David Bidussa
Non è facile definire che cosa sia l’ebraismo. Certo se si ritiene che l’ebraismo sia una religione che ha regole precise e che si riconosce in base all’osservanza di quelle regole, definirlo e riconoscerlo è allora alquanto semplice. E’ sufficiente aprire dei testi, mettere insieme e comparare ciò che nei testi è contenuto, scegliere i commenti più autorevoli. Da questa immagine si ricava che l’ebraismo è un costrutto culturale che stabilisce regole comportamentali e che nel tempo consente di conformare comportamenti a principi. Gli ebrei sono coloro che si comportano in un certo modo e che si conformano a un modo di agire. Pensano perché fanno. Ovvero: sono qualcuno (soprattutto sono riconoscibili) perché preliminarmente agiscono secondo regole pratiche e pragmatiche che nel momento stesso in cui vietano e consentono, o permettono, costruiscono la personalità culturale di un individuo o di un insieme di individui. E’ una risposta plausibile, sostenibile, ma non credo che sia l’unica da considerare.
Come si compone l’ideale scaffale del sapere teologico ebraico? Si potrebbe dire che si compone dei 46 testi di ciò che tradizionalmente chiamiamo “Antico testamento” (dizione che non mi convince, ma che diamo per buona) e poi di un corpo testuale esegetico fatto di trattati, commenti, testi normativi. E’ questo corpo complessivamente considerato uno sviluppo lineare di un impianto culturale tale che lo si possa leggere come un testo unico dalla prima pagina all’ultima? No, per due motivi:
Primo: perché la composizione stessa delle singole parti del testo non è consequenziale. Isaia non è un testo unico, ma è stato composto in momenti diversi e noi leggiamo oggi come un unico testo numerato in capitoli successivi una cosa che non è stata composta in un’unica scrittura. Oppure una parte dei testi che stanno in “Agiografi”, p.e. è stata composta prima di Deuteronomio, composto nel corso dell’esperienza esilica babilonese, intorno alla metà del V sec. a.C.
Secondo: perché i testi vanno letti rispetto a contesti. Consideriamo ancora Deuteronomio. Quel libro, sintetizzando il già detto in altri testi, lo fissa in una condizione, quella dell’esodo e del lento approdo verso la Terra promessa, che in realtà è solo anelito e non atto compiuto, permettendo così che quella dimensione mantenga ancora un valore pur nell’infinità temporale. Interpretare testi dunque non è solo limitarsi o concentrarsi sul versetto, significa anche riflettere sulle funzioni di acculturazione, di riscrittura che quei testi hanno per un attore culturale in un tempo storico dato.
Rimaniamo ancora per un attimo sul piano della produzione testuale.
Non so cosa l’immaginario collettivo ritenga essere il Talmud. Secondo una immagine consolidata e un uso corrente, credo che il Talmud sia immaginato come un testo esoterico, dove si esplica il potere occulto (un’immagine in cui si sommano le proiezioni fantasmatiche di un antigiudaismo classico e l’ossessione del complotto che popola le pagine de I Protocolli dei savi anziani di Sion).
Allora proviamo ad aprirla, una pagina di Talmud. Vi vedremo un costrutto molto geometrico costituito da tre strati di testi: un testo in corpo maggiore che occupa il centro della pagina e la cui datazione è tra il I secolo a.c. e il VI secolo d.C.; un secondo blocco di testi che circonda in senso orario il testo centrale e in cui si riuniscono alcuni commenti tradizionali e classici databili tra l’ XI e il l’inizio del XIV secolo; infine un terzo gruppo di testi posti agli angoli del testo scritto dopo il secondo testo successivi e che al massimo arrivano al XVII secolo. In breve noi abbiamo un testo nel tempo.
Ma accanto a questi testi e intorno a questi testi rimane un margine di bianco considerevole. La cultura ebraica e l’ebraismo è esattamente quel margine bianco, ovvero è la possibilità e la plausibilità di aggiungere altri testi. Ovvero di continuare il testo. E soprattutto è la possibilità che chiunque, dotato di una conoscenza testuale precedente e dunque in grado di inserirsi in una catena del commento, possa mandare avanti la staffetta della storia.
Per riepilogare. Si può studiare l’ebraismo, e dunque rispondere alla domanda che cosa esso sia, leggendo e rileggendo i testi di commento e studiandone le forme lessicali, le figure retoriche, la struttura logica e argomentativa e vi troveremo che tutto questo è coevo ai sistemi di pensiero e alle organizzazione di retoriche assertive e persuasive coeve presenti e operanti in tutti i sistemi culturali con cui le diverse realtà ebraiche si sono trovate a convivere e a coabitare nel tempo. Oppure, anche, se si considera il corpo di ciò che per comodità indicherò come “vetero-testamentari”, testi che si compongono e si assemblano nel tempo e che nella loro esposizione e successione testuale – ovvero come noi oggi li prendiamo in mano uno dopo l’altro – non sono stati composti successivamente uno all’altro. In questo caso la domanda sarà come si è composto un testo che è una collazione e una successione non temporale di testi.
Ma è solo questo l’ebraismo? Direi di no.
E allora vediamo di spiegare questa cosa – l’ebraismo – considerando altri percorsi.
Gli ebrei nella storia non si sono mai definiti in relazione a un credo religioso. Si sono definiti come un popolo che ha delle regole e che ha un sistema-mondo e soprattutto una produzione che riguarda la propria identità culturale che si costruisce attraverso pratiche, culture testuali, materiali, immateriali, e rituali e intellettuali.
