneamente, ma questo è il tema di un altro intervento – per far fronte a un nemico comune.
Faccio questa premessa per dire che, a differenza di tanti altri momenti della storia complessa e dolorosa di questo Paese – e ho parlato solo dei momenti che io ho vissuto in prima persona – quanto è accaduto e sta accadendo dal 7 Ottobre è un qualcosa senza precedenti. Israele è ancora totalmente sommersa nella fase traumatica: nello shock più totale. Quanto accaduto quel sabato nero è senza via di dubbio il peggiore attacco della storia del Paese. E viene paragonato unicamente alla dinamica delle guerra del 48: una lunga guerra per la sopravvivenza. E non solo per le dimensioni della mattanza che ha causato il più sanguinoso eccidio ebraico dalla Shoah in un giorno solo, ma anche per via di un altro elemento critico: Israele ha subito un colpo fatale alla propria deterrenza. E, nello scacchiere mediorientale, non dimostrare capacità di deterrenza è in sostanza una minaccia di morte.
La maggior parte della popolazione israeliana si sente ancora massimo all’8 ottobre. Il trauma accompagna la vita delle persone senza sosta: le foto degli ostaggi – ancora 136 a Gaza a oggi – sono ovunque per strada, nelle stazioni dei treni, all’aeroporto, alla fermata dell’autobus. Ore e ore di telegiornali sono dedicate a raccontare le storie dei caduti, perché’ dare un nome e la dignità di un racconto di vita alle vittime è da sempre un imperativo dell’ebraismo. Molto altro spazio è dedicato anche a esporre storie di eroismo che solo ora emergono. E tante altri elementi che non sono ancora emersi, come i racconti di vittime di abusi sessuali – perché sì, ci sono anche vittime tra i sopravvissuti alla strage secondo dati forniti dal ministero del Welfare – che impiegheranno mesi, forse anni ad emergere, perché il tempo dell’elaborazione di questi crimini non è necessariamente quello dell’item giornalistico, come peraltro il movimento #metoo – “ti crediamo” – ci voleva insegnare, salvo poi mettere al banco delle imputate proprio le vittime israeliane. Un’altra causa dello shock che pervade la società israeliana è peraltro la profonda ferita per la mancanza di solidarietà del mondo.
E poi ci sono ancora circa 150,000 sfollati, di cui 70,000 solo dal fronte Nord, per cui non si capisce minimamente quale sia la prospettiva nel medio raggio. Questo è un evento senza precedenti nell’intera storia del Paese.
Usate solo questo come metro di paragone: fino al 7.10 la società israeliana aveva passato 50 anni e 1 giorno a autoflaggellarsi per quello che veniva considerato il “fallimento della guerra del Kippur”, che invece fu una vittoria in sostanza. Dopo – quello sì fallimento e di portata colossale – il 7.10, alla società israeliana attendono decenni di dura disamine degli eventi e di esame di coscienza.
Il trauma degli israeliani è dato soprattutto dal crollo totale della fiducia nelle istituzioni, perché ancora non è stata formulata una risposta sensata e approfondita alla domanda più critica, ossia come tutto ciò sia potuto accadere il 7.10. In parallelo però, anche questo moto sismico che ha spezzato la fiducia è per forza di cose sospeso nell’aria, perché i soldati vanno a combattere per lo stesso esercito verso cui tutti si pongono la domanda: ma dov’era? E quindi, giustamente, le domande salienti sono rimandate. E, se tanto dolore è intervenuto nelle vite degli israeliani, la speranza è che non si passi all’obliterazione del trauma “per andare avanti”, sul modello tipico dello “iè beseder” (andrà bene) che è la risposta standard di ogni israeliano alla domanda “come va?”. Né tantomeno che non si replichino quelli schemi divisivi che hanno lacerato la società israeliana fino al 6.10.
