In un passo del Talmud (Ketubbot 17a) Bet Shammay e Bet Hillel discutono su come si debba lodare la sposa allorché si danza davanti a lei. Shammay afferma che la si debba lodare nei limiti di quello che è (kallah ke-mot she-hì), senza mentire su virtù che non ha specie se non è particolarmente bella. Hillel sostiene invece che si debba comunque dire: “sposa bella e aggraziata” (kallah naah wa-chassudah) anche se la lode non dovesse corrispondere alla realtà. Si deve infatti tener conto della sensibilità non solo di lei, ma anche di colui che l’ha scelta in moglie. In generale impariamo “che la nostra mente deve essere coinvolta nel sentire comune delle creature”. Shammay è l’uomo della verità; Hillel è l’uomo della pace.
Recitano i Pirqè Avòt (1,18): “Rabban Shim’on ben Gamliel diceva: Per tre cose il mondo si mantiene: per la giustizia, per la verità e per la pace, come è detto: ‘verità e giustizia di pace giudicate alle vostre porte’” (Zekh. 8,16). Rav David Z.S. Segre di Vercelli nota nel suo commento Maghen Avòt che la Mishnah avrebbe dovuto dire “per la verità, per la giustizia e per la pace” seguendo l’ordine del versetto. In realtà –spiega- la giustizia è qui al servizio degli altri due valori, la verità e la pace presi parallelamente. L’intendimento di Rabban Shim’on ben Gamliel è dunque: “giudicate secondo verità”, come è scritto poc’anzi: “giudicate giustizia di verità” (Zekh. 7,9); e “giudicate giustizia di pace”. Alcuni secoli prima di Segre un altro commentatore italiano, R. ‘Ovadyah Sforno, già spiegava che occorre distinguere fra la giustizia di verità che è secondo la legge e la giustizia di pace che consiste nel compromesso fra le parti, come dicono i Maestri: “E non succeda che dove ci sia giustizia non ci sia pace e che dove ci sia pace non ci sia giustizia, ma piuttosto, qual è la giustizia nella quale vi è pace? Diremo, il compromesso” (Sanhedrin 6b).
Il difficile rapporto fra verità e pace (o bontà) è al centro della Parashah odierna. La verità parla al cervello, mentre la bontà parla al cuore. Quando i fratelli si riconciliano definitivamente con Yossef dopo la morte del padre Ya’aqov gli dicono: “Tuo padre ha comandato prima di morire che tu condonassi la trasgressione dei tuoi fratelli che ti hanno trattato male. Ora perdona per favore la colpa dei servi del D. di tuo Padre” (Bereshit 50,16). In realtà non c’è precedentemente traccia nella Torah di una simile raccomandazione. I fratelli –commenta Rashì- hanno semplicemente alterato la verità pro bono pacis. I Maestri del Talmud (Yevamot 65b) lo hanno permesso.
Questo segna la differenza fra Chakham (“saggio”) e Tzaddiq (“giusto”). Nella storia d’Israele la verità è simboleggiata proprio da Ya’aqov (tittèn emèt le-Ya’aqov – Mikhah 7,20) il quale alla sua morte, narrata anch’essa nella nostra Parashah, non ha accettato la sepoltura in Egitto e ha chiesto che le sue spoglie fossero portate in Eretz Israel immediatamente. Allo stesso modo la verità non accetta compromessi: dobbiamo cioè non abbassare la verità al livello della bontà, ma semmai alzare la bontà al livello della verità. D’altronde la bontà è simboleggiata da Yossef ha-Tzaddiq, il quale ha invece scelto di rimanere in Egitto dopo la sua morte, di misurarsi con la realtà circostante accettando il compromesso con essa alfine di poterla un giorno elevare.
