Tempio di via Eupili – Milano
La storia dell’Akeda, la legatura di Yitzchak, è, insieme alla rivelazione sul Sinai, uno degli eventi centrali nella storia e nella religione ebraica. Uno degli aspetti più notevoli di questo episodio è l’unica parola con cui Avraham accetta su di sé questa prova difficile. D-o lo chiamò: “Avraham!” e, con magnifica semplicità, la risposta è imminente: «Hineni», «Eccomi, eccomi», oppure «sono pronto» (Bereshit 22,1).
Un commentatore, Rav Avraham ben haRambam – l’unico figlio di Maimonide – sottolinea la qualità di questa risposta contrapponendola a quella di Adamo: “Quanta differenza c’è tra Avraham che rispose alla chiamata divina con la parola ‘hineni’, e Adamo che, quando Do lo chiamò: ‘Dove sei?’ rispose: ‘Ho visto che ero nudo e così Ho nascosto.'” Questo confronto è inquietante. La risposta di Adamo è, dopotutto, la risposta di un essere umano in qualche modo inseguito da D-o che chiede una spiegazione per un terribile fallimento, mentre la risposta di Avraham è a una chiamata divina non necessariamente connessa con alcuna offesa. Non è un paragone che non sta in piedi? Potremmo offrire una risposta che non solo giustifichi il commento di Rav Avraham ben haRambam ma che abbia le più ampie ramificazioni sia per una corretta comprensione della Torà che per la nostra stessa vita. Questa risposta è che entrambi gli uomini – Adamo e Avraham – furono, in un certo senso, rimproverati.
La storia dell’Akeda inizia con le parole: “E avvenne dopo queste cose”. Quali cose? Chiesero i rabbini (Bereshit Rabba 55:4). Nella loro risposta i Chachamim indicano che le parole della Torà implicano una severa introspezione. L’Akeda avvenne, si dice, dopo una profonda meditazione e autoanalisi di Avraham il quale, secondo i Chachamim, era turbato da una cattiva coscienza e l’Akeda fu il risultato degli errori di Avraham. Cos’è che turbava Abramo? Ci sono diverse interpretazioni (vedi Bereshit Rabba 55). Uno di queste è un midrash citato in Kav haYashar che si riferisce alla celebrazione organizzata da Avraham in onore dello svezzamento di suo figlio Yitzchak. La Torà si riferisce a quella festa chiamandola “mishte gadol”, una grande festa. La tradizione vuole che la grandezza di questo banchetto fosse dovuta agli ospiti che vi partecipavano, una festa a cui partecipavano tutti i giganti dell’epoca. Shem , Ever e Og erano tra gli ospiti. Era proprio questo il turbamento di Avraham: C’erano solo i grandi, ma non si parlava di esseri umani comuni. Certamente Avraham, che sopra ogni cosa era rinomato per la sua ospitalità, avrebbe dovuto sapere che nella sua simcha personale avrebbe dovuto avere come protagonisti anche le persone comuni. La coscienza di Avraham lo turbava; Non aveva forse contribuito a una sottile trasformazione e a un pericoloso degrado dall’ospitalità al mero divertimento? Ad ogni modo,qualunque cosa abbia causato il turbamento di Avraham, ha portato all’episodio della Akeda. La chiamata divina ad Avraham era una chiamata di coscienza. Ciò che rav Abraham ben haRambam intendeva, quindi, era che sia Adamo che Avraham avevano risposto al richiamo di una cattiva coscienza – Adamo per aver mangiato il frutto proibito, e Avraham per i suoi turbamenti – ma qui che finisce il paragone. Quando si tratta delle risposte di questi due individui, la differenza è molta.
Quando Adamo peccò e sentì D-o chiamarlo, disse: “Ho udito la tua voce nel giardino” e “Ho visto che ero nudo”; In questa risposta c’è un’improvvisa consapevolezza della sua nudità, della vergogna e della disgrazia. E allora cosa fa? “E così mi sono nascosto”; si ritrae, si nasconde, nega di aver fatto qualcosa di sbagliato. Fugge e, di fronte a D-o, incolpa sua moglie o il serpente… Avraham, di contro, quando D-o lo chiama, la sua risposta è: “Hineni”, “Eccomi!” Sono disposto a sfruttare la mia cattiva coscienza per un buon uso. Sono pronto a passare attraverso un’Akeda, a superare il passato e usarlo per costruire il futuro, insegnando al mondo il vero significato della fede e fino a che punto si deve andare per sostenerla. Rashi ci dice che la parola hineni implica sia “anava” che “zimun” sia mansuetudine che prontezza. È infatti il linguaggio della mansuetudine perché rivela una cattiva coscienza, ed è il linguaggio della prontezza perché Avraham è pronto a fare qualcosa al riguardo. È pronto a prendere la sua cattiva coscienza per fare qualcosa di positivo.
Avraham qui ci sta insegnando qualcosa di importante: Nessuno, in fondo, è così santo da non avere mai occasione di avere una coscienza cattiva o turbata. Al contrario, ogni uomo o donna che onestamente sente di non avere alcuna cattiva coscienza dovrebbe avere una cattiva coscienza per essere così insensibile da non avere una cattiva coscienza. Preferiremmo essere come Adamo che risponde solo con “e così mi sono nascosto” – che nega il suo passato, che elude la sua responsabilità? Avraham ci insegna che la vita ci pone di fronte a prove difficili o meno difficili. La differenza è come le affrontiamo ma anche come ci ripensiamo. Perché ripensarci è d’obbligo, come può succedere di fare delle cose per le quali non siamo contenti e che vogliamo emendare. Il modo corretto di costruire il nostro futuro non è negarle ma utilizzarle, fare introspezione in noi stessi e imparare dai nostri errori e utilizzarli per crescere moralmente e spiritualmente, facendo teshuvà, osservando le mitzvot e facendo del chesed come insegnato da Avraham Avinu, l’archetipo del chesed, e influenzando positivamente il prossimo. Solo così creeremo una società più giusta, armoniosa ed equilibrata.