Dal 7.10 sono stata sottoposta a orrori di ogni genere: vedere costantemente immagini repellenti di massacri, per la maggior parte filmati dai terroristi stessi. Interviste a sopravvissuti che descrivono scene surreali che ci riportano ai pogrom di oltre 80 anni fa. Sfollati che non vogliono tornare a casa fino a quando la minaccia non verrà eradicata. Persone che invece rimangono o tornano perché non vogliono abbandonare, e rischiano di pigliarsi un missile anticarro in ogni momento, come peraltro è successo tre settimane fa a Kfar Yuval al confine nord. Famigliari di ostaggi che vivono con una spada di Damocle sulla testa. Tra tanta complessità e orrore, c’è stato un momento che mi ha profondamente toccato, circa 10 giorni fa, quando mi trovavo di nuovo al Kibbutz Beeri con un gruppo di giornalisti europei. Nili Bar Sinai, 74 anni, sopravvissuta, suo marito ucciso il 7.10 (sua madre peraltro era stata uccisa nell’attentato all’Aeroporto Ben Gurion nel 1972), ci accompagna per i vicoletti del Kibbutz condividendo con noi le ore della mattanza. Alla fine del giro mi chiede in confidenza, sapendo che so l’ebraico: “E’ la prima volta che racconto. Come sono andata?”. Mi ha detto che chiaramente preferirebbe non dover rivivere quei momenti, ma siccome “il mondo non ci crede”, sento l’obbligo di farlo. Eravamo il prossimità della Giornata della Memoria e questa analogia tra negazionismo di oggi e di ieri è stata veramente devastante. Secondo Cyberwell, una Ong che si occupa di monitorare il fenomeno dell’antisemitismo online, circa 1/3 dei contenuti sulle principali piattaforme social nega in un modo o nell’altro che gli eventi del 7.10 siano avvenuti (e una parte di questi crede che Israele li abbia orchestrati da sola). La ricerca è stata fatta su un campione di soli 910 post che hanno raggiunto oltre 26 milioni di visualizzazioni, una cassa di risonanza incredibile. E questo senza calcolare TikTok dove il problema è molto più acuto.
Per Israele, il 7.10 è la linea dello spartiacque con il mondo di Ieri – e non a caso uso il nome del titolo dell’ultima opera di Stefan Zweig, suicida nel 1942 testimone e profeta degli orrori che avrebbero marchiato la civiltà di lì a poco.
Ora, se mettiamo da parte la lettura emotiva e ci concentriamo sull’analisi, la domanda è: come è possibile recuperare una bussola in questo nuovo mondo che sembra senza coordinate? O, quantomeno, come non tornare a quel “mondo di ieri” che ha portato a questo sfacelo? Come evitare ulteriori massacri?
Queste sono domande critiche a cui ancora mancano risposte, perché di nuovo, nella fase trauma è difficile fornire risposte univoche. E poi chiaramente perché tra il dire il fare c’è di mezzo un oceano di interessi diversi e spesso contrastanti, anche tra gli stessi alleati. Quando si parla del “giorno dopo” a Gaza, dobbiamo capire che questo giorno non è una soluzione magica che si paleserà a stretto giro, ma prenderà mesi, e innumerevoli incognite e variabili potrebbero cambiare in corso di cose i piani.
Nel breve raggio, penso che a stretto giro si arriverà a un cessate il fuoco a Gaza perché si entrerà nel vivo delle primarie americane e Biden ha necessità di arrivare a quel momento con meno immagini di devastazione da Gaza. Non a caso si parla molto intensamente ora di un accordo che potrebbe portare al rilascio di ostaggi. Israele si trova, dal primo giorno, in un dilemma fortissimo avendo posto due obiettivi a questa campagna militare: eradicare Hamas e far tornare gli ostaggi.
