Tratto da “Una storia di amore e di tenebra – Amos Oz”, Feltrinelli 2003
La sera dello Shabbat vennero nonno e nonna, venne anche Liienka, amica di mamma, con il suo paffuto marito, il signor Bar Samka che aveva il viso coperto da una barba grigia, spessa e riccioluta come quelle spazzolette di ferro che servono per pulire le pentole. Aveva anche delle orecchie strane, diverse fra loro per misura: sembrava un cane da pastore quando ne drizza una e tiene bassa la compagna (perciò storpiavo apposta il suo nome, lo chiamavo Bar Mar Samka invece di Mar, “signor”, Bar Samka, sulle orme di papà che una volta o due scherzando l’aveva chiamato, ma non in sua presenza, Mar Bar-Bar-Hana).
Dopo un brodo di pollo con delle palme di farina di azzime, mamma portò inopinatamente in tavola il cadavere del mio Nuni, tutto intero dalla testa alla coda eppure tranciato per la larghezza con degli impietosi solchi di coltello, sette fette filate, decorate come la salma di un re sopra il carro funebre, diretto al Pantheon. La regale carcassa galleggiava dentro un ricco sugo color crema, sopra un giaciglio di candido riso, attorniata da prugne cotte e rondelle di carota, cosparsa di bricioline verdi ornamentali. Ma lo sguardo di quell’occhio sbarrato, implacabile, fissava tutti i suoi assassini con un biasimo affranto e gelido, in un ultimo grido d’agonia.
Quando i miei occhi incontrarono quello sguardo terrificante, nazista traditore assassino mi gridava quell’occhio perforante, iniziai a piangere sommessamente, la testa china sul petto, facendo di tutto per non essere notato. Ma Lilienka, amica e confidente di mia madre, un’anima di maestra d’asilo in un corpo di bambola di porcellana, si spaventò e prese a occuparsi di me: dapprima mi toccò la fronte e decretò, no, non ha febbre. Poi mi accarezzò avanti e indietro il braccio, dicendo: però sì effettivamente ha i brividi. In seguito si chinò verso di me al punto che il suo fiato mi soffocava il respiro, e disse: dev’essere qualcosa di psicologico, non fisico. E con ciò si rivolse ai miei genitori e osservò con compiacimento che lei effettivamente l’aveva detto già tempo fa che questo bambino, proprio come tutti gli artisti in nuce, vulnerabili, confusi, emotivi, questo bambino evidentemente si stava avviando verso l’età della crescita molto prima degli altri, e la cosa migliore era comunque lasciarlo in pace.
Papà ci pensò un po’ su, valutò, e sentenziò:
“Sì. Ma prima di tutto mangia il pesce per piacere. Come tutti”.
“No”
“No? Perché no? Che cosa è successo? Vostra altezza ha per caso intenzione di licenziare la sua squadra di cuochi?”
“Non posso.”
A questo punto Barmarsamka, traboccante di bontà e voglia di conciliazione, non si trattenne più e iniziò a pregarmi con una voce esilissima, dolce dolce:
“E se ne mangiassi almeno un pochettino? Solo un boccone, simbolico, eh? Per tua mamma e tuo papà, per onorare lo Shabbat?”.
Ma Liienka, sua moglie, figura spirituale e piena di sentimento, accorse in mia difesa:
“Che senso ha costringerlo! Insomma, ha un blocco psicologico! “.
***
A mezzanotte fra venerdì 14 maggio 1948 e sabato 15 maggio, conclusione di trent’anni di mandato britannico, nacque lo stato ebraico, la cui dichiarazione d’Indipendenza era stata letta da David Ben Gurion a Tel Aviv qualche ora prima. Dopo un intervallo di circa millenovecento anni, disse lo zio Yosef, abbiamo nuovamente un governo ebraico autonomo.
Ma a mezzanotte e un minuto, senza alcuna dichiarazione di guerra, il paese fu invaso da colonne di fanteria, artiglieria e mezzi corazzati di svariati eserciti arabi: l’Egitto da sud, la Transgiordania e l’Iraq da est, il Libano e la Siria da nord. Il sabato mattina degli aeroplani egiziani bombardarono Tel Aviv. La legione araba, l’esercito mezzo inglese del regno di Transgiordania, oltre a forze regolari irachene e a bande di volontari musulmani armati giunti da molti altri paesi, erano di fatto stati invitati dal governo inglese a occupare punti chiave nelle regioni del paese già molte settimane prima del termine ufficiale del mandato britannico.
Il cerchio si stringeva intorno a noi: la legione transgiordana conquistò la Città Vecchia, bloccò con ingenti forze la strada per Tel Aviv e per la piana costiera, prese il controllo dei quartieri arabi, dispose postazioni d’artiglieria sulle alture intorno a Gerusalemme, e avviò un bombardamento massiccio il cui scopo era quello di infliggere gravissime perdite alla popolazione civile già sfiancata e affamata, sì da abbattere il morale al punto da portare alla resa: sotto gli auspici di Londra il re Abdullah già si considerava unico sovrano di Gerusalemme. Sui terrapieni dei cannoni della legione, a dettare ordini erano degli ufficiali d’artiglieria inglesi.