Ma è soprattutto in un terzo episodio della nostra Parashah che la controversia fra Ya’aqov e Yossef emerge in tutta la sua forza: quando si trattò di benedire i due figli di quest’ultimo, Menasheh e Efrayim. La Torah racconta che il nome di Menasheh deriva da una radice che significa dimenticare: “poiché H. –avrebbe motivato Yossef- mi ha fatto dimenticare tutta la mia sofferenza” (Bereshit 41,51). Efrayim è invece connesso con il verbo fruttificare: “D. mi ha permesso di avere frutti” (v. 52). Spiegano i nostri commentatori che Menasheh rappresenta l’allontanamento dal male, mentre Efrayim simboleggia l’apporto del bene. E’ logico pensare che prima occorra eliminare il male per far posto al bene. Ecco che Menasheh diviene il kelì, il recipiente (nel senso cabalistico), il contenitore che permette al bene (Efrayim) di essere contenuto. Quando venne il momento di farli benedire dal nonno, Yossef gli presentò i due figli precisamente in quest’ordine: Menasheh alla sua destra, a significare che meritava la Berakhah primaria e Efrayim alla sua sinistra. Yossef era dell’idea che il contenuto debba adattarsi al contenitore e che pertanto occorre in ogni caso prima predisporre il contenitore. Ma nonno Ya’aqov era di diverso avviso. La luce della verità, secondo lui, viene anzitutto. Poco importa che riversando la luce della verità senza tener conto del contenitore avrebbe verosimilmente provocato uno spreco, o forse un abbaglio. Per Ya’aqov è il contenitore che deve adattarsi al contenuto e quindi Efrayim andava benedetto prima di Menasheh. “So benissimo –disse a suo figlio Yossef- che un giorno anche Menasheh crescerà” (48,19) e si innalzerà, ma solo grazie alla luce che emana da Efrayim alla quale dovrà pian piano adattarsi fintanto che anche Menasheh sarà in grado di comprenderla completamente. Chi dei due aveva ragione?
Su questo argomento, abbiamo visto, già discutevano Bet Shammay e Bet Hillel a proposito della sposa. Il Midrash (Waykrà Rabbà, Parashah 36) riporta un’altra controversia fra le due scuole: è stato creato prima il cielo o la terra? Bet Shammay sostiene che il cielo è stato creato per primo e poi la terra. Bet Hillel invece diceva: “La terra è stata creata per prima, e poi il cielo”. Ciascuno motivava la sua opinione. Per Bet Shammay è come un re che prima si fa il trono, e poi si fa lo sgabello per i piedi, come è scritto: “Il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi” (Yesh. 66,1). Per Bet Hillel è come un re che si costruisce un palazzo: prima fa i piani bassi, poi quelli alti, come è scritto: “nel giorno in cui D. fece la terra e il cielo” (Bereshit 2,4). Disse R. Shim’on bar Yochay: come è stata possibile una discussione simile? Io dico che cielo e terra sono stati creati insieme, come una pentola e il suo coperchio: come dice il verso “Io li chiamo e si levano assieme (ya’amdù yachdaw – Yesh. 48,13)”.
Che entrambe le vie siano corrette è dimostrato anche dai personaggi della nostra Parashah. I commentatori osservano che Ya’aqov si limitò ad incrociare le braccia lasciando i due nipoti esattamente nella posizione in cui li aveva predisposti Yossef. Più semplicemente avrebbe potuto chiedere loro di scambiarsi di posto davanti a lui. Non lo fece. Alcuni spiegano questo fatto come un’espressione particolare di rispetto da parte di Ya’aqov nei confronti del figlio e di sensibilità nei confronti dei nipoti. Forse c’è di più. Forse c’è in questo un riconoscimento implicito delle motivazioni dell’altra parte accanto alle proprie. La verità di Ya’aqov, abbiamo visto, è connessa con il cielo, mentre lo tzaddiq Yossef è strettamente legato alla terra. Ma il versetto dice apparentemente l’inverso: emèt me-eretz titzmach we-tzedeq mi-shamayim nishqàf, “la verità fiorirà dalla terra, mentre la giustizia (tzedeq) si scorgerà dal cielo” (Tehillim 85,12). A ben vedere il versetto non parla della fonte dei due valori, ma del loro effetto sulla parte opposta. Chessed we-emet nifgashu: solo unendo verità e pace, il cielo con la terra, il mondo potrà trovare il suo tiqqùn tanto sperato.