Gadi Luzzatto Voghera – Storico
Prendiamo le mosse dai fatti, come si trattasse di una miniserie televisiva. Ya’aqov torna a Cana’an proveniente da Padàn Aràm e invia dei messaggeri al fratello Esav con intento di riconciliazione. Al loro ritorno, gli inviati segnalano una situazione incerta: Esav si sta avvicinando con 400 uomini e non sono chiare le sue intenzioni. Il testo comunica al lettore un’atmosfera di suspense che chiede di essere risolta. Una sceneggiatura sapiente, che spinge ad inoltrarsi nel racconto.
Ya’aqov, forte delle promesse di Kadòsh Baruch hu, mantiene la sua intenzione pacifica, ma al contempo si premunisce da un eventuale scontro. Divide quindi il suo seguito e gli armenti in due parti, per assicurare per lo meno che una di esse possa salvarsi nel caso di un possibile assalto. Si rivolge inoltre al Signore pregandolo di esaudire la promessa di un futuro di prosperità.
Al contempo invia ad Esav delle greggi in dono, temendo che il fratello nutra contro di lui cattive intenzioni anche dopo molti anni; quindi si muove di notte attraversando il fiume Yabbòk.
A questo punto la scena muta all’improvviso. La sceneggiatura propone al lettore un evento misterioso su cui i commentatori di tutte le epoche si sono esercitati. Il testo ci racconta che Ya’akov si attarda e resta solo. È notte, ed è improvvisamente assalito da un uomo che lo costringe a combattere nell’oscurità. Non riuscendo a sopraffare Ya’akov, allo spuntare dell’aurora il misterioso personaggio lo colpisce all’anca slogandola. Ya’akov, vittorioso (e presumibilmente dolorante, ma il testo lo dice solo qualche verso dopo), compie un atto sorprendente: invece di imporre all’avversario sconfitto un atto di sottomissione, gli chiede con decisione di ricevere la sua benedizione. Facendo ciò, Ya’akov svela al lettore la profonda natura di quel combattimento. Ce lo suggerisce Rashì, che nel suo commento sottolinea come la richiesta di una benedizione sia connessa alla rivendicazione del diritto di Ya’akov alla benedizione in continuità con quella ottenuta con apparente inganno dal padre Itzhaq (Bereshit 27, 27-29). Si tratterebbe, quindi, di un atto necessario, che in qualche modo lega questo strano combattimento all’episodio di ampio respiro dell’incontro con Esav e con le sue genti. Ma l’episodio non si conclude qui. L’uomo misterioso chiede il nome a Ya’akov, quindi gli comunica che da quel momento il suo nome sarà Israél, poiché ha lottato e vinto contro divinità (Eloìm) e contro uomini. Ya’akov insiste nel voler conoscere il nome dell’avversario, e per tutta risposta costui gli dà finalmente la benedizione richiesta. L’evento si conclude con una nota di halakhà, che fissa in questo episodio la ragione per cui da allora gli ebrei non si cibano di parti del bestiame che includano il nervo sciatico.
La scena quindi si sposta all’atteso e temuto incontro tra i fratelli. Un evento pacifico e a lieto fine, che scioglie la tensione, per lo meno provvisoriamente. Esav accoglie Ya’akov con cordialità, e decide di tornare a Se’ir, la sua residenza, lasciando proseguire il fratello verso Shekhèm. Potremmo dire che si tratta della fine del primo episodio della miniserie.