Personalmente ho sempre creduto che i due obiettivi non fossero compatibili con la realpolitik dettata dall’agenda internazionale: eradicare Hamas è un’operazione che richiederà mesi, forse anni. Peraltro, operativamente non è stata quantificata: in che modo si stabilisce il raggiungimento di questo obiettivo? Con la testa di Sinwar? Di Mohammad Deif? Con l’eliminazione di quanti dei circa 30,000 operativi di Hamas a Gaza? Con la distruzione di quanti km dei circa 800 della Metro, la complessa e fortificata rete di tunnel sotterranea di Hamas a Gaza?
Se la pressione americana otterrà i suoi risultati, chiaramente Israele non avrà portato a casa uno dei due obiettivi, l’eradicazione di Hamas. Se però dovesse così venire raggiunto il secondo, la restituzione degli ostaggi, la grande domanda è se questo risultato da solo possa essere considerato una vittoria. E qui le opinioni sono diverse. E’ chiaro che la popolazione israeliana è trepidante all’idea di poter salvare gli ostaggi. Questa si potrebbe di certo annoverare come una sorta di “vittoria morale” per un Paese democratico che ha a cuore la vita dei suoi cittadini. Ma il prezzo che comporterà è dilaniante di per sé e oggetto di grande dibattito ora nel Paese: quanti terroristi con sangue sulle mani verranno liberati? Ricordiamo che Sinwar stesso, insieme ad altri 1026 prigionieri palestinesi, venne rilasciato nello scambio per ottenere indietro il solo soldato Shalit nel 2011, peraltro in un’azione lungimirante diretta da Sinwar stesso dall’interno del carcere israeliano e condotta sul campo da suo fratello Mohammad. Poi: la leadership di Hamas godrà di immunità? Avrà un ruolo nel post-Gaza? In sostanza, credo che non si debba essere troppo manichei nel giudicare questa situazione in termini di vittoria o fallimento. Una trattativa che porterà a una cessazione delle campagna militare su vasta scala e al ritorno di tutti o buona parte degli ostaggi, va comunque inquadrata nel più ampio scenario dello scacchiere mediorientale per come si è delineato negli ultimi 4 anni con gli Accordi di Abramo. Quello che non mi pare invece realistico possa accadere a stretto giro è che torni alla ribalta la soluzione dei due Stati, poco attuale e attuabile già da tempo nonostante gli slogan declamati da questo o quel politico quasi a volersi sbrigativamente pulirsi la coscienza. Non riesco a capire come si possa pensare che, nel momento in cui la fiducia è ai minimi storici – e ricordo che anche civili palestinesi hanno partecipato ai massacri del 7.10 e incarcerato ostaggi nelle proprie case – questo possa accadere.
Qui è importante tenere a mente un principio che è la chiave di lettura del Medioriente: in MO tutto quello che vedi palesemente non conta molto. E’ quello che non vedi che conta ben di più. Quindi: il dialogo tra sauditi e israeliani non si è mai interrotto, ma continua prevalentemente sottobanco, o meglio: i messaggi pubblici che leggiamo in merito non rispecchiano con fedeltà quanto avviene lontano dai registratori. Gli Accordi di Abramo reggono, i Paesi coinvolti (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco) non hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Israele. Il comune denominatore di queste alleanze è dettato prevalentemente dalla volontà di questi Paesi sunniti di assicurarsi di fonte al radicalismo sciita e alle velleità egemoniche iraniane, attraverso le proxy Hezbollah in Libano e Houti in Yemen, nonché di colpire i Fratelli Musulmani (di cui Hamas è la branca palestinese), che non a caso sono fuorilegge negli Emirati, in Bahrein, Egitto e Arabia Saudita. Quindi questi Paesi hanno un interesse molto forte affinché Israele faccia il lavoro sporco contro Hamas a Gaza e per questo le condanne alla guerra intrapresa dall’IDF in reazione agli eventi del 7.10 sono state solo di facciata, e comunque molto deboli. Inoltre, questi Stati (e ben prima di loro, nemici ben più acerrimi come Egitto e Giordania), nonostante le ripetute dichiarazioni in favore di uno Stato palestinese, di fatto hanno sempre perseguito i propri interessi prima di questo obiettivo.
