di Giorgio Agamben – Bollati Boringhieri – Torino 1998
Stefano Levi Della Torre
Su due cose sono d’accordo con Agamben. La prima è la sua polemica contro ogni implicita sacralizzazione della Shoà, dello sterminio nazista degli ebrei. Il termine olocausto è appunto un sintomo di sacralizzazione, in quanto allude a un sacrificio fatto a un dio. Concordo anche con la sua polemica contro l’indicicibilità di Auschwitz (pag. 30, 146): anch’essa è un sintomo di sacralizzazione, fa di Auschwitz un idolo negativo e preclude il parlarne, l’analizzare, il trarne anche insegnamenti. Concordo anche sulla distinzione tra criterio giuridico e criterio etico nel giudicare le colpe: “Decisivo -scrive Agamben- è che il diritto [dal processo di Norimberga contro i crimini nazisti in poi] non pretenda di esaurire la questione. Vi è una consistenza non giuridica della verità” (pag. 15).
Fin qui, bene. Salvo che Agamben non definisce mai con chiarezza che cosa sia l’etica. Dice (pag. 20) che “il gesto dell’assumere responsabilità è genuinamente giuridico e non etico”. A me sembra, invece, che giuridica sia la responsabilità imputata, etica la responsabilità che il soggetto assume su di sé. La distinzione tra etico e giuridico non sta nella responsabilità, ma su quale sia il soggetto che la pone. In altri termini: etica è la responsabilità che il soggetto si assume verso l’altro, giuridica è la responsabilità che il soggetto di diritto imputa all’altro. Quando in un tribunale si sentenzia “in nome del popolo italiano” è il soggetto giuridico “popolo italiano” a imputare all’imputato la responsabilità di un reato, a difendersi dalla lesione del proprio diritto. Mentre etica è la responsabilità che qualcuno si assume in difesa del diritto di qualcun altro. Agamben dice invece che “l’etica è la sfera che non conosce colpa né responsabilità: essa è, come sapeva Spinoza, la dottrina della vita beata” (pag. 22). Dice anche che “nessuna etica può pretendere di lasciar fuori di sé una parte dell’umano, per quanto difficile da guardare” (pag. 58). Sarà per mia insufficienza, ma non trovo in queste frasi alcun chiarimento su che cosa sia l’etica.
Ma gli argomenti principali del libro non sono qui. Riguardano piuttosto la validità della testimonianza su Auschwitz, quale sia il baricentro del fenomeno Auschwitz, il rapporto tra vittime e carnefici, il senso di vergogna manifestato dai sopravvissuti.
Vediamoli partitamente.
Per quanto riguarda la testimonianza, Agamben si basa in particolare su Primo Levi, “un tipo perfetto di testimone” (pag. 14). Ma già alla pagina successiva (pag. 15) ne forza l’interpretazione. Dice: “sembra che gli interessi soltanto ciò che rende il giudizio impossibile, la “zona grigia”, dove le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime “.
Forzatura è quel soltanto, che è falso. Primo Levi si interessa abbondantemente anche di fatti su cui il giudizio non solo è possibile ma è anche enunciato; ma più grave è quella simmetria: “dove le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime”. Chiunque conosca I sommersi e i salvati sa che P. Levi affronta, nella “zona grigia”, il problema delle vittime ridotte dalla logica del lager a farsi anche carnefici, ma rifiuta dichiaratamente la simmetria per cui i carnefici diventano vittime, o siano equiparabili alle vittime. Scrive Primo Levi (I sommersi e i salvati, pag. 35): “Rimane vero che la maggiorparte degli oppressori, durante o (più spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbi o disagio, od anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi”. Eppure Agamben attribuisce a Levi l’idea di una convertibilità dei carnefici in vittime. Io non so a che cosa miri questa deformazione evidente del pensiero di P. Levi. Ma torneremo su questo argomento, perché Agamben è recidivo nel deformare le testimonianze. Sempre che io abbia capito, perché il suo scrivere è astruso, quasi non avesse trovato il tempo di esser chiaro, o non si fosse liberato da quei complessi adolescenziali secondo cui difficile denota sapere, “uno che se ne intende e non è da tutti”.
