ולא שמעו אל משה מקצר רוח ומעבודה קשה… הן בני ישראל לא שמעו אלי ואיך ישמעני פרעה ואני ערל שפתים (שמות ו’, ט’ – י”ב) “…Ma essi non ascoltarono Moshe per il respiro corto e per il duro servaggio… Se i figli d’Israel non mi hanno ascoltato come mi ascolterà mai il Faraone, io che per di più sono balbuziente?” (Shemot 6, 9-12)
Fu domandato a un gerarca nazista: se lo scopo della “soluzione finale” era sterminare gli Ebrei perché avete allestito per essi campi di concentramento e di lavoro, anziché mandarli tutti direttamente a morire nelle camere a gas? “Un essere umano –sarebbe stata la risposta- può accettare l’idea di uccidere in massa animali, ma non altri uomini. Sarebbe stato difficile anche per noi – avrebbe detto il gerarca- sterminare degli uomini senza averli preventivamente ridotti al livello di animali”. Mi permetto di aggiungere che forse il discorso, nel suo crudo cinismo, poteva essere applicato anche alle vittime e non soltanto ai carnefici. Gli Ebrei, nel folle immaginario dei loro aguzzini, avrebbero in definitiva accettato più facilmente l’idea di morire una volta privati della dignità umana. In cosa consiste la dignità umana? Nella facoltà di sperare e di aver fiducia.
Auschwitz ha un illustre precedente: la schiavitù d’Egitto. All’inizio della nostra Parashah troviamo il popolo ebraico in uno stato di dura prostrazione. Moshe, il loro leader designato, era a fatica riuscito a guadagnare la fiducia del popolo: wayaamèn ha-‘am (“il popolo credette” – 4,31), abbiamo letto la scorsa settimana. Ma la prima missione dal Faraone era nel frattempo fallita. Non solo il re d’Egitto aveva rifiutato di liberare il popolo, ma aveva anche notevolmente appesantito le condizioni di lavoro degli schiavi. Questo fatto aveva precipitato il popolo in una condizione di sfiducia che si ripercosse su Moshe stesso: “ora i Figli d’Israel non saranno più disposti ad ascoltarmi. E se è così, come posso pensare di farmi ascoltare dal Faraone?”
Per definire la condizione degli Ebrei il versetto usa due espressioni distinte: qòtzer ruach e ‘avodah qashah. Mentre quest’ultima espressione (“duro servaggio”) ci appare più chiara, la prima richiede qualche ulteriore delucidazione. Essa è spiegata da Rashì letteralmente: è lo stato di chi ha il respiro corto. Ma per comprendere le ragioni di questo dobbiamo rivolgerci ad altri commentatori. Nachmanide ritiene che il “respiro corto” fosse dovuto semplicemente alla paura di essere uccisi dal Faraone. R. Bachyè scrive invece: “come una persona che desidera morire della sofferenza in cui si trova e disprezza la propria vita”. Sforno, infine, allude allo stadio di schiavitù del pensiero di colui che, costretto al duro lavoro, non ha neppure il tempo di respirare, cioè di pensare e rigetta qualsiasi spunto di riflessione gli venga offerto come se gli venisse imposto un ulteriore sforzo inutile. Degradati al livello di animali, gli Ebrei schiavi pensavano ormai soltanto al proprio respiro, cioè ai propri bisogni quotidiani, essendo stata negata loro qualsiasi prospettiva futura. Come si dice in italiano, non erano più in grado di guardare oltre il proprio naso, cioè aldilà delle proprie necessità vitali immediate. Ed erano talmente assuefatti alla propria dura condizione da rifiutare qualsiasi messaggio di riscossa avessero ricevuto. Paradossalmente ciò avrebbe facilitato grandemente il comportamento dei loro persecutori.
La linea interpretativa della maggioranza dei commentatori classici, peraltro, non tiene conto di una difficoltà testuale evidente. La lettura che abbiamo dato fin qui parte in un certo senso dall’assunto che il “respiro corto” fosse da attribuirsi al “duro servaggio”, come se il versetto scrivesse mi-qòtzer ruach me-‘avodah qashah (“per via del respiro corto, dovuto a sua volta al duro servaggio”). Ma il versetto non scrive così. Esso aggiunge una waw fra le due espressioni: mi-qòtzer ruach u-me-‘avodah qashah, che pertanto sono giustapposte e non da vedersi come conseguenza l’una dell’altra. Questo ci induce a rimettere in discussione il significato di entrambe le espressioni in questione. Ognuna contiene un messaggio proprio, che va compreso.