Però ora è necessario, al fine di non replicare gli schemi del mondo di ieri, che i Sauditi abbiano un ruolo più pubblico con Israele e nel post guerra a Gaza: la normalizzazione tra Gerusalemme e Riad prenderà tempo, ma i Sauditi potrebbero intanto influire sulla prossima leadership palestinese a Gaza (che difficilmente sarà quella di Abu Mazen, totalmente priva di consenso popolare, mentre potrebbe essere legata alla sfera del suo rivale Mohammad Dahlan che dal 2011, cacciato da Abu Mazen, è di stanza negli Emirati). Oppure potrebbero avere un ruolo predominante nella ricostruzione di Gaza, marginalizzando il Qatar, il principale attore destabilizzante nell’area, ospite della leadership di Hamas e allo stesso tempo mediatore.
Dopodiché, se anche il fronte Sud si placherà con il raggiungimento di un cessate il fuoco temporaneo, rimane ancora l’incognita enorme del fronte Nord: Israele ha evacuato i circa 70,000 abitanti della fascia di 5km a ridosso con il confine libanese, cosa che non era mai accaduta, nemmeno durante la guerra con il Libano del 2006. Peraltro, gli sfollati continuano a ripetere di non voler tornare a casa, dal momento che le capacità militari e l’arsenale di Hezbollah sono decisamente più distruttivi di quelli di Hamas. Per anni, lo scenario dell’incursione terroristica via terra era previsto dagli analisti proprio su quel fronte con le forze di élite di Hezbollah, la milizia Radwan. Israele potrebbe trovarsi a strettissimo giro di fronte a un altro dilemma atroce: se, a seguito di un raggiunto cessate il fuoco con Gaza, Hezbollah smetterà di colpire Israele come fa dall’8 ottobre, Israele potrà permettersi di infliggere il colpo preventivo che avvierebbe un’altra guerra sanguinosa? Il sentire comune in Israele, tra gli analisti ma anche tra i cittadini stessi che popolano quelle aree, è che se non si risolve la minaccia a Nord ripristinando la deterrenza, Israele nel giro di qualche anno si troverà ad affrontare un nuovo 7.10 anche da Nord. Ma, ora la mia sensazione è che questo scenario verrà posticipato, forse a dopo le elezioni presidenziali americane.
Queste erano solo alcune considerazioni tattiche. Se invece parliamo di soluzioni strategiche, di ampio respiro, che possano cambiare gli approcci tradizionali utilizzati finora, è necessario fare degli interventi radicali su alcuni fronti:
– Ruolo chiave dell’educazione: i libri di testo palestinesi negano sistematicamente il diritto all’esistenza di Israele. Per formare la futura generazione di opinione maker palestinesi, urge monitorare e riformare questo aspetto. Qui includo anche la necessità di sradicare la narrativa della negazione della presenza ebraica antecedente al 48, includese le comunità ebraiche che sono rimaste nelle terre contese dopo la dominazione romana, anche durante le varie dominazioni musulmane, dai mammelucchi ai turchi e poi chiaramente sotto gli inglesi. Nonché la narrativa ancora più deleteria per cui “Al Aqsa è in pericolo” perché i sionisti vorrebbero distruggerla per costruirvi il terzo tempio: questo, negli ultimi 30 anni è l’argomento principale utilizzato per sobillare la piazza musulmana mondiale contro Israele e non a caso il nome che Hamas ha dato a questa guerra è “Tuffan Al Aqsa”, il Diluvio di Al Aqsa, ricollocando peraltro il conflitto nella sua dimensione ideologico-religiosa e non territoriale, come si ostinano a credere nel mondo occidentale.
