“Per favore, salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù…” (32:11). I versi iniziali del brano della Torah di questa settimana, raccontano di come Giacobbe, preso dalla paura di suo fratello Esaù che si stava avvicinando con un esercito di quattrocento uomini, si rivolse a Dio in preghiera, supplicandolo di liberarlo.
Perché Giacobbe prega per avere la protezione divina con l’espressione, apparentemente ripetuta, “dalla mano di mio fratello dalla mano di Esaù”?
Una famosa risposta a questa domanda è data da Rav Yosef Dov Soloveitchik di Brisk (1820-1892), il quale spiega che Giacobbe si riferisce ai due diversi modi in cui Esaù avrebbe potuto incontrarlo. Giacobbe temeva che Esaù sarebbe arrivato e avrebbe intrapreso una feroce guerra per uccidere lui e la sua famiglia e vendicarsi della benedizione che Giacobbe aveva ricevuto al suo posto. Tuttavia Giacobbe aveva anche considerato una possibilità diversa: che Esaù sarebbe venuto come suo “fratello”, in cerca di riconciliazione e amore fraterno con l’obiettivo, però, di attirare Giacobbe lontano dai suoi valori e di assimilarlo a lui e alla sua visione del mondo.
Giacobbe ha implorato Dio di proteggerlo sia da “Esaù” – l’uomo ostile e violento che avrebbe cercato di ucciderlo – sia da suo “fratello” che vuole cercare fratellanza e vicinanza, il che rappresenterebbe una possibile minaccia spirituale per lui e la sua famiglia.
Su questo presupposto, Rav Yosef Dov Soloveitchik spiega la descrizione della Torà della paura di Giacobbe: “Wayirà Ya‘akov meod wayetzer lo/Giacobbe era molto spaventato ed era angosciato” (32:7).
Giacobbe era si spaventato dalla prospettiva che Esaù venisse a combattere con un vero esercito, ma era anche angosciato dalla possibilità di una guerra spirituale. Esaù veniva come fratello, per stabilire nuovi e più stretti legami con lui, legami che poi avrebbero potuto deviare Giacobbe dalla sua via.
In effetti, aggiunge Rav Soloveitchik, Giacobbe ha visto giusto nel richiedere entrambe le forme di protezione. Esaù inizialmente era venuto con l’intenzione di uccidere Giacobbe ma poi, dopo essersi incontrati, Esaù ha abbandonato quell’intento e ha invitato Giacobbe a unirsi a lui. Giacobbe, superò lo spavento e l’angoscia e con decisione rifiutò l’invito con educazione e alla fine ognuno andò per la sua strada.
L’esito dell’incontro, dimostra che il Signore rispose a entrambe le preghiere di Giacobbe: fu salvato sia dall’ostilità di Esaù sia dal tentativo di assimilarlo attraverso la sua amicizia e il suo affetto.
Queste due minacce sono rappresentate anche dalla lotta di Giacobbe contro l’angelo che lo attaccò la notte precedente all’incontro con Esaù. I maestri, identificano questo angelo come il rappresentante celeste di Esaù, il Satan stesso.
La Torà dice che quando il Satan vide che non poteva sconfiggere Giacobbe, “wayigà bechaf yerekhò/lo colpì alla coscia” provocando una lussazione dell’anca (32:25). Ma il senso letterale della parola “wayigà” è “toccare” e non “colpire”. Si potrebbe dire, quindi, che l’angelo non ha colpito Giacobbe con forza, ma lo ha solo toccato dolcemente, affettuosamente. Quando il Satan si rese conto di non poter sconfiggere Giacobbe con l’ostilità e la forza, cambiò tattica e iniziò a trattare Giacobbe con gentilezza, come un fratello amorevole. I violenti colpi della parte iniziale della lotta, a Giacobbe non causarono né dolore né conseguenze successive. Giacobbe emerse da quel confronto con una sola ferita, quella subita dal tocco gentile del Satan, le cui sofferenze si manifestano nel lungo termine. Questo è il più grande pericolo che corriamo quando gli altri vogliono stare a stretto contatto con noi. Specialmente se non siamo forti nella nostra identità, impegnati in una vita ebraica piena.
Per questo la Torah ci dice di ricordare la lotta di Giacobbe con il Satan astenendoci dal mangiare il “Ghid Hanashè”, il nervo dell’animale che corrisponde alla parte della coscia dove Giacobbe fu ferito. Non abbiamo bisogno di ricordare il violento attacco del Satan a Giacobbe, siamo già ben consapevoli dei pericoli dell’odio e dell’ostilità antisemita. Questo non ha bisogno di promemoria, commemorazione e enfasi.
Dobbiamo essere altrettanto consapevoli dei pericoli del “tocco” gentile delle altre nazioni, della loro stretta amicizia affinché tali sentimenti non ci influenzino al punto di allontanarci dalle nostre tradizioni e dai nostri valori, Shabbat Shalom