A partire da questo presupposto è soprattutto la letteratura chassidica, che ha il merito di elevarci dal mondo fisico a quello spirituale. Ruach significa “spirito”, oltre che “respiro”. ‘Avodah, a sua volta, può alludere al servaggio degli uomini, ma anche al servizio Divino. I commentatori chassidici spiegano qòtzer ruach in contrapposizione a erekh ruach. Vi sono persone “corte di spirito” accanto ad altre “lunghe di spirito”. Mentre queste ultime sono dotate di grande fede, le prime ne difettano. “E’ meglio il erekh ruach”, sentenzia il Qohelet (7,8), perché egli è munito della pazienza e della speranza necessarie ad affrontare le più dure situazioni. Egli è consapevole del proprio dovere di servire H., ma anche del fatto che la vita intera di una persona potrebbe non essere sufficiente a fare tutto ciò che gli è richiesto. La vie di H. non coincidono con quelle degli uomini (cfr. Yesha’yahu 55,8)!
Chi non si trova in questa condizione in un certo senso privilegiata può far parte di altre due categorie. La prima è il qòtzer ruach di cui già si è detto: è la persona dalla fede limitata, convinta che tutto sia dovuto al caso e che non ci sia nulla da fare. La seconda è la ‘avodah qashah. Appartengono a quest’ultima categoria coloro che affrontano il servizio di H. in modo schizofrenico, come un “duro servaggio” a sua volta. Essi attribuiscono al proprio attivismo religioso la chiave della redenzione e si danno da fare in modo spasmodico affliggendo se stessi con digiuni e pratiche non richieste, salvo poi domandarsi: perché, nonostante tutti i nostri sforzi, la redenzione non arriva?
Ecco che alcuni, gli uomini di poca fede, non sono disposti ad ascoltare Moshe perché rigettano i presupposti stessi del suo messaggio. Quanto ai secondi, ciò che impedisce loro analoga ricezione non è la mancanza di fede, bensì la tristezza per la mancata realizzazione di un messaggio ritenuto infallibile. Questo spiega in definitiva anche la sfiducia di Moshe, che nella sua grande umiltà attribuisce a se stesso la causa del fallimento. “Se l’impedimento ad accogliere le mie parole deriva da mancanza di fede –avrebbe pensato- non c’è niente da fare. Avesse parlato al mio posto anche il più grande tzaddiq della terra non sarebbe servito a niente. Ma se invece l’impedimento è dovuto alla tristezza e alla frustrazione, forse la colpa è mia che non sono riuscito a convincerli di pazientare. E se non sono abbastanza tzaddiq da vincere la tristezza del mio popolo, come posso pensare di avere alcun potere di convincere il Faraone, che non è altro che un malvagio di prima categoria?”
Impariamo da qui anzitutto che la tristezza interiore è la prima nemica in condizioni difficili. Il Pele Yo’etz (s.v. ‘atzvut), autore sefardita del secondo Settecento, scrive non solo che la tristezza è un serio ostacolo alle relazioni sociali, ma porta all’ira che le compromette definitivamente. Egli scrive che la malinconia assale soprattutto i ricchi, di Motzaè Shabbat e al mattino appena alzati, prima di aver bevuto il caffè. Non è facile, in queste condizioni, imporsi di sorridere a ogni costo. La soluzione migliore secondo il Pele Yo’etz è prendere in mano un libro di Torah, particolarmente di Midrash, e immergersi nello studio, perché Piqqudè H. messammeché lev, “le parole di H. rallegrano il cuore” (Tehillim 19,9).
Ma c’è in realtà molto di più su cui vale la pena di insistere. Tornando al tema iniziale della Shoah, vorrei concludere richiamando le parole di R. Eli’ezer Berkowitz all’inizio del suo saggio “Faith after the Holocaust” (Ktav. New York, 1973, p. 5): “Il pio credente che non era lì eppure si permette di dare una giustificazione religiosa non alla distruzione sua, bensì a quella di sei milioni di suoi fratelli, con la sua fede insulta quella dei qedoshim internati nei campi di sterminio, che rimasero attaccati alla fede nel D. d’Israele persino di fronte alla morte… Ma anche coloro che pur non essendoci stati dichiarano dai loro piani alti di non credere più nel D. d’Israele insultano quegli internati nei campi che hanno perduto la propria fede… Dinanzi alla fede espressa nei forni crematori, la credenza priva di dubbi di coloro che non c’erano è volgarità. Ma l’agnosticismo dell’intellettuale sofisticato che vive in tutta tranquillità nella società del benessere, se paragonata alla perdita della fede di coloro che per i forni crematori ci sono passati, è abominio”.