– Smantellare l’Unrwa e collocarla sotto l’Unhcr. Dal 1949, le Nazioni Unite hanno lavorato in parallelo per creare l’Unrwa, l’agenzia che si occupa unicamente dei profughi palestinesi e l’Unhcr, che si prende cura di tutti gli altri profughi del mondo. Oltre alla scelta poco limpida di creare due agenzie distinte, il paradosso è che esse hanno anche due mandati diversi: l’Unhcr si occupa di ricollocare i profughi nel Paese di destinazione, dove se il profugo viene poi naturalizzato, giustamente smette di essere seguito dall’agenzia; il mandato dell’Unrwa invece non è ricollocare, bensì fornire assistenza, welfare e lavoro, anche se nel frattempo è stata acquisita altra cittadinanza. Inoltre lo status di rifugiato palestinese viene trasmesso alle generazioni successive, motivo per cui se nel 1949 l’Unrwa aveva preso in gestione circa 750,000 profughi, oggi ne segue quasi 6 milioni nel mondo. Nelle settimane scorse, si è aperto uno spiraglio nella direzione di rivisitare questo ente (che peraltro è anche fornitore di servizi educativi che non rispettano i principi dell’Onu stesso) con lo scandalo per cui diversi lavoratori palestinesi dell’Unrwa sono stati coinvolti nell’attacco del 7.10. Il Segretario Generale Onu ha avviato un’inchiesta in merito e staremo a vedere dove si arriverà.
– L’occidente (e qui includo Israele) deve ammettere di non capire a sufficienza la mentalità mediorientale estremista: che lavora a lungo termine, con pazienza, per un obiettivo specifico che è la distruzione di Israele come entità sovrana in qualsiasi parte di questa terra “from the river to the sea”. Questo punto peralto è parte chiave dell’analisi che ci porta a capire il fallimento della lettura delle intenzioni di Hamas negli ultimi anni, anche da parte di Israele: l’illusione che fosse diventato un attore razionale interessato al benessere della popolazione, che non fosse interessato al confronto armato per non fare passi indietro rispetto alle condizioni economiche molto migliorate negli ultimi anni grazie all’aumento dei permessi di lavoro e l’influsso di soldi esteri, che invece poi è stato impiegato per la maggior parte nella creazione di tunnel.
– Sullo statu quo non si può costruire un futuro stabile: è assolutamente necessario trovare una soluzione per la questione palestinese. Ma invece che la comunità internazionale continui a pulirsi la coscienza con lo slogan dei due popoli, due stati, soluzione rifiutata dai palestinesi stessi in più incroci critici della storia di questo conflitto, dovrebbe ragionare su soluzioni alternative. Tra le opzioni che possono essere approfondite, c’è quella dello stato binazionale (“from the river to the sea”) con piena cittadinanza a tutti i palestinesi mantenendo però la definizione dello Stato ebraico; oppure la soluzione federale / cantoni /emirati, che andrebbe peraltro anche a rispondere alla divisione interna in Israele a cui abbiamo assistito nell’anno pasato. Se la comunità internazionale vuole essere un partner costruttivo, è suo compito uscire dagli schemi mentali che hanno creato solo stallo.
– E visto che provabilmente parliamo di utopie, dal momento che non credo che la comunità internazionale sarà in grado di adottare soluzioni coraggiose e lungimiranti, aggiungo anche: i Paesi occidentali devono bannare TikTok, che altro non è che un agente sovversivo cinese volto a polarizzare le società occidentali. E’ una delle armi deleterie per il medio-lungo termine con cui la Cina combatte la sua guerra contro gli USA, che è chiaramente lo scenario più ampio in cui va letto anche il conflitto mediorentale.
Nonostante la situazione sia davvero tragica e estremanmente complessa, voglio anche segnalare alcuni aspetti positivi:
– Non è scoppiato il fronte interno. Gli arabi-palestinesi cittadini di Israele (20% della popolazione) non hanno avviato moti interni a seguito del 7.10 (diversamente da quanto accaduto nel conflitto del maggio 2021). Credo che buona parte di questa calma interna – nonostante l’evidente dramma di una popolazione che si trova in bilico tra identità diverse e in conflitto tra loro – derivi dal trauma enorme dato dal fatto che tra le vittime dei massacri del 7.10 ci sono anche numerosi arabi israeliani (compresi ostaggi tuttora in mano a Hamas), nonostante fosse palese che si trattasse di musulmani/arabi/palestinesi (donne con il Hijab, persone che recitano versi coranici supplicando per la loro vita).
– La resilienza israeliana sta ancora reggendo. Dalle molte conversazioni che ho tenuto con tanti degli sfollati, sopravvissuti ai massacri, si può dedurre che il trend generale sia tornare nei Kibbutz di confine, peraltro noti per essere storicamente roccaforti della sinistra laica israeliana che ha subito un colpo enorme il 7.10. Il che mi ha fatto venire in mente questo articolo di Yuval Elbashan, “Quello che i nostri nemici non capiscono: Be’eri sarà sempre con noi”, che avevo tradotto pochi giorni dopo la guerra. Un estratto:
“I nostri nemici si sbagliano alla grande, mentre esultano al suono delle pale che hanno iniziato a scavare le tombe dei nostri eroi. Non capiscono che, non appena avremo finito di seppellire i nostri morti, con le stesse pale scaveremo le buche in cui pianteremo gli alberi in loro memoria, nei luoghi che abbiamo difeso strenuamente (…) E sul prato accanto alla sala da pranzo del Kibbutz Be’eri, proprio quello che adesso è un ammasso di macerie fumanti, i bambini giocheranno ancora animatamente, e i vecchi si lamenteranno del rumore che fanno. E nella stessa sala da pranzo, che sarà stata rinnovata più volte nel frattempo, un vecchio scontroso, durante la cerimonia in commemorazione dei membri del Kibbutz per quella strage di un tempo, si lamentarà che “non sono venuti abbastanza compagni” cosa che secondo lui è vergognosa, “perché un popolo che non conosce il proprio passato non ha futuro”. E la maggior parte di quelli che parteciperanno a quella commemorazione non ricorderanno con precisione cosa è successo in quella disgraziata festività e liquideranno le sue parole, alzando gli occhi al cielo, come a voler far intendere che sono stanchi di queste cerimonie che il vecchio costringe loro a fare ogni anno. E il vecchio, che se ne tornerà a casa infuriato per l’indifferenza di questa nuova generazione, non sa che proprio in quei momenti, in una delle stanze dei ragazzi, che distano solo un centinaio di metri dalla sala da pranzo ristrutturata – proprio quella dove una volta, molto tempo prima, era avvenuto un massacro – il suo nipote più giovane sta baciando per la prima volta una ragazza”.
Ecco, un mesetto fa mi trovato nel Kibbutz Beeri per un reportage proprio su chi è tornato a viverci per seguire i lavori di ricostruzione e soprattutto il lavoro della tipografia e dell’agricoltura. Mentre zappava un campo di patate, ho conosciuto Tom Carbone, figlio di un signore italiano che, di passaggio nel ‘73 in Israele, rimase bloccato per via della guerra del Kippur, e da allora è rimasto a Beeri: Tom è sopravvissuto al 7.10, suo padre si è salvato per miracolo, sua madre è stata uccisa. Dopo meno di un mese, è stato tra i primi a tornare per seguire le coltivazioni che altrimenti sarebbero andate in malora, lasciando moglie e figlioletto nell’hotel sul Mar Morto dove sono dislocati i compagni di Beeri: “Io sono sempre con il sorriso sulla faccia” mi ha detto “ma non significa che non sia triste dentro il mio cuore. Lo faccio per il mio bambino: perché dobbiamo reagire e andare avanti”.
Quanto descriveva Elbashan, è successo quasi nell’immediato, nonostante il trauma e lo shock. E questo è senza subbio un fattore positivo, in quanto la coesione e la resilienza della società israeliana sono fattori determinanti per fare fronte alle numerose sfide che si prospettano per il futuro del Medioriente.
Sharon Nizza
Febbraio 2024