Contemporaneamente, unità dell’esercito egiziano avanzavano fino ai sobborghi meridionali di Gerusalemme, avventandosi sul kibbutz di Ramai Rachel, che passò due volte di mano in mano. Velivoli egiziani tempestarono la città con bombe incendiarie e distrussero, fra il resto, l’ospizio per anziani di Romema, non lontano da casa nostra. I cannoni egiziani vennero a dar manforte a quelli transgiordani, gettando nel panico la popolazione civile: dalla collina prossima al monastero di Mar Elias gli egiziani infierirono sulla città con obici di 4.2 pollici. I proiettili piombavano sui quartieri ebraici al ritmo di uno ogni due minuti, mentre il fuoco incessante delle mitragliatrici imperversava per le strade della città. Greta Ghet, la bambinaia pianista che emanava sempre odore di lana bagnata e sapone da bucato, la zia Greta che mi trascinava con sé nei negozi di abbigliamento femminile e sulla quale mio padre amava poetare insulsamente (“chiacchierate un po’ con Greta/ché nessun lo vieta!…”), una mattina uscì sulla vetanda a stendere il bucato. Una pallottola giordana penetrò, così si disse, dentro l’orecchio e uscì dall’occhio. Zipporah Yanai, Pin, l’amica timida di mia madre che abitava in via Sofonia, scese un momento in cortile a prendere uno straccio e un secchio per lavare il pavimento e fu uccisa da un cecchino, con un colpo preciso e intenzionale.
***
In settembre, nel corso di un cessate il fuoco che interruppe i combattimenti a Gerusalemme, un sabato mattina arrivarono da noi nonno e nonna, gli Abramsky e forse altri conoscenti, presero un tè in cortile, parlarono delle vittorie del nostro esercito nel Neghev e del tremendo pericolo che rappresentava il piano di pace proposto dal mediatore nominato dall’Onu, il conte svedese Bernadotte, un vero e proprio complotto dietro il quale si nascondevano senza dubbio gli inglesi, che mirava a null’altro che la disintegrazione del nostro giovane stato. Qualcuno portò da Tel Aviv una nuova moneta, piuttosto grande, piuttosto brutta, ma pur sempre la prima moneta ebraica che vedevamo e che passò di mano in mano con grande commozione: venticinque centesimi, con il disegno di un grappolo d’uva a proposito del quale papà spiego che era un motivo preso direttamente da una moneta israelita dell’epoca del Secondo Tempio e sopra il grappolo c’era una scritta ebraica, nitida ed evidente: Israel. Per maggior sicurezza, il nome Israel era presente non solo in caratteri ebraici, ma anche in inglese e in arabo: che tutti tenessero a mente, insomma.
La signora Tserta Abramsky disse:
“Se solo potessero vedere i nostri genitori di benedetta memoria, e i genitori dei nostri genitori, e tutte le generazioni.., se solo potessero vedere e toccare questa moneta. Denaro ebraico…”.
E le si strozzò la voce in gola.
Il signor Abramsky disse:
“È opportuno recitare la benedizione su questa moneta. Benedetto il Signore nostro Dio re dell’universo che ci ha fatto giungere sino a questo momento”.
Invece nonno Alexander, il mio nonno elegante, edonista e appassionato di donne, non proferì parola, e si portò alle labbra quella moneta di nichel un po’ sproporzionata e la baciò due volte, con dolcezza e gli occhi gonfi, prima di passarla ad altri. In quel momento la via sussultò insieme alla sirena di un’ambulanza che correva verso via Sofonia e che dopo qualche minuto tornò nella direzione opposta, e forse papà trovò modo di fare una di quelle sue blande battute di spirito sulla tromba del messia. Comunque, restarono a chiacchierare e a bere tè, finché dopo una mezz’oretta gli Abramsky si alzarono augurandoci ogni bene; il signor Abramsky era appassionato di poesiole e non si sarà certo astenuto, quel giorno, dall’elargirci due o tre sublimi rime baciate. Erano già sulla porta, quando un vicino li richiamò con prudenza in un angolo del cortile, poi i due si precipitarono dietro a lui, così in fretta che zia Tserta dimenticò da noi la sua borsa. Dopo un quarto d’ora comparvero i Lemberg sconvolti, e riferirono che Yonatan Abramsky, Yoni dodicenne, mentre i suoi genitori erano da noi, stava giocando nel cortile di casa in via Neemia, quando un cecchino giordano appostato sulla scuola di polizia l’aveva colpito con una pallottola in mezzo alla fronte: il bambino aveva agonizzato per cinque minuti, aveva vomitato e all’arrivo dell’ambulanza era già morto.
In collaborazione con Cdec – Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea