Alla fine della parashà, la Torà ci racconta quella che fu la decima ed ultima prova del patriarca Avraham, con queste parole: ”Dopo queste cose, avvenne che Iddio mise alla prova Avraham, e gli disse: Avraham! Ed egli rispose: Eccomi. E Dio disse: Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Yitzchàk, e vattene (lekh lekhà) nel paese di Morià, e offrilo lì in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò”(Bereshìt, 22: 1-2).
Nell’introduzione al volume di Bereshìt di Mesoras Harav, l’opera nella quale furono raccolti alcuni insegnamenti sulla Torà di r. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston), il suo discepolo r. Menachem Genack (USA, 1949- ) direttore generale della casherut della Orthodox Union e della casa editoriale dell’organizzazione, trattò l’argomento della “‘akedàt Yitzchàk”, il legamento di Yitzchàk all’altare per essere sacrificato.
In questa introduzione r. Genack scrisse che l’espressione “lekh lekhà” (vattene) appare solo due volte nella Torà. La prima volta fu quando l’Eterno disse ad Avraham: “Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che ti mostrerò” (ibid., 12:1). La seconda volta appare in questa parashà nella quale l’Eterno comanda ad Avraham di sacrificare il figlio. Entrambi i comandamenti furono parte delle prove di Avraham.
Nel primo caso l’Eterno disse ad Avraham di rinunciare al suo passato; nel secondo caso di rinunciare al suo futuro. Il primo lekh lekhà era un ordine di formare un nuovo popolo con il supporto divino. Avraham doveva creare una nazione senza il beneficio di un storia nazionale; creare una cultura senza una ricca tradizione; formare una società senza una massa critica di amici e parenti.
Il secondo lekh lekhà era il decreto divino che il futuro di Avraham era un’illusione. Qualunque fossero i sogni e le aspirazioni di Avraham, sarebbero stati distrutti in modo permanente. Le promesse di diventare un grande popolo sarebbero svanite con la morte di Yitzchàk. Solo la suprema fede di Avraham gli diede la forze di perseverare e di seguire il comando divino in ognuno dei due lekh lekhà.
R. Soloveitchik in Mesoras Harav (p.148) commenta che quando Avraham arrivò al monte Morià, il sacrificio era un fait accompli . Nella mente di Avraham, Yitzchàk non c’era più. Nella sua mente il sacrificio di suo figlio era già stato consumato. Non c’era più bisogno di un sacrificio fisico perché Avraham aveva soddisfatto il comando divino ancora prima di arrivare al monte Morià. Tutto quello che l’Eterno richiedeva ora da Avraham, era un sacrificio sostitutivo: “E Avraham alzò gli occhi, guardò, ed ecco dietro a sé un montone, preso per le corna in un cespuglio. E Avraham andò, prese il montone, e l’offerse in olocausto invece di suo figlio” (ibid. 13).
Il nonno omonimo di r. Soloveitchik (Russia, 1820-1892), noto per la sua opera Bet Ha-Levi, commentò che quando Avraham disse all’Eterno: “Io sono polvere e cenere” (‘afar ve-efer) (ibid, 18:27), Avraham voleva dire che senza l’aiuto divino non aveva né un passato né un futuro. La polvere, la terra, non ha passato ma ha un futuro; ha un potenziale se viene coltivata. La cenere invece è ciò che rimane dalla vitalità passata e nulla può più crescere dalla cenere. La cenere ha un passato ma non ha futuro.