Come è risaputo i chakhamim (Berakhot 26b) individuano due differenti origini delle tefillot che quotidianamente recitiamo: secondo R. Yosè beRabbì Chanina sono state istituite dai patriarchi, mentre secondo R. Yehoshua’ ben Levì corrispondono ai sacrifici quotidiani nel Bet ha-miqdash. Le circostanze che portarono i patriarchi a pregare sono significativamente differenti fra di loro, e parimenti i loro approcci sono differenti: Avraham, che sfrontatamente si confronta con H. per salvare Sodoma, Ytzchaq, che si reca in campagna per pregare di trovare una degna moglie, Ya’aqov, che, lasciata la casa paterna, si trova di notte, solo, in un luogo sconosciuto.
Rav Soloveitchik (Ra’ionot ‘al ha-tefillàh, p. 244) si chiede: come è possibile che un essere umano si trovi di fronte ad H., senza perdere la propria individualità? Nelle tefillot dei patriarchi invece si afferma fortemente il loro modo di essere. E’ notevole soprattutto il contrasto fra l’armonia con l’ambiente circostante di Ytzchaq e il confronto con l’ignoto di Ya’aqov. Poco dopo (27b) la ghemarà discuterà sulla natura della tefillàh di ‘arvit, se sia obbligatoria o facoltativa. Anche se i due temi, l’origine e l’obbligatorietà, non sono esplicitamente collegati, per Rashì (Shabbat 9b) c’è un chiaro nesso: difatti, se i patriarchi hanno istituito le tefillot, non c’è motivo di distinguere fra le tefillot di Avraham, Ytzchaq e Ya’aqov, e la tefillàh di ‘arvit è pertanto obbligatoria come le altre; mentre, se l’istituzione deriva dai sacrifici, non troviamo un sacrificio serale nel Bet ha-miqdash, ma i sacrifici del giorno appena trascorso continuavano a bruciare sull’altare durante la notte, ed è comprensibile perché la tefillàh di ‘arvit sia considerata facoltativa. Il ragionamento fila, ma non tutti sono d’accordo: infatti il Netziv riporta l’opinione delle Sheiltot di Rav Achai Gaon, il quale sostiene che le tefillot sono state stabilite dai patriarchi, ma la tefillàh di arvit è facoltativa.
Perché allora la tefillàh di Ya’aqov è differente da quella degli altri? La ghemarà in massekhet Chullin (91b) spiega che ciò che suscitò in Ya’aqov la necessità di pregare fu il luogo in cui si trovava (Waifgà’ bamaqom) – Ya’aqov disse “è possibile che sia passato nel luogo in cui i miei padri hanno pregato, ed io non l’ho fatto?” La tefillàh di Ya’aqov è la risposta ad una circostanza particolare, e non un obbligo categorico. Toràh Temimàh (Bereshit 28,11) cerca di contestualizzare l’episodio. Infatti in condizioni normali Ya’aqov, secondo la regola stabilita dalla ghemarà (‘Eruvin 65a), sarebbe esente dalla preghiera, in quanto si trovava in viaggio, ed in quella condizione non è possibile concentrarsi a dovere. Il motivo per cui al giorno d’oggi noi, nonostante tutto, preghiamo anche quando siamo in viaggio è che non mettiamo mai la dovuta concentrazione, e questo dovrebbe farci riflettere. Ma è possibile dire altresì, secondo lo Zohar, che la tefillàh di ‘arvit è facoltativa, perché si collega alle due precedenti. Come è possibile che la tefillàh di Ya’aqov, il principale fra i patriarchi, sia solo facoltativa? Risponde lo Zohar, le tefillot di Avraham ed Ytzchaq sono solamente un’introduzione alla tefillàh di Ya’aqov. Se si facesse un paragone con l’unione fra un uomo ed una donna, i primi due patriarchi sono le braccia. Nel momento in cui vi è l’abbraccio, non serve fare altro, perché il resto viene da solo.
La tefillàh di ‘arvit, istituita da Ya’aqov, sottolinea quanto sia opportuno pregare quando si è circondati dal buio. Menorat ha-maor (cap. 2, p. 36) scrive che la notte rappresenta l’esperienza di Ya’aqov, che fra i patriarchi è quello che ha sofferto di più, per via del rapporto con ‘Esav, la vendita di Yosef, ecc., ma è riuscito a salvarsi da tutto e da tutti. Il Meshekh Chokhmàh nota come H. sia apparso a Ya’aqov per due volte di notte. Anche se Ya’aqov avinu, a differenza di Ytzchaq, fu costretto ad abbandonare Eretz Israel, e sperimentare cosa significhi vivere in esilio, H. lo rassicura, in modo particolare durante la notte, per insegnargli che anche nella galut è possibile contrastare le tenebre e fare in modo che la Presenza divina si posi su di noi, come è detto in massekhet Meghillàh (29a), “ovunque siano essi esiliati, la Shekhinà è con loro”. Ma d’altro canto è detto anche, parlando di Yechezqel, che è possibile profetizzare in Diaspora solo se già si profetizzava in Israele. Il Meshekh Chokhmàh ritiene che questo insegnamento sia rilevante anche per noi: unicamente se seguiamo la strada dei nostri padri, la Presenza Divina può seguirci anche nella notte, nell’esilio.
Tiferet Shelomò (parashat Miqetz) scrive che nessun altro patriarca se non Ya’aqov avrebbe potuto istituire la tefillàh di ‘arvit, che ha la stessa radice di ‘arevut (garanzia reciproca): difatti nelle famiglie degli altri patriarchi c’erano Yshma’el ed ‘Esav, e pertanto la ‘arevut non era perseguibile. Questa condizione è possibile solamente fra i figli di Ya’aqov, e questo sarà il messaggio principale che Yosef inculcherà ai suoi fratelli in Egitto. In Ish ha-emunàh (pp. 35-36) Rav Soloveitchik nota come la comunità degli oranti sia nata esattamente nel momento in cui si esaurisce il modello della società incentrata sulla profezia. La tefillàh pertanto è la prosecuzione della profezia. La differenza è che nella profezia il Signore parla e l’uomo ascolta, mentre nella tefillàh i ruoli si invertono. Quando gli Anshè Keneset ha-ghedolàh fissarono la tefillàh non perseguirono altro scopo se non quello di non interrompere il dialogo con H. Se non è H. a chiamarci, chiamiamolo noi!