Torniamo alla questione del testimone. A pag. 31, Agamben pone la questione centrale, appoggiandosi ancora su P. Levi là dove dice: “Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri (…), sono loro, i “musulmani” [cioè, nel gergo del campo, quelli che per sfinimento hanno perduto ogni capacità di resistenza, sono ridotti a fascio di funzioni organiche in disfacimento] i testimoni integrali; ma chi ha visto la Gorgona [chi ha toccato il fondo] non è tornato per raccontare, o è tornato muto. Sono loro la regola, noi l’eccezione. Noi, toccati dalla sorte, abbiamo cercato (…) di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per “conto terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio”.
Queste sono le affermazioni in cui P. Levi delinea con rigore i limiti della propria testimonianza, la sua deontologia di testimone. Come le interpreta Agamben? Dice subito (pag. 31): “qui la testimonianza vale essenzialmente per ciò che in essa manca, contiene, al suo centro, un intestimoniabile, che destituisce l’autorità dei superstiti”. Ora, che vi sia un vuoto essenziale è vero e dichiarato: è la non testimonianza dei sommersi, dei morti e degli annichiliti dal Lager. Ma che ciò “destituisca l’autorità dei superstiti” è una conclusione forzata, arbitraria, che piacerà ai “negazionisti”, cioè a coloro che negano la realtà di Auschwitz e in particolare delle camere a gas. Anch’essi vogliono far passare l’idea che la testimonianza dei superstiti è “destituita d’autorità”. Ma Agamben insiste e rincara la dose: “La testimonianza -leggiamo a pag. 111- si presenta qui come un processo che coinvolge almeno due soggetti: il primo, il superstite, che può parlare ma non ha nulla di interessante da dire (sic), e il secondo, colui (…) che ha toccato il fondo e ha perciò molto da dire ma non può parlare”. Ora P. Levi, al pari di altri superstiti, ha parlato anche per “conto terzi”, per conto di chi ha toccato il fondo. Ma sembra ad Agamben che quando ha parlato della propria esperienza diretta non avesse nulla di interessante da dire?
Agamben inciampa nel suo stesso gomitolo quando ricorre all’etimologia: “Testis (testimone) significa etimologicamente colui che si pone come terzo (terstis) in un processo o in una lite” (pag. 15). “E’ evidente che Levi non è un terzo; egli è, in ogni senso, un superstite”. Ma poi Agamben lo coglie anche come terzo (e dunque -stando alla sua etimologia- testis, testimone) tra i “musulmani” che hanno visto il fondo e i carnefici. Alla fine non si capisce se, in quanto terzo, Primo Levi sia testimone o no; in ogni caso, in quanto “in ogni senso” superstes, è dichiarato “non aver nulla di interessante da dire”. Un gran pasticcio, e piuttosto equivoco. Tanto che Agamben si decompone nell’apoteosi finale. A pag. 153, tira le fila dedotte, per così dire, dall’affermazione di Levi citata (“I testimoni veri, integrali, non siamo noi salvati, ma i sommersi”): “In quanto definisce la testimonianza unicamente attraverso il musulmano, il paradosso di Levi contiene la sola possibilerefutazione di ogni argomento negazionista”. Quell’unicamente è tendenzioso: ancora una volta si nega il valore della testimonianza in proprio dei sopravvissuti. Poi dice che in questo unicamente sta “la sola possibile refutazione” del negazionismo. Stiamo freschi! Considerare questo argomento come il “solo possibile” è come augurare al negazionismo il più brillante successo. Ma le cose peggiorano con la dimostrazione “quasi matematica” di questo assunto: “sia, infatti, Auschwitz ciò di cui non è possibile testimoniare; e sia, insieme, il musulmano come assoluta impossibilità di testimoniare. Se il testimone testimonia per il musulmano, se gli riesce portare alla parola l’impossibilità di parlare -se cioè il musulmano è costituito come testimone integrale- allora il negazionismo è confutato nel suo stesso fondamento”. Se fossi un negazionista non sarei minimamente preoccupato di una simile confutazione, soprattutto se questa fosse “la sola possibile”, e non vi fossero altre prove di Auschwitz e delle camere a gas. Cerco conforto nel prosieguo della dimostrazione: “Nel musulmano -continua Agamben- l’impossibilità di testimoniare non è più, infatti, una semplice privazione, ma è divenuta reale, esiste come tale. Se il superstite testimonia non della camera a gas o di Auschwitz, ma per il musulmano (…) allora la sua testimonianza non può essere negata”. Malgrado il carattere trionfale di quell’allora, che sta al pari di un “come volevasi dimostrare”, io continuo a non capire i nessi consequenziali tra le frasi né il carattere stringente delle conclusioni: “Auschwitz -ciò di cui non è possibile testimoniare- è assolutamente e irrefutabilmente provato”. Fine del teorema, nonché del libro. Curioso percorso: l’assioma è falso e piuttosto cedevole dal lato del negazionismo (“Auschwitz, ciò di cui non è possibile testimoniare…”), l’argomentazione anche (il superstite è colui la cui testimonianza è “destituita d’autorità”, colui che non ha “nulla di interessante da dire”), ma per un miracolo filosofico le conclusioni sono un’improvvisa e trionfale proclamazione anti-negazionista. Sembra dire: prima vi conduco in un vicolo cieco, poi vi salvo all’ultimo con un eroico atto linguistico.
