Jonathan Pacifici – www.torah.it
“E fu, al termine di due anni esatti, ed il Faraone sogna, ed ecco che stava presso il Nilo.” (Genesi XLI, 1)
Tra la Parashà di Vajeshev e la Parashà di Miketz c’è un buco di due anni esatti. Negli ultimi versi letti la scorsa settimana Josef interpreta i sogni dei Ministri del Faraone e chiede al Capo- Coppiere di ricordarlo, di aiutarlo ad uscire di prigione. Il Ministro invece lo dimentica, passano due anni, e Josef esce di prigione per interpretare questa volta i sogni del Faraone.
Il Midrash in Bereshit Rabbà (89,3) insegna che Josef resta altri due anni in prigione per aver usato due volte il termine ‘ricordami.’ Josef è in qualche modo punito per essersi affidato al Ministro mentre avrebbe dovuto fidare nel Signore.
Lo Shem MiShmuel ragiona sul Midrash: questo insegnamento è stranissimo! La Torà pone un fortissimo accento sull’opera umana. Noi dobbiamo sempre cercare di trovare da soli la soluzione ai problemi. Certo, dobbiamo pregare che il Signore ci dia successo, ma in nessun caso dobbiamo starcene inerti aspettando il miracolo. Josef pertanto era non solo autorizzato a sfruttare la gratitudine del Ministro, ma anzi forse ciò era addirittura mizvà. Non è chiaro inoltre cosa cambia se Josef utilizzò uno o due verbi. Se la trasgressione è nella mancanza di fiducia, non c’è grande differenza se ha usato due volte la parola ricordami, tanto da essere punito con due anni aggiuntivi di carcere. Ma seppure poi volessimo seguire la linea del Midrash dicendo che sì, quest’atteggiamento denota una scarsa fiducia nel Signore, non è chiaro come Josef il Giusto, il prototipo del comportamento corretto, possa cadere in maniera così fragorosa.
Il Rabbi di Sochatchov lo spiega attraverso un noto concetto che associa il personaggio di Josef allo Shabbat. Josef è in particolare associato all’offerta del Musaf di Shabbat, all’essenza stessa dello Shabbat. Lo Shabbat è il momento in cui si completano cielo e terra ed anche all’interno del corpo umano l’intelletto paragonato al cielo ed il cuore paragonato alla terra trovano la loro completezza nello Shabbat. E così abbiamo il ricordo dello Shabbat parallelo all’intelletto, e l’osservanza dello Shabbat parallela al cuore, nella stessa espressione, bedibbur echad. Così anche Josef contiene in sé la completezza dello Shabbat nella sua dualità.
Ora è risaputo che lo Shabbat si distingue per l’assenza dell’azione e ciò nonostante è la sorgente della benedizione. In genere infatti noi diciamo sulla base di un verso di Devarim (cap. 15) che “il Signore Tuo D. ti benedirà in tutto quanto farai.” Ma devi fare qualcosa, per essere benedetto. La benedizione Divina necessita un kli machzik, un recipiente, un contenitore, nell’opera dell’uomo. Di Shabbat le cose sono diverse. Lo Shem MiShmuel dimostra attraverso le Tosafot su Bavà Kammà 32a che il godimento è chiamato maasè, opera, anche in assenza di azione. Ed infatti la Torà dice laasot et haShabbat. Fare lo Shabbat. Di Shabbat cioè, il nostro oneg, il godimento, la delizia dell’assenza di azione, diventa azione stessa e può ricevere la benedizione Divina.
Così possiamo capire il problema con Josef. È vero, chiunque altro avrebbe fatto benissimo a cercare la protezione del Ministro, ma non Josef. Josef è lo Shabbat e di Shabbat non si fa azione alcuna, e dalla assenza di azione si ricava benedizione. Josef che è lo Shabbat avrebbe dovuto portare avanti il criterio “Shabbat” e nell’assenza di azione ricevere la libertà per intervento Divino. Josef in qualche modo trasgredisce lo Shabbat.
Resta però da capire come mai Josef la pensasse diversamente. Per spiegarlo lo Shem MiShmuel riflette su un alto problema. Josef orchestra gli eventi della nostra Parashà al fine di farsi portare il fratello Benjamin prima che il padre scendesse anch’egli in Egitto. I Saggi si interrogano sulle motivazioni di Josef che in questo modo infierisce sul cuore addolorato di Jacov. Seppure egli aveva astio per Shimon e per questo non ebbe problemi ad arrestarlo (e passi…) come mai non prese in considerazione il dolore di Jacov per Shimon e Benjamin?
Il Ramban propone che Josef voleva che si realizzasse il primo dei suoi due sogni per il quale tutti e undici i fratelli gli si dovevano inchinare, senza la presenza di Jacov che non compare fino al secondo sogno. Non è chiaro però dice il Rabbi di Sochatchov che mizvà ci sia nella cosa. Seppure il sogno doveva realizzarsi, che ci pensasse il Signore ad organizzare la storia in questo senso! E poi, anche se Josef sentiva il bisogno di adoperarsi per la realizzazione del sogno, certamente ciò non può essere più importante del precetto positivo categorico della Torà circa l’onore per il padre che Josef sta calpestando portandogli via Beniamino.
Lo Shem MiShmuel propone pertanto un’altra lettura.
È scritto più avanti nella Parashà che durante il pasto di tutti i fratelli con Josef “bevvero e si ubriacarono con lui.” (XLIII,34). Rashì in loco commenta che la Torà lo sottolinea perché dal giorno in cui avvenne la vendita, questi si erano preclusi il vino e lo stesso aveva fatto Josef, mentre qui bevvero tutti. Anche se, c’è da dire, Josef ancora non si era rivelato. L’Avnè Nezer basandosi sullo Zohar dice che l’istinto del male chiede il vino. Che il desiderio del vino viene dallo Yezzer HaRà. Di Shabbat però, quando tutto il creato si innalza verso il Signore non c’è gioia altro che nel vino e pertanto esso è santificato attraverso il vino del Kiddush e della Havdalà. C’è un vino problematico, quello della settimana, ed uno sacro, quello dello Shabbat.
Dal giorno della vendita era venuta meno la presenza di Josef che è lo Shabbat ed i fratelli avevano temuto che in assenza del concetto di Shabbat il vino portasse a cattive inclinazioni. Solo ora, quantunque inconsciamente, percepirono alla presenza di Josef la misura dello Shabbat e bevvero. Josef stesso, spiega il Rabbi di Sochatchov, si era precluso il vino non tanto per affliggersi, quanto perché la sua stessa misura dello Shabbat era venuta meno. Infatti la premessa per lo Shabbat in questo mondo sono i sei giorni del maasè, dell’opera. Josef può essere lo Shabbat solo quando si ricongiunge con i fratelli che sono i sei giorni feriali. Se non ci sono i fratelli non c’è lo Shabbat di Josef. È solo in quel pasto, quando per la prima volta si ritrovano tutti dopo tanti anni, che torna la misura dello Shabbat. Non ci deve allora stupire che il Midrash asserisca che quel pasto era proprio il pasto dello Shabbat. Nel testo Josef infatti dice al preposto alla sua casa, veachen e prepara, lo stesso termine che compare per la preparazione della manna in funzione dello Shabbat.
Durante questo incredibile pasto dello Shabbat, nella casa del vicerè d’Egitto si ricompone la frattura tra i fratelli. Si ricongiungono l’intelletto di Josef con il cuore dei fratelli, zacor e shamor, nell’unicità dello Shabbat che è chiamato, il segreto dell’uno.
