Alla fine della scorsa parashà, la Torà ci ha narrato un episodio piuttosto inquietante. Poco dopo aver ricevuto da D-o la promessa di liberare i figli di Israele dall’oppressione egiziana ed essersi recato dal faraone per chiedere l’esecuzione dell’ordine divino, Moshè si trova ad affrontare due personaggi (che i maestri identificano con Datàn e Aviràm) che lo mettono di fronte a una dura realtà: invece che venire liberati, l’oppressione aumenta, così come la mole di lavoro quotidiana assegnata agli ebrei. Questa vicenda lascia Moshè molto perplesso e non sapendo cosa rispondere, si rivolge direttamente a D-o, porgendo la famosa domanda: “Perché fai del male a questo popolo”? La risposta di D-o che troviamo all’inizio della parashà, è ancora più complessa della domanda stessa in quanto D-o risponde a Moshè citando i patriarchi e spiegando come loro non si siano mai lamentati… (Rashì). In realtà alcuni commentatori sostengono che Moshè chiese con forza una risposta logica alla sua domanda, mentre D-o risponde dicendo che non tutto si può spiegare con la razionalità, per cui cita i patriarchi che eccelsero, ognuno secondo la sua natura, nelle qualità emozionali (middòt) e non in quelle razionali (sèkhel). In altre parole, l’insegnamento è che a volte bisogna scindere tra razionalità e fede e che di fronte a un dilemma anche grave, l’emunà (la fiducia in D-o) dovrebbe sempre prevalere.