Nel secondo episodio, assai più cruento, accadono eventi che aprono interessanti questioni etiche e giuridiche. Avviene che la giovane (neharà) figlia di Ya’akòv e di Leàh, Dinàh, esce dall’accampamento alle porte della città per guardare le ragazze di quel paese. Viene notata dal principe locale – Shekhèm, figlio di Chamòr, signore del luogo – che la rapisce, “giace con lei e la violenta”. In verità ci sono alcuni elementi poco chiari in questo episodio. Di certo, nonostante il parere di alcuni commentatori che danno la cosa come incerta, Dina non è consenziente. Quindi siamo di fronte a uno stupro (cosa molto comune all’epoca e purtroppo anche ai nostri giorni) che ha attirato l’attenzione di molti commenti nell’alveo della letteratura femminista. Rashì si sofferma pochissimo sull’episodio, essenzialmente per descrivere, rifacendosi al Midrash (Bereshit Rabbà 80, 5), il tipo di azione violenta messa in atto: l’espressione “giacque con lei” significherebbe “secondo natura”; mentre “la violentò” starebbe a significare che la prese “contro natura”.
L’incidente – se così si può dire – ha delle conseguenze a catena. La prima (la più sorprendente) riguarda il violentatore, che invece di nascondere l’episodio lo rivendica. Shekhèm si è effettivamente innamorato di Dinàh, e quindi va dal padre Chamòr e gli chiede di attivare una procedura matrimoniale. La cosa non è facile poiché nonostante il tentativo diplomatico di Ya’akòv di tacere sulla violenza alla figlia (un atteggiamento sorprendente per il lettore, ma che rientra nella politica prudente che il patriarca segue nelle sue azioni di insediamento a Cana’an), i fratelli di Dinàh vengono a sapere degli accadimenti e si adirano. Ciò nonostante, sembra prevalere una comune volontà di pacificazione politica (e religiosa). Chamòr chiede in effetti la mano di Dinàh per il figlio, associando a tale offerta la prospettiva di una futura convivenza tra i due popoli, se non addirittura di un’integrazione: “Voi darete a noi le vostre figlie e vi prenderete per voi le nostre figlie”. La prospettiva, naturalmente, è sempre al maschile (le donne non sembrano avere voce in capitolo) e tuttavia sembra si vada in direzione di una soluzione positiva. Paiono tutti concordi, tanto che viene superato anche il problema halakhico connesso alla richiesta di celebrare il matrimonio misto. I fratelli pretendono che il futuro sposo (colpevole di stupro, non dimentichiamo) si circoncida; solo così potrà ottenere Dinàh in sposa. Anzi, l’atto non dovrà limitarsi a Shekhèm, ma dovrà essere esteso a tutti i maschi della città. Una pretesa forte, connessa all’esplicita minaccia di prendersi tutte le loro figlie spostandosi altrove.
La condizione viene accolta, e qui il lettore assiste al secondo momento clou di questo secondo episodio della miniserie: il colpo di scena. Mentre i sudditi di Chamòr sono ancora doloranti per la circoncisione, Shim’on e Levi, figli di Ya’akòv, per vendicare l’offesa fatta alla sorella assaltano la città e passano a fil di spada i suoi abitanti maschi. Un’azione di estrema violenza, che viene accolta in maniera dichiaratamente negativa da Ya’akòv, che li rimprovera non tanto mettendo in discussione le motivazioni di questa vendetta, quanto valutando l’azione come gravida di conseguenze dal punto di vista politico. Lui, che sta mettendo in atto strategie improntate ad estrema prudenza per procedere all’insediamento nella terra che gli è stata promessa, si trova a dover gestire una vera e propria provocazione che potrebbe generare la reazione violenta delle popolazioni della zona. I due fratelli, tuttavia, rivendicano la legittimità del loro atto, a fronte dello stupro della sorella.
La parashàh prosegue con il terzo episodio, che è più che altro una descrizione delle coordinate geografiche dell’insediamento di Ya’akov e della sua famiglia in Eretz Israel. Si trasferiscono a Bet-El, dove viene eretto un altare come era stato promesso anni addietro. Nei pressi di quell’altare Kadosh Baruch hu ribadisce a Ya’akòv le sue promesse e le sue benedizioni. Lungo il cammino Rachèl partorisce l’ultimo figlio, Binyamìn, morendo di parto e viene sepolta non lontana da Beth Lechem. Avviene nel frattempo uno strano e scabroso episodio esaurito in poche righe e assai poco chiarito. Dopo la morte di Rachèl, Ruben (suo figlio) giace con Bilhàh, la concubina del padre, “e Israel lo viene a sapere” (dice il testo). Non si arrabbia, non protesta, semplicemente “lo viene a sapere”.
Quindi la carovana giunge a Hebròn dove abitava l’anziano padre Itzhaq che morirà all’età di centottant’anni e verrà sepolto dai fratelli rappacificati Ya’akòv ed Esav. Segue l’elencazione della complessa genealogia dei due, e qui finisce la parashàh, che ho voluto presentare in maniera forse irriverente come una miniserie.
L’episodio centrale del testo è senza dubbio la violenza su Dinàh, seguita dalla strage compiuta da Shim’òn e Levi. La Torah è molto chiara nel condannare lo stupro. Shekhèm è chiaramente colpevole. Ma anche i fratelli hanno compiuto un gesto gravissimo, che causerà l’ira del padre Ya’akòv alcuni capitoli dopo, quando sul letto di morte li giudicherà duramente:
שִׁמְעוֹן וְלֵוִי אַחִים כְּלֵי חָמָס מְכֵרֹתֵיהֶם׃ “Shim’òn e Levi sono fratelli, le loro armi (keley hamàs) sono strumenti di illegalità” (Bereshit 49, 5)
Rav Jonathan Sacks z”l si chiede chi abbia ragione tra Ya’akòv e i due fratelli. La disputa, egli ci dice, viene ripresa nel Medioevo da Nachmanide e Maimonide. Maimonide pensa che la ragione sia dei fratelli, poiché difendono l’idea fondamentale della difesa dei principi della legge, che sono alle fondamenta dei sette principi noachidi. Alla base del suo giudizio starebbe l’atteggiamento passivo degli abitanti di Shekhèm, che avevano visto la violenza del principe ma non l’avevano denunciato di fronte alla legge. Per questo costoro sarebbero stati meritevoli della punizione. Nachmanide non concorda con questa tesi: non solo non sarebbe giustificata una punizione collettiva in generale come principio giuridico, ma nel caso specifico questa non sarebbe supportata in alcun modo vista la reazione adirata dello stesso Ya’akòv, che aveva condannato la violenta reazione dei fratelli. Rav Sacks afferma che la disputa resta senza risposta definitiva. Certamente, lo sappiamo, esiste il principio ben noto della responsabilità collettiva degli ebrei: “kol Israel arevin ze le ze”. Questo deriva dal patto collettivo accettato presso il monte Sinai. Ma si tratta di un principio generale, o riguarda solo gli ebrei? Secondo Maimonide il principio riguarda tutte le società umane. Se una persona assiste a un’azione di violenza e non la denuncia o non reagisce, è essa stessa colpevole.
Oggi si parlerebbe della colpa dei cosiddetti bystanders, e sappiamo che peso questo termine presuppone se proiettato sulla tragica vicenda della Shoah. Gli storici hanno a lungo lavorato negli ultimi decenni sulle responsabilità di chi ha assistito alla persecuzione e alle deportazioni degli ebrei e non ha reagito in modo eticamente accettabile. Si tratta peraltro di un principio ribadito in un passo del Talmud (Shabbat 54b). Tuttavia, lo stesso Rav Sacks sottolinea la necessità di prevedere una gradualità della colpa: colui che compie la violenza direttamente (il perpetratore) è di certo più colpevole di colui che si limita ad assistere. Entrambi sono colpevoli, ma la punizione deve di necessità essere differenziata. In altri termini, la responsabilità collettiva è una cosa, la punizione collettiva è un’altra. L’episodio descritto nella parashàh di Vajishlàch e i commenti che ha generato lascia spazio a riflessioni etiche gravi, che ci interrogano nel tempo presente. Shabbat shalòm