Rav Shlomo Riskin – Efrat, Israele – 5763 (2002-2003) – Tradotto da Dany e Giulio Barki
Il libro della Genesi si conclude con la parashà di questa settimana, descrivendo le specifiche benedizioni – e descrizioni profetiche – che il patriarca Giacobbe, Yisrael Sabba, attribuisce a ciascuno dei suoi dodici figli, destinati a trasformarsi nelle dodici tribù d’Israele, e poi descrive la morte e il funerale dell’ultimo dei patriarchi così come la morte del suo caro figlio Giuseppe, Viceré d’Egitto.
Effettivamente, l’ultima immagine che abbiamo di Giuseppe è quella di questo ebreo, realizzato al massimo – uno squattrinato immigrato dalla terra di Canaan che è arrivato alla fama e alla fortuna nella sua terra d’adozione diventando l’individuo più potente d’Egitto – che ha visto senza dubbio la sua immagine nelle copertine delle più popolari riviste egiziane e la sua esperienza economica ed internazionale citata in ogni libro delle cronache egiziane conosciuto. Giuseppe è persino diventato patriarca di diritto di una nuova dinastia sviluppatasi in Egitto: “… e Giuseppe visse centodieci anni. Giuseppe vide nascere suo nipote a (suo figlio) Efraim ed i figli di Makhir il figlio di Menashe nacquero sulle le ginocchia di Giuseppe” (Genesi 50:24).
Al culmine di un successo così spettacolare, professionale e familiare in terra d’Egitto, la squillante dichiarazione di sionismo e di devozione alla terra nativa di Israele nel verso subito seguente – un verso con cui il libro della Genesi virtualmente si conclude – porta il lettore superficiale a sorprendersi e a cogliere a fatica la logica della situazione che gli si presenta: “e Giuseppe disse ai suoi fratelli, sto per morire; D-o si ricorderà sicuramente di voi e vi porterà da questa terra a quella promessa ad Abramo, Isacco e Giacobbe. E Giuseppe si congedò dai figli di Israele, dicendo: D-o si ricorderà sicuramente di voi; dovete portare le mie membra su (in Israele) da questo (posto)” (Genesi 50:25). L’ultimissimo verso della Genesi – e seguenti – riporta meramente e con freddezza la morte di Giuseppe e la sua imbalsamazione – che renderà più semplice il trasporto delle sue membra – all’età di 110 anni.
Piuttosto, avremmo potuto aspettarci che Giuseppe ordinasse ai suoi fratelli e figli di rimanere patriotticamente fedeli all’Egitto, il paese che gli aveva permesso di arrivare ad avere un peso senza precedenti e che aveva salvato l’intera famiglia da ignominiosa morte per carestia. Ricordiamoci che era Giuseppe quello che si sentiva evidentemente oppresso e costretto nella terra del pascolo di greggi di Israele, quello che aveva sognato il successo economico, sottoforma di covoni di grano, nel più sofisticato e agricolo Egitto, quello che aveva persino osato sognare riconoscimenti di livello internazionale, se non addirittura cosmico, come leader mondiale. Sicuramente, una ‘spinta al sionismo’ sembra essere certamente in sintonia con il libro della Genesi, in cui al primo patriarca Abramo viene dato il comandamento della ‘aliyah’ come primo effettivo incarico da D-o: ‘Vai via (per il tuo stesso bene) dalla tua terra, dal posto in cui sei nato, dalla casa di tuo padre verso la terra che Io ti mostrerò’ (Genesi 12:1). Tuttavia questo tipo di messaggio sembra risuonare falso provenendo da Giuseppe al culmine del suo successo – non più uno straniero in terra straniera d’Egitto ma uno che ha più che mai guadagnato il diritto di considerare l’Egitto casa sua!
Penso che una lettura più attenta del testo rivelerà l’origine della disillusione di Giuseppe nei confronti del suo paese d’adozione e spiegherà la sua richiesta sul letto di morte di essere sepolto in Israele. L’ultimo capitolo del libro della Genesi esordisce con quello che succede subito dopo la morte di Giacobbe: “Giuseppe si getta sul viso di suo padre, piange su di lui e lo bacia” (Genesi 50:1). Egli ordina poi ai medici di imbalsamarne il corpo e decreta per l’Egitto un periodo di dolore di settanta giorni. Quello che ora segue nel testo, tuttavia, è quasi inspiegabile nelle sue allusioni tra le righe: “..E Giuseppe parlò alla casa del Faraone (ai servi, secondo la maggior parte dei commentatori) dicendo, ‘se ho trovato gentile consenso ai vostri occhi, parlate per favore nelle orecchie del Faraone, dicendogli che mio padre mi ha fatto fare un giuramento, dicendomi: ‘sto per morire, nella mia tomba che ho scavato per me nella terra di Canaan, là mi seppellirete’. Ed ora, per favore, permettetemi di andare a seppellire mio padre e poi ritornerò” … (Genesi 50:4,5).
Difficilmente potremmo considerare questo, come il modo con cui ci aspetteremmo venga preparato un viaggio imperiale per la sepoltura di un defunto. Il Viceré dell’Egitto, secondo soltanto al Faraone, deve proprio supplicare con ossequi ai servi del Faraone di bisbigliare nelle orecchie del despota il giuramento che il suo vecchio padre lo ha incitato a sostenere? Non dovrebbe Giuseppe poter parlare direttamente al Faraone del funerale di suo padre? Effettivamente, la stessa natura contorta della richiesta induce uno dei commentatori biblici, Rav David Pardo, a suggerire che durante questa congiuntura Giuseppe avesse perso la sua alta carica e che fosse stato licenziato come Viceré!
La vera spiegazione può essere molto più semplice: Giuseppe non ha perso il suo lavoro, ma ha preso coscienza della natura sensibile della sua posizione. Finché è stato coinvolto in questioni concernenti il benessere dell’Egitto, era il Viceré dell’Egitto, il Gran Visir. Tuttavia, nel momento in cui ha dovuto occuparsi di una questione personale, di seppellire suo padre in Israele, è diventato l’Ebreo sospettato di conflitto di interessi. Ecco perchè, secondo il Ramban, Giuseppe ha dovuto disturbare il suo vecchio padre, facendogli affrontare l’arduo viaggio per l’Egitto per nutrire la sua famiglia, piuttosto che andare lui stesso a visitare suo padre e mandare il grano dall’Egitto a Israele per sostentare i suoi parenti. Ecco perchè deve supplicare i servi di preparare il Faraone per il suo viaggio di sepoltura in Israele. Ora, forse per la prima volta, Giuseppe si rende conto che, malgrado il suo potere apparente, rimane sempre l’Ebreo, l’eterno straniero, la cui lealtà nei confronti dell’Egitto sarà sempre sospetta. Ha imparato che è in Egitto, non in Israele, che un Ebreo si deve ritenere costretto e oppresso. E così lui, Giuseppe, chiede alla sua famiglia col suo ultimo respiro di seppellire le sue membra in Israele, che è la nostra unica vera patria.
Inoltre, Giuseppe si è reso probabilmente conto che tutti i suoi imponenti sogni cosmici possono essere realizzati soltanto stando in terra d’Israele, la fonte del monoteismo etico per il mondo. Dopotutto, il sogno di Giacobbe sull’unione del cielo e della terra può essere realizzato soltanto – secondo la visione del patriarca – nel momento in cui D-o lo riporta in Israele. Vi ricorderete che, nel sogno di Giacobbe, l’Onnipotente sta in cima alla scala che unisce il cielo e la terra ed Egli garantisce che Giacobbe ritornerà in Israele. Effettivamente, è la terra di Israele che unirà tutta l’umanità, così come il cielo e la terra, quando la Torah che arriva da Zion e Gerusalemme farà sì che le spade si trasformino in vomeri e che la conoscenza di D-o riempia la terra. La missione di Israele è proprio quella di trasformare e perfezionare il mondo secondo l’immagine del monoteismo etico – ma ciò sarà compiuto soltanto da Ebrei che vivono in Israele e Gerusalemme, devoti alla loro tradizione, con un loro stile di vita nazionale, espressione del messaggio di pace ed armonia che infonderà in tutta l’umanità l’accettazione delle sette leggi della morale biblica .
Shabbat Shalom