“E il Faraone non vi darà ascolto; e Io metterò la mia mano sull’Egitto e farò uscire dal paese d’Egitto le mie schiere, il mio popolo i figli d’Israele, mediante grandi giudizi. E gli Egiziani conosceranno che io sono l’Eterno, quando avrò steso la mia mano sull’Egitto e avrò tratto di mezzo a loro i figli d’Israele” (Esodo 7:4-5). Con queste parole, il Signore intende rivelare a Mosè quale sia lo scopo delle piaghe che sta per mandare contro l’Egitto: 1 che la liberazione viene per opera esclusiva di Dio; 2 come Lui non c’è nulla sulla terra.
Le piaghe non servirono solo a piegare la superbia del Faraone e costringerlo a far uscire i figli d’Israele dall’Egitto. Dio avrebbe potuto farlo anche senza inviare le piaghe. L’insegnamento che si cela dietro a questo evento, rivolto a tutti indistintamente, è che Dio domina il mondo e lo guida con la Sua provvidenza. Per questo ricordiamo l’uscita dall’Egitto ogni singolo giorno della nostra vita, due volte al giorno; per questo la notte di Pesach diventa un precetto narrare questa storia.
L’adempimento delle Mitzwoth porta con sé una certa Segullà, rilascia in noi una specie di super potere. Per esempio lo Tzitzit che indossiamo, da la forza di non corrompere il nostro cuore da ciò, che a noi è estraneo, che vediamo con i nostri occhi intorno a noi. E quale potere ci viene concesso con il ricordo dell’uscita dall’Egitto? La forza dell’Emunah, l’incrollabile fiducia nel Signore che è li per aiutarci a superare tutte le difficoltà della vita.
Per trasmettere questa storia ai nostri figli e condividerlo con le generazioni future, dobbiamo ricordare ogni giorno con la lettura dello Shemà, raccontare con la Haggadah durante il Seder a Pesach, ma anche studiare in modo approfondito i quattro brani della Torà, nei sabati in cui cadono, che ci parlano di questo evento fondativo della nostra storia, Insomma, più ne parliamo e più ci pensiamo e più rafforziamo il nostro legame con il Creatore.
Un’intuizione di Rabbì Ytzchaq Luria indica che se leggiamo al contrario della parola פרעה/Paroh/Faraone troviamo la parola הערף/Haoref/la cervice, e quando nella Torah i figli d’Israele sono stati definiti “un popolo dalla dura cervice” voleva dire che ancora erano soggiogati dal Faraone avendo da lui imparato ad essere ostinati. La cervice, o nuca, è il punto di unione tra la testa e la parte superiore della colonna vertebrale. Una ferita in quel punto, può causare danni gravissimi, tali da impedire la comunicazione tra cervello e il resto del corpo.
La cervice/Haoref/הערף, nel senso della lettura inversa della parola פרעה/Paroh/Faraone, simboleggia l’impedimento alla conoscenza di filtrare nel resto del corpo per diventare azione concreta. Per questo ogni giorno, quando indossiamo i Tefillin del capo, il nodo poggia sulla nostra cervice, per essere quella forza che opera contro la faraonica ostinazione e permettere alla conoscenza di diventare azione. Perché le parole convenzionali, il ricordo formale, non servono a nulla, non entrano nel cuore e non liberano dalla morsa del Faraone che afferra la nostra cervice.
Oy vavoy…quante parole convenzionali sentiremo e a quanti gesti formali assisteremo in questi giorni dedicati alla memoria. Ma se ci ricordiamo chi siamo e da dove veniamo, ci accorgeremo di avere tutti gli strumenti necessari per proteggerci dalla vanità che ci circonda…Shabbat Shalom!