Lo Shem MiShmuel ricorda che propio qui c’è un accenno a Chanukà. Infatti la parola veachen contiene tutte le lettere della parola Chanukà, tranne la lettera chet, che è l’ultima della precedente parola tevach. I greci infatti fecero due operazioni distinte nella loro guerra contro Israele e lo Shabbat: penetrarono nel Santuario colpendo il cuore d’Israele. E poi resero impuro l’olio che è l’intelletto rappresentato dalla Menorà. Così anche i Maccabei istituirono due precetti distinti: l’Allel ed il Ringraziamento da una parte, ad aggiustare il cuore, e l’accensione della Chanukà ad aggiustare l’intelletto.
A questo punto possiamo capire come mai Josef voleva a tutti i costi Benjamin. Perché è scritto in TB Shabbat 118b che se Israele avesse osservato il suo primo Shabbat nessuna nazione avrebbe potuto soggiogarlo. Ma se fosse sceso Jacov sarebbe iniziata la schaivitù! C’è bisogno allora di uno Shabbat prima che arrivi Jacov. Ma per esserci lo Shabbat ci vogliono tutti e dodici i fratelli, quindi anche Benjamin a tutti i costi. Attraverso questo Shabbat con il suo vino pacificatore Josef protegge i dodici capostipiti delle tribù dalla schiavitù. Infatti questa non iniziò fintanto che erano in vita i fratelli di Josef, come è scritto all’inizio dell’Esodo “e morì Josef e tutti i suoi fratelli…”. La straordinaria operazione di Josef è quella di piantare lo Shabbat in Egitto prima che inizi la schiavitù, in modo che lo Shabbat protegga Israele e diventi lo scudo contro il sopruso Egiziano. La carta d’identità d’Israele nell’esilio. Ecco allora che Benjamin era necessario anche a costo di affliggere Jacov, perché il beneficio per Jacov stesso e per Israele tutto era troppo grande.
Con ciò in mente possiamo provare a capire come mai Josef sbagliò il calcolo affidandosi al Ministro. Josef pensa che fintanto che non ci sono i fratelli non c’è Shabbat, non c’è vino, e lui stesso cessa di essere lo Shabbat e può agire. Può chiedere al Ministro. Ma non è veramente così. Perché la causa della frattura con i fratelli in fondo in fondo è proprio Josef. È Josef che li denuncia al padre per quello che credeva essere un comportamento scorretto, provocando la loro ira. Se Josef li avesse ripresi non c’è dubbio, dice lo Shem MiShmuel che avrebbero fatto teshuvà o gli avrebbero spiegato come mai la cosa era permessa. Se manca lo Shabbat per via della frattura la colpa è in qualche modo anche e soprattutto di Josef e per questo Josef “paga” lo scotto della trasgressione dello Shabbat con il Ministro Coppiere.
I due anni aggiuntivi non vengono allora dal doppio termine ricordami, dal punto di vista della grammatica, quando concettuale. Il primo ricordami, quello riflessivo del Ministro, è l’intelletto. Il secondo ricordami al Faraone, è nel rapporto con il prossimo, è il cuore. Nelle due espressioni ci sono i due pilastri dello Shabbat che Josef deve ancora in qualche forma mettere a posto. Sono il ricordo e l’osservanza dello Shabbat che invece il Ministro dimentica e che Josef ritroverà solo quando dei fratelli inconsapevoli ritrovano la gioia dello Shabbat nel vino di mizvà.
È una lettura affascinante che dovrebbe portarci a riflettere sulla dirompente forza identitaria che ha lo Shabbat e di come esso ci abbia difeso e protetto in tutti i nostri duri esisli. Se lo Shabbat è così importante da essere l’antidoto per la schiavitù egiziana, prototipo di tutte le schiavitù, capiamo allora come mai l’osservanza dello Shabbat diventi la profonda discriminante identitaria che ci rende ebrei osservanti delle mizvot.
Quanto a noi, ancora presi negli ultimi momenti un esilio che sparirà presto, potremmo già essere redenti se riuscissimo, tutti, ad osservare assieme il prossimo Shabbat che viene a noi in pace e prosperità.
Shabbat Shalom e Chag HaUrim Sameach! Jonathan Pacifici