Rav Shlomo Riskin – Efrat, Israele – 5763 (2002-2003) – Tradotto da Dany e Giulio Barki
“E Giuseppe non potè resistere di fronte alle persone che gli stavano intorno; fece uscire tutti in modo che nessuno fosse con lui nel momento in cui si sarebbe rivelato ai suoi fratelli. E proruppe in pianto, e gli egiziani e la casa del Faraone lo udirono. E Giuseppe disse ai suoi fratelli, ‘Sono Giuseppe; mio padre è ancora vivo?'” (Genesi 45: 1,2,3). Giuseppe era stato separato dalla sua famiglia per almeno 22 anni, gli ultimi sette dei quali aveva servito il Faraone come Viceré – una posizione dalla quale avrebbe potuto facilmente trasmettere un messaggio di benessere al suo anziano padre in Israele. Oltretutto, egli era in contatto con i suoi fratelli – sebbene come Viceré e Mashbir (distributore di grano) – durante questo ultimo periodo di carestia. Perché adesso improvvisamente risveglia i suoi legami familiari e si rivela come il figlio e fratello ritenuto perso e morto per così tanto tempo? Evidentemente era stato ispirato dal discorso commovente di Yehuda che apre la nostra parashà di Vayigash. Quali sono gli argomenti emozionali toccati da Yehuda che hanno causato una tale reazione in un Giuseppe il cui cuore era stato fino a poco prima impassibile alla sensibilità di figlio e fratello? Quale parola segreta menziona Yehuda che apre la porta di quell’emozione che era stata fino a poco prima nascosta così profondamente nella psiche di Giuseppe?
Io credo che la frase cruciale consista nelle parole, “perché mi sono fatto garante del ragazzo presso mio padre” (Genesi 44:32); Yehuda informa Giuseppe di essere un arev, un co-firmatario, un garante per Beniamino, un concetto abbastanza radicale per questi fratelli contrapposti e che si ritrova nella successiva letteratura ebraica legale ed etica attraverso l’assioma che “ogni appartenente al popolo di Israele è co-firmatario (o garante) dell’altro”. Una lettura attenta del testo ci deluciderà sulla disfunzione alla base della dinamica familiare così come è stata vissuta da Giuseppe e ci spiegherà allo stesso tempo la lezione cruciale imparata dai fratelli che non ha solo raddolcito Giuseppe, ma che ha anche indotto il Viceré a rivelarsi, a perdonare i suoi fratelli e a riallacciare i rapporti con loro.
Giuseppe avrebbe potuto essere il figlio preferito e il primogenito eletto di Giacobbe “Questi sono i figli di Giacobbe, Giuseppe era diciassettenne” (Genesi 37:2) – ma era nato in una famiglia piena di gelosia e odio. I sei figli di Lea, l’odiata moglie che era stata imposta a Giacobbe con falsi pretesti, rifiutavano di riconoscere i figli dell’adorata moglie Rachel come fratelli legittimi; dunque il diciassettenne Giuseppe non aveva altro a cui ricorrere se non basare le sue compagnie sui fratelli più giovani e meno importanti, i figli delle mogli secondarie Zilpa e Bilhah, e compensava ‘facendo da pastore’ ai suoi fratelli, i figli di Lea (che si comportavano da pezzi grossi) e riportando tutte le loro debolezze al suo adorato padre. (Genesi 37:2).
Inoltre, Giuseppe si rivolgeva sempre ai suoi fratelli come tali, ma loro non utilizzavano mai con lui l’appellativo fratello: “E lui (Giuseppe) disse, sto cercando i miei fratelli e Giuseppe andò dopo i suoi fratelli. E loro lo videro da lontano. Si dissero l’un l’altro, ecco, sta arrivando quel sognatore, uccidiamolo e gettiamolo in un pozzo e raccontiamo che un animale feroce lo ha divorato” (Genesi 37: 16-20).
La triste verità è che il giovane Giuseppe era alla disperata ricerca della relazione fraterna con i suoi fratelli – ma era costantemente rifiutato. E quando aveva provato ad affrontare il loro rifiuto raccontando i suoi maestosi sogni (forse compensatori), la cosa causava solo più odio nei suoi confronti. Perfino Reuven, che tenta decisamente di salvare Giuseppe, non lo chiama mai ‘fratello’, ma si riferisce sempre a ‘lui’ con un pronome (Genesi 37: 21, 22). Solo Yehuda si riferisce a lui come fratello, ma dal momento che è desideroso di trarre profitto dalla sua vendita come schiavo, l’uso del termine potrebbe essere ironico: “Che profitto otterremmo uccidendo nostro fratello? Vendiamolo agli Ismaeliti, si tratta di nostro fratello, la nostra stessa carne” (Genesi 37: 26, 27).
Nel prosieguo della storia, la mancanza di fratellanza verso i figli di Rachel è enfatizzata ancora di più: “E i dieci figli di Giuseppe (loro si sentivano fratelli l’uno dell’altro) scesero in Egitto per comprare il grano, ma Giacobbe non aveva mandato Beniamino, fratello di Giuseppe (ma non fratello dei dieci) (Genesi 42: 3, 4). E quando i figli di Giacobbe si ritrovano di fronte al Viceré la Bibbia sottolinea la disomogeneità nella loro relazione con una chiara dichiarazione, gravida di un duplice significato, ‘Giuseppe riconobbe i suoi fratelli (sia in termini di identità, sia in termini di relazione), ma loro non lo riconobbero” (Genese 42: 8).
Ora la parola ebraica ah (fratello) significa essere uniti insieme, il verbo ahot significa ricucire o suturare. ‘Ah’ deriva dalla radice di unità, (ehad, ahdut) che proviene dalla consapevolezza di essere discesi da un unico padre. Non c’è bisogno di dire che dal momento che la comune origine della loro unità sta nell’avere lo stesso padre, essi non dovrebbero volere causare né pene l’un l’altro né, ovviamente, pene al loro padre. Evidentemente l’odio nutrito per Giuseppe dai dieci fratelli era perfino più forte della loro preoccupazione, come figli, per il benessere del loro padre – e così sembrano non avere alcuna difficoltà nel raccontare a Giacobbe che il suo adorato Giuseppe era stato divorato da una bestia feroce!
Quando Yehuda dichiara al loro padre Giacobbe che avrebbe fatto da garante (da co-firmatario) per Beniamino, sta esprimendo la sua nuova ritrovata consapevolezza del fatto che questo, il più giovane di tutti i figli di Rachel, sia un vero ‘ah’, un fratello, una parte inestricabile di sé stesso. Quando dice al Viceré di essere pronto a diventare servo al posto di Beniamino – cosicché questo figlio di Rachel potesse essere riportato al suo amato padre per evitare a Giacobbe ulteriori pene – sta dimostrando il legame di massima unità tra fratelli così come tra i fratelli e il loro padre. Questa è l’ahva (amore fraterno) e ahdut (unità) che crea un legame indissolubile (hibur, haverut, attaccamento profondo). La prova di una tale fratellanza sta nella volontà dell’uno di agire come garante per l’altro, di accollare su di sé le sofferenze e le umiliazioni dell’altro, grazie al proprio profondo legame con il proprio fratello e soprattutto grazie al proprio profondo legame con il proprio padre! È in questo punto, in cui Yehuda manifesta il suo sacrificio per il più piccolo figlio di Rachel, che Giuseppe realizza il pentimento dei suoi fratelli ed è pronto a dimenticare e riunirsi a loro.
Il profeta Ezechiele ci rivela la visione finale di un Israele unito quando gli viene detto da D-o di prendere un bastone e di scrivere su di esso “per Yehuda e i figli di Israele suoi amici” (haver, hibbur, legame), di prendere un altro bastone e di scriverci “per Giuseppe, il bastone di Efraim e l’intera casa di Israele sua amica”, e di unire entrambi i bastoni in modo da farli rimanere insieme nella sua mano (Ezechiele 37). Questo è l’obiettivo ebraico, imparato da Yehuda, quello che ogni ebreo veda sé stesso come un garante per ogni altro ebreo, per rendere più grande gloria del nostro comune Genitore nel cielo.
Shabbat Shalom