L’ebraismo è dunque un apparato religioso, ma non è solo un apparato religioso. E’ un insieme di pratiche rituali, normative, pragmatiche, comportamentali, ma non è solo un galateo comportamentale, ovvero un insieme di atti attraverso i quali stabilire e classificare gli ebrei buoni da quelli cattivi, o i continuatori di un sistema o i suoi distruttori.
E’ la costruzione, nel tempo, di un’identità culturale. Perché questa costruzione sia possibile occorre che si abbia una dimensione storica della propria esperienza culturale e una visione geostorica della propria vicenda umana. In breve occorre che si acquisisca un modo dispiegare la storia della propria identità con i libri, ma non solo come produzione autoriferita di testi.
Gli ebrei sono il risultato di un costante corpo a corpo con la storia e con altri gruppi umani con cui hanno combattuto, convissuto, rispetto ai quali si sono aperti, dai quali si sono nascosti o sottratti, in mezzo ai quali si sono confusi e in mezzo ai quali sono stati rinchiusi e ghettizzati, e alla fine sono anche il risultato della loro libertà nell’esperienza dello Stato di Israele. Sono in breve la storia di un costante processo di ibridazione, rimescolamento, riscrittura delle proprie convinzioni. In questo percorso hanno nel tempo assunto forme del pensare, vocabolario, lingue, gastronomia, modi di alimentazione, procedure logiche, immaginarii, spiegazioni del proprio sapere.
Nella storia si resiste se si viene a patti con le vicende della storia. E se si rifiuta il confronto, se non si adeguano linguaggi, modi, pensieri, il destino è la scomparsa dallo scenario della storia. Una delle operazioni preliminari da condurre quando si affronta la storia dell’ebraismo è liberarsi dall’ossessione e dal mito di trovarsi di fronte allo stesso soggetto che intorno al XIII secolo a. C. attraversò in forme avventurose il Sinai.
Gli ebrei non sono lo stesso soggetto storico nel tempo. Non solo perché nel tempo si sono ibridati, mescolati, trasformati, ma perché la stessa produzione normativa che tutti noi siamo abituati ad assumere come un unico scaffale lineare è il risultato di esperienze e di riflessioni culturali che ogni volta hanno una loro specifica cifra culturale.
Comunemente si parla di cultura ebraica, di ebraismo e se ne parla come di un insieme organico e soprattutto continuo, ovvero come un unico testo aperto e progressivo di cui si può fornire una ricostruzione storicistica. Doppio errore. Perché per produrre una linearità di questi tipo occorre un centro che esprima una autorevolezza costante e occorre che si definisca un canone. Ora l’esperienza diasporica ebraica non ha espresso il primo aspetto (ovvero non ha dato luogo a un centro riconosciuto con una gerarchia che stabilisse costantemente il canone per tutti), e allo stesso tempo è stata il risultato di conflitti fra più centri produttivi con la prevalenza ogni volta di un luogo e di un grappolo di testi che nel tempo hanno finito per definire l’ebraismo.
Per descrivere la storia dell’ebraismo si deve ricorrere, nel corso della storia diasporica, a una catena di luoghi e a una costellazione di testi e di conflitti fra modelli interpretativi e prodotti testuali che hanno i loro snodi principali ogni volta in realtà culturali diverse: Alessandria d’Egitto, la Spagna della conquista araba, la Renania, la Boemia, e poi alcuni degli stati italiani, l’Europa Centro-orientale, Safed , nel tempo attuale, Israele, gli Stati Uniti, la Francia
Se noi volessimo comporre una tavola sinottica che ponesse in relazione testi scritti – e che abitualmente siamo indotti a radunare entro un unico termine, cultura ebraica, appunto – con le correnti sussultorie che attraversano la storia politica, sociale e culturale di questo bimillennio, vedremmo che ad ogni snodo d’epoca corrisponde un testo o un corpo di testi che sono il risultato selettivo di un confronto. .
E’ questo corpo di testi che vanno a comporre nel tempo ciò che si è soliti denominare con termine intemporale “cultura ebraica” o ebraismo.
Qual è allora la sintesi? Nel corso di questo rapido excursus storico ho sottolineato insistentemente una sola espressione: “nel tempo”. Non è stata una scelta casuale. Non credo che esista l’ebraismo come corpo organico che si costruisce coerentemente e che origina da un solo nucleo. Credo che esistano gli ebrei nel tempo, appunto, che producono un complesso culturale che leggiamo come un corpo coerente.
Ma gli ebrei, appunto, non sono un ordine coeso, una monade senza porte né finestre. Sono uomini e donne che la storia ha spesso costretto a mettersi in strada. Lungo le strade in cui si sono trovati a vivere – e molto spesso a percorrere correndo – hanno dovuto lasciare sul campo molte cose; mettere nel proprio bagaglio fatto in fretta, oggetti e testi accumulandoli alla rinfusa, scegliendo ogni volta cosa salvare, cosa gettare e cosa portarsi dietro. Spesso non potendo portarsi dietro tutto, il problema era come ricordarsi ciò che si lasciavano alle spalle.
La cultura ebraica è allora proprio questo: un costante principio di costruzione e di ricostruzione, nel tempo appunto, che ha un rapporto con sistemi culturali con cui si entra in contatto, con concetti che si recuperano e si inglobano lungo la strada. Non è detto che abbia un principio di coerenza, si sforza di trovarlo. E’ per questo che al centro non sta il testo, al centro sta il commento: ovvero la capacità di costruire e individuare il senso del testo. Una dimensione che mette al centro un rapporto con la storia.
“La Repubblica”, del 9 marzo 2005, pagina 42