Consideriamo la questione della vergogna che diversi sopravvissuti hanno dichiarato di provare per il fatto stesso di essere sopravvissuti, per il sospetto di aver preso il posto di qualcun altro nel privilegio di sopravvivere, di aver prevaricato altri nel farlo. Agamben contesta questa spiegazione, perché troppo razionalizzata e troppo etica. Può darsi che abbia qualche ragione: quella spiegazione è stata compiutamente formulata dai sopravvissuti dopo, non durante la loro esperienza estrema; dopo, cioè quando essi si erano in qualche modo ricostituiti come esseri umani, non solo “nuda vita”, ma di nuovo dotati di capacità di riflessione razionale ed etica. Agamben cerca invece di cogliere il germe di questa vergogna nell’atto in cui si è formato, nel corso stesso dell’esperienza del Lager, nella contiguità con il non-uomo, con la “nuda vita” e con la morte. Canetti, come Bettelheim, spiega che il senso di colpa di fronte alla morte altrui (anche in situazioni normali) germina dal sollievo per il fatto che il peggio non è toccato a noi ma ad altri. Il dolore anche più sincero e profondo non elimina del tutto quel sollievo, “colpevole” e inconfessabile. C’è in Se questo è un uomo di Primo Levi (13° cap.) il vecchio Kuhn che ringrazia Dio per non essere stato scelto per il gas, che altri e non lui siano stati scelti. “Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn”, commenta Primo Levi. Il vecchio Kuhn aveva lasciato affiorare in modo indecente quel sollievo colpevole. Kuhn era indegnamente sincero, e non si può dire con esattezza quanto l’indignazione di Levi fosse netta in quel momento, o quanto si sia precisata dopo, nel ricordo. Ma in Kuhn mi sembra rappresentato qualcosa che ha a che fare con il senso di vergogna del sopravvissuto, e che lo scatto, inconsueto nella scrittura di Levi (“sputerei a terra…”), sia già una reazione a un fatto che lo colpisce dall’interno, un germe del senso di colpa del sopravvissuto.
Agamben riporta (pag. 83) la poesia di Levi, Il superstite, l’incubo dei morti, dei “sommersi”.
………………….
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
non ho usurpato il pane di nessuno.
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
e mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
Giustamente Agamben nota che l’ultimo verso è dantesco (Inf. 33, 141), è riferito a Branca Doria che per la sua dannazione vive, ma la sua anima è già all’inferno. L’anima del sopravvissuto è già all’inferno, non per colpa sua, ma per senso di colpa. Non mi sembra, però, che Agamben si accorga che quell’insistenza sul nessuno è invece omerica: è il nessuno di Odisseo per ingannare Polifemo: nessuno qui vuol dire “qualcuno”. E’ un riferimento, un’ambiguità voluta, posta sul crinale tra l’inconsistenza della propria colpa e realtà insistente del senso di colpa, perché qualcuno/nessuno “è morto in vece mia”.
Agamben nega che il conflitto interiore del sopravvissuto abbia dignità tragica (pag. 89). Nella tragedia -dice- l’eroe è colpevole fatalmente, non per intenzione, ma poi assume su di sé le colpe che è stato destinato a compiere. Nel superstite la vergogna è invece l’ “essere consegnati a una passività inassumibile” (pag. 102). Lo stato di costrizione conseguente a un ordine, evocato da Primo Levi a proposito del Sonderkommando (il gruppo di ebrei condannato a servire alle camere a gas e ai forni crematorii) renderebbe, secondo Agamben, “impossibile ad Auschwitz ogni conflitto tragico”. Scrive Agamben (pag. 90): “Ma a diffidare dell’adeguatezza del conflitto tragico a dar ragione ad Auschwitz induce soprattutto la facilità con cui esso è evocato dai carnefici”, i quali si sono giustificati affermando di aver dovuto obbedire ad ordini superiori. Qui Agamben sembra tratto in inganno dal suo gusto per le simmetrie in genere, e tra vittime e carnefici in specie. Non mi pare si accorga della differenza fra chi ha voluto dover obbedire (ciò vale in particolare per le SS, corpo volontario, o per i funzionari che avevano in gioco non la vita o la morte, ma il posto e la carriera), e i deportati, che invece hanno dovuto voler obbedire, nel tentativo di sopravvivere: hanno dovuto voler obbedire alla logica del Lager. In questo dover volere c’è un conflitto tragico, malgrado Agamben. Ma -dice Agamben- il personaggio della tragedia si assume poi le sue azioni fatali; mentre per il recluso si tratta di una “passività inassumibile”. Gli rispondo che è proprio il senso di colpa del superstite, il senso di colpa per aver dovuto voler qualcosa di estremamente aberrante, a segnalare l’assunzione tragica della propria vicenda: assunzione dapprima involontaria, ma che diviene volontaria nell’atto di prenderne coscienza, nella confessione consapevole della propria vergogna.
Agamben si invischia nella simmetria, o nella complementarità. Non sorprenda allora che ricorra al modello del rapporto tra sadico e masochista, figure appunto complementari. Modello che Primo Levi ha confutato, ne I sommersi e salvati, criticando il film della Cavani, Il portiere di notte. Nel modello sadomasochistico, il masochista vuole dover subire, e che Agamben alluda a questo modello come fosse chiarificatore conferma quanto ho appena detto: gli sfugge la differenza tra voler dovere e dover volere, che ha il suono di un gioco di parole, ed è invece una differenza decisiva.
Agamben mi sembra avere una singolare difficoltà nel trattare le differenze. Ha continuamente la tentazione a ridurle a simmetria, come quella appena vista, o a renderle dicotomie assolute. Di questo secondo modo faccio un esempio: a pag. 107 scrive: “Uno dei principî acquisiti dalla linguistica moderna è che la lingua e il discorso in atto sono due realtà assolutamente scisse, fra le quali non esiste né transizione né comunicazione. Già Saussure… ecc.”. Andiamo allora a vedere che cosa dice Saussure nel suo Corso di linguistica generale (cap. III, precisamente a pag. 18 e 19 dell’edizione Laterza 1978). Dice: “Occorre porsi immediatamente sul terreno della lingua e prenderla per norma di tutte le altre manifestazioni del linguaggio (…). Ma che cosa è la lingua? Per noi essa non si confonde col linguaggio, essa non ne è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale”. Dunque, per Saussure, la lingua è sì differente da tutte le altre manifestazioni del linguaggio, ma ne è anche norma e parte, e quindi non ne è affatto assolutamente scissa. Come si fa allora a citare Saussure per sostenere che la differenza tra lingua e discorso in attosignifica che tra l’uno e l’altro “non esista né transizione né comunicazione”?
Come fa con Primo Levi, anche con Saussure Agamben deforma la citazione.
Tutti questi “assolutamente”, “puramente”, “unicamente”, questo “bianco e nero” di Agamben mi pare gli rendano difficile comprendere i complessi criterî di distinzione su cui si basa il concetto di “zona grigia” proposto da Primo Levi nel cap. II de I sommersi e salvati: “Pare sia giunto il tempo -scrive Levi- di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori (…). Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana (…). La classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi (…), ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare”.
Ora, in che modo interpreta Agamben questo ritegno nel giudicare, questo “confondersi del nostro bisogno di giudicare”? Dice Agamben che “la straordinaria analisi della zona grigia … rifiuta temerariamente ogni spiegazione”. E’ vero il contrario.
Primo Levi spiega finché può, ma riconosce l’incapacità
di ogni spiegazione di abbracciare la molteplicità dei motivi che possono spingere ciascuno di noi, specie in condizioni estreme, a compromessi col potere, perché “quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere”. Il giudizio -scrive Levi- “lo vorremmo affidare soltanto a chi si