Il nucleo fondamentale delle mitzwot della Torah sono i dieci comandamenti, e questi ultimi ruotano intorno ai primi due, “Io sono il S. D. tuo” e “non avrai altre divinità all’infuori di Me”. E’ evidente che entrambi gli aspetti sono indispensabili. Non è sufficiente accettare il fatto che H. è il nostro D., ma serve anche negare qualsiasi altra divinità all’infuori di H. Ma è possibile anche dire altrimenti. Se il nostro servizio di H. è totalizzante, non vi è spazio per altro, e il primo comandamento è il fulcro dell’intera Torah. Se è così, e i dieci comandamenti hanno un ruolo tanto centrale, non ci saremmo aspettati di trovare delle differenze fra la versione nella parashah di Itrò e in quella di Waetchanan.
In particolare le differenze più sensibili sono contenute nel quarto e nel quinto comandamento, lo Shabbat e l’obbligo di onorare i genitori. E’ evidente che le introduzioni nel libro di Devarim non sono delle aggiunte spontanee inserite da Mosheh, ma sono frutto dell’indicazione divina, come è scritto nei primissimi versi del libro(Devarim 1,3) “… Mosè disse ai figli d’Israele tutto ciò che il Signore gli aveva comandato di dir loro”. Nel comandamento di onorare i genitori in entrambe le versioni come ricompensa viene indicata la lunghezza di giorni, ma in Devarim è aggiunta l’espressione “ulma’an yitav lakh – e tu abbia bene”.
Questo bene è solo una esplicitazione di quanto detto in precedenza, una ripetizione di poco conto, o vi è un insegnamento ulteriore? Nel libro di Devarim si consuma il dramma personale di Mosheh Rabbenu, che a differenza della generazione cresciuta nel deserto non entrerà in terra d’Israele, numerose volte definita nel libro di Devarim come ha-aretz ha-tovah – la buona terra. Potremmo pensare pertanto che il bene è una conseguenza dell’ingresso in terra d’Israele, ma la ghemarà (Bavà Qamà 55a) dà una spiegazione sensibilmente differente: ci si chiede, perché nelle prime tavole della legge non si parla mai di bene, e nelle seconde sì? Il rabbino interrogato, R. Chyia bar Abbà, risponde di andare da R. Yehoshua ben Levì, in quanto quest’ultimo era esperto di Haggadah, poiché in realtà c’è una questione preliminare, chiarire se effettivamente si parla di bene o meno… R. Yehoshua ben Levì non rispose alla domanda, ma un altro maestro, Shemuel Bar Nachum disse che il bene non era menzionato nella prima versione, perché le prime tavole erano destinate ad essere distrutte, e in questo modo il bene si sarebbe interrotto.
Il dubbio di R. Chyia bar Abba anzitutto è difficile da comprendere, sarebbe sufficiente prendere un sefer Torah e controllare se nei primi comandamenti si parla di bene o meno! Inoltre, perché andare da un esperto di Haggadah? Sarebbe stato più opportuno andare da un esperto di tradizione testuale! Anche la risposta fornita da Shemuel ben Nachum presenta delle difficoltà, perché sembrerebbe che le prime tavole fossero destinate ad essere distrutte sin dall’inizio, come se il popolo ebraico non avesse la possibilità di evitare di peccare! Se è così, diviene incomprensibile la punizione! E’ chiaro d’altra parte che per aiutare l’ottenimento della consapevolezza, è necessario inciampare una volta, come apprendiamo dalla ghemarà nel trattato di Ghittin (43a). Un altro aspetto mostra una stranezza: perché ci si preoccupa della rottura delle tavole solo per il bene, forse non sarebbe una disgrazia di pari proporzioni l’interruzione della lunghezza dei giorni, che invece nella prima versione delle tavole compare? Possiamo dedurre che se si rompe qualcosa circa la lunghezza dei giorni esiste la possibilità di riparare attraverso il bene, e non viceversa. Ce lo spiega bene il verso nella parashah di Nitzavim (Devarim 30,15): “Guarda, io ho posto davanti a te oggi la vita e il bene…”. Non basta la vita, serve che questa sia buona. Il bene è lo scopo di tutta la creazione ed anche lo scopo che H. si prefigge quando ci comanda un certo stile di vita (Devarim 10, 12-13): “Orbene Israele, che cosa chiede a te il Signore tuo D. se non di temerLo, di seguire le Sue vie, di amarLo e di servirLo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, di osservare i Suoi precetti e i Suoi statuti che Io ti comando oggi per il tuo bene?”. E’ evidente che attraverso le proprie azioni H. persegua il bene, ma nonostante ciò, al termine di ogni giorno della creazione, la Torah sottolinea che “D. vide che era cosa buona”.
Il Ba’al ha-Turim nota, come ulteriore dimostrazione della centralità del tema del bene nelle seconde tavole, che fra una versione e l’altra dei comandamenti c’è una differenza di 17 parole (172 contro 189), il valore numerico di Tov. Questa prospettiva spiega anche l’altra differenza fondamentale fra le due versioni, il comandamento relativo allo Shabbat, nella prima riferito alla creazione del mondo, nella seconda all’uscita dall’Egitto. E’ possibile, individuando le differenze, sostenere che le due versioni siano ispirate da due principi differenti, le prime da quello della giustizia, le seconde dal bene. Il modo di operare divino nasce dalla fusione dei due principi, ma quello che predomina è il secondo. Questo si riflette anche nella nostra esistenza. E’ risaputo che il libro di Qohelet ruota intorno alla domanda intorno al senso della vita, e non fornisce una risposta univoca e soddisfacente. Il Midrash (Qohelet Rabbà 5,14) narra la storia di una volpe che desiderava entrare in una vigna, ma c’era un recinto con una fessura nella quale non riusciva ad introdursi. Per questo digiunò tre giorni, riuscendo a intrufolarsi. Iniziò a banchettare per svariati giorni, sino a che non sentì il rumore dei passi del padrone della vigna, e assalita dal terrore, non riuscì ad uscire, poiché era ingrassata eccessivamente. Per questo fu costretta a digiunare altri tre giorni per uscire. Si era affaticata tanto per nulla.
Questo mondo è simile: l’uomo nasce e muore nudo. Tutto quello che ha raccolto in questo mondo non lo accompagnerà. Ma un uomo può morire nudo anche perché nella propria vita ha dato tutto al prossimo. Ogni neonato ha un grande potenziale, che potrà sfruttare in una misura minore o maggiore, e sfruttarlo a pieno sarà il suo compito in questo mondo. Tornando all’onore dei genitori, quando questi vedranno, ormai anziani, che il figlio continua ad onorarli, capiranno che tutti gli sforzi compiuti per allevarlo avevano un senso; comprenderanno che il loro impatto educativo è stato efficace, e che in fondo hanno lasciato qualcosa in questo mondo. Così la loro vita, vista alla fine del percorso, diviene una buona vita.