“Amerai l’Eterno tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi” (Deuteronomio 6:5).
Questa settimana nella Torà leggiamo il primo dei tre brani che compongono il testo dello Shemà/Ascolta, preghiera che recitiamo ogni giorno, sera e mattina. Rashy (Rabbi Shelomo Yitzhaqi 1040-1105) spiega il significato preciso del precetto di amare il Signore con tutto il nostro “cuore, anima e mezzi” e afferma che amarLo “con tutto il cuore” vuol dire impegnare entrambe le inclinazioni del nostro cuore, quella verso il bene (Yetzer Tov) e quella verso il male (Yetzer Hara‘). Dobbiamo servire il Signore sia con l’inclinazione al bene, agendo in base al nostro desiderio di bontà ed eseguendo le mitzwoth della Torà, sia con l’inclinazione al male sottomettendo le nostre tendenze negative e convertendo le nostre tendenze verso il peccato in fedele osservanza della parola di Dio.
Amare il Signore “con tutta l’anima”, spiega Rashy, significa che se necessario, dobbiamo essere pronti a rinunciare alle nostre vite per amore del Signore. In determinate circostanze, siamo tenuti a sacrificare le nostre vite piuttosto che abbandonare la nostra fede, come, purtroppo, molti ebrei sono stati costretti a fare nel corso dei secoli. È noto il racconto del martirio di rabbì Aqivà che in punto di morte confessa di aver compreso solo allora il significato di queste parole: amare il Signore anche nel momento in cui ti sta togliendo l’anima.
Infine, amare il Signore “con tutti i nostri mezzi” significa che dobbiamo essere disposti a separarci dai nostri beni materiali, dobbiamo evitare di trasgredire la Torà anche se pensiamo l’osservanza di un precetto possa provocare scompensi economici.
Rabbenu Yaakov Ben Asher (1269-1340), sottolinea inoltre che queste tre modalità di amore verso il Signore, corrispondono ai tre patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe.
L’azione di amare il Signore con tutto il cuore, è associata ad Abramo, del quale è detto (Nechemyà 9:8): “Il Signore trovò il suo cuore fedele”. Abramo rappresenta il modello della fede incondizionata e incrollabile, il cui cuore era completamente puro e totalmente devoto al Creatore. Il suo esempio indica a noi la via da seguire nell’adempiere al precetto di servire il Signore “bekhol levavekhà/con tutto il cuore “.
Isacco era pronto a dare la sua vita quando Dio comandò ad Abramo di sacrificarlo su un altare. Isacco è dunque l’esempio dell’amore verso il Signore “uvkhol nefshekhà/con tutta l’anima”, della volontà di sacrificare sé stessi per il Signore. Non si tratta solo del martirio, che è concesso solo per non trasgredire all’idolatria, l’incesto e l’omicidio ma anche, in senso lato, essere pronti a non cedere alle vanità che la vita ci pone davanti.
Infine Giacobbe promise a Dio, mentre fuggiva da suo fratello, che se fosse tornato sano e salvo a casa avrebbe donato un decimo di tutti i suoi averi (Genesi 28:22). Infatti Giacobbe finì per dare a suo fratello Esaù tutto ciò che aveva guadagnato durante gli anni vissuti presso Labano, in cambio della Grotta di Makhpelà, il luogo di sepoltura dei patriarchi. Giacobbe dimostra che abbiamo la forza di separarci dai beni materiali per un bene spirituale molto superiore e per questo esempio è associato al precetto dell’amore verso il Signore “uvkhol meodèkha/con tutti i nostri mezzi”.
Rabbenu Yaakov aggiunge anche che la parola “weahavtà/amerai”, con cui inizia questo versetto, ha le stesse lettere della parola “Haavot/i patriarchi”.
Che significato ha questa connessione con i tre patriarchi?
Molto spesso la vita religiosa può apparire molto difficile e persino intimidatoria. Le numerose restrizioni, i molteplici obblighi possono scoraggiare e molte persone semplicemente sentono di non avere la forza interiore, la determinazione, la disciplina o le capacità per osservare la Torà. La necessità di sottomettere il nostro istinto al male e compiere i considerevoli sacrifici che comporta la via della Torà, può sembrare un fine irraggiungibile. Ecco perché la Torà allude, in questo versetto, all’esempio che ci hanno dato i nostri padri, per ricordarci le nostre origini e le nostre radici.
Abbiamo eccezionali “geni spirituali”, come discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe abbiamo ereditato la loro fede, il loro spirito di sacrificio e la loro forza. I patriarchi hanno stabilito per noi il precedente che dimostra la possibilità di superare sfide difficili al servizio del Signore. Non dobbiamo sentirci scoraggiati o intimiditi dai doveri che la Torà ci impone, ma dobbiamo invece sentirci fiduciosi nei “geni” che abbiamo ricevuto, nel potere che abbiamo in quanto eredi dei nostri giusti antenati, una forza che – quantomeno – ci consente di essere consapevoli del nostro potenziale, Shabbat Shalom!