Letizia Fargion – Event Producer
Parashà Vayeshev è la nona parashà del libro della Genesi. All’inizio della parashà Giuseppe ha 17 anni ed è descritto come un נער, un fanciullo: Rashi commenta: “è attento al suo aspetto, si acconciava i capelli e aveva cura dei suoi occhi, per apparire piu’ bello”. Sembra la descrizione di un adolescente del 2020. La narrazione continua evocando che Giuseppe gioca coi suoi fratelli più piccoli, i figli di Zilpah e Bilhah, con cui anche con loro non ha un gran rapporto. Nessuno dei fratelli stima Giuseppe, il quale è un ragazzo emarginato, timido, solo, rimasto orfano di madre da piccolo, ma nonostante tutto, è un ragazzo che non ha paura, rivelandosi un sognatore e interprete di sogni.
Sogna e non ha paura di racconte ai suoi fratelli, i quali lo odiano fin dal primo momento, prima ancora che Giuseppe racconti loro i sogni. Ci si domanda: lo odiano o lo invidiano? Invidiano il fatto che lui sia un sognatore, una persona che ha una vita interiore, trascendentale, che aspira a qualcosa di più, a un cambiamento? Mentre I fratelli sono radicati nel loro presente, nella loro routine, nei loro doveri, Giuseppe vive in un suo mondo interiore.
Giacobbe manda Giuseppe a cercare i suoi fratelli ma non li trova. È quasi pronto ad abbandonare la sua missione, quando improvvisamente appare davanti a lui un uomo che gli indica dove trovare i suoi fratelli:“Un uomo lo trovò mentre andava errando per la campagna, e l’uomo gli domandò: ‘Che cerchi?’ Egli rispose: ‘Cerco i miei fratelli; dimmi, ti prego, dove pascolano il gregge‘” (Genesi 37, 15-16).
L’uomo mostra a Giuseppe la strada, Giuseppe incontra i suoi fratelli, e da lì ha inizio la storia della sua vendita, della sua discesa in Egitto e, successivamente, dell’intero destino del popolo di Israele. L’Ibn Ezra spiega, secondo il significato semplice del testo, che l’uomo era una persona comune, un passante incontrato casualmente da Giuseppe lungo il cammino.
Al contrario, Rashi cita le parole del Midrash, secondo cui l’uomo era l’angelo Gabriele, inviato appositamente dal cielo per guidare Giuseppe e condurlo in Egitto. La Torah suggerisce questa interpretazione con la formulazione:“Un uomo lo trovò” – non è scritto che Giuseppe trovò l’uomo, ma che l’uomo trovò Giuseppe, a dimostrazione che la sua comparsa fu guidata divinamente.
Anche il Ramban, sulla base del Midrash, approfondisce l’idea sottolineando: Giuseppe stava vagando senza meta, non sapeva dove andare. Avrebbe avuto una giustificazione perfetta per tornare a casa ed evitare l’incontro “pericoloso” con i suoi fratelli. Ma Dio aveva un piano, e quel piano doveva realizzarsi: “Per farci sapere ancora che il decreto divino è la verità e l’impegno umano è illusione. Infatti, Dio gli ha mandato una guida senza che lo sapesse, per consegnarlo nelle loro mani… perché il piano di Dio si realizzerà“.
Il messaggio è chiaro: tutto ciò che accade a Giuseppe fa parte di un progetto divino preciso. Anche quando la strada sembra incerta o tortuosa, tutto avviene sotto una guida superiore.
Il racconto di Giuseppe si interrompe, la scena muta completamente e si narra la vicenda di Giuda e della nuora Tamar. Alla morte del marito, Tamar comprende che suo suocero Giuda non intende prendersi cura di lei e decide di agire per conto proprio. “Giuda la riconobbe e disse: ‘Lei è più giusta di me.” Ne comprendiamo che ammettere un errore e correggerlo è una virtù e commenta Rashi “Dio decreta che dei re avranno origine da lei” e dalla tribu di Giuda susciterò dei re in Israele”.
Da questo episodio un nesso sulla posizione della donna nella società, da una parte abbiamo Tamar che può riscattare la sua posizione sociale di vedova, mettendo al mondo un figlio, è una donna debole, fragile, che soltanto attraverso la nascita di un figlio riscatta la sua indipendenza e all’estremo opposto una donna egiziana appartenente a una casta sociale alta, la moglie di Potifar che cerca di sedurre invano Giuseppe, la Torah ci descrive un primo abuso sessuale, perpetrato da una donna a un uomo, lei rimane impunita mentre Giuseppe verrà imprigionato anche se innocente.
Nei due episodi le donne eseguono la volonta’ di Dio, ממני “da me!” E’ per mia volontà che è avvenuto tutto ciò. Nuovamente tutto avviene sotto una guida superiore! Da Tamar discesero i re d’israele, e dalla figlia di Potifar i figli di Giuseppe. Infatti più avanti leggeremo che Giuseppe si sposerà con la figlia di Potifar e avrà due figli.
La narrazione continua. Nonostante le accuse false e l’ingiusta prigionia, Giuseppe non si abbatte. La Torah sottolinea che: “E il Signore fu con Giuseppe, ed estese su di lui la Sua grazia, e gli fece trovare favore agli occhi del capo della prigione” (Genesi 39:21). La presenza divina è con lui, e la sua condotta esemplare gli permette di guadagnarsi la fiducia del guardiano della prigione.
In prigione, incontra due servitori del faraone: il coppiere e il panettiere, anch’essi imprigionati. Entrambi fanno dei sogni misteriosi e, turbati, si confidano con Giuseppe, che si offre di interpretarli. Giuseppe afferma: “Le interpretazioni non appartengono forse a Dio? Raccontatemi, vi prego” (Genesi 40:8).
Le interpretazioni di Giuseppe si avverano esattamente come predetto. Questo episodio dimostra il dono speciale di Giuseppe, che non è solo un semplice sognatore, ma anche un interprete ispirato da Dio. Questo dono sarà la chiave per il suo futuro riscatto.
Giuseppe, conscio della verità delle sue parole, chiede al coppiere: “Ricordati di me quando tutto ti andrà bene… e fa’ che io esca di qui” (Genesi 40:14). Nonostante le sue speranze, il coppiere, una volta liberato, si dimentica di Giuseppe, che resta in prigione per altri due anni, dice Rashi. Questo dettaglio evidenzia l’importanza del tempo divino: la redenzione di Giuseppe non avverrà subito, ma solo quando Dio riterrà opportuno.
La particolarità di Giuseppe è che in ogni evento e in ogni persona incontrata lungo il suo cammino, egli vedeva la mano di Dio che lo guidava. Giuseppe capiva che tutto è diretto dalla provvidenza divina, come dirà ai suoi fratelli alla fine della storia:“Ora, non rattristatevi e non vi dispiaccia di avermi venduto qui, poiché Dio mi ha mandato davanti a voi per salvarvi” (Genesi 45, 4). Questa parashà ci insegna che i conflitti e le sfide della vita familiare non sono solo problemi di ieri, ma temi universali e senza tempo. La Torah non ci offre risposte facili, ma ci invita a riflettere sulle nostre relazioni, sul perdono e sulla possibilità di crescere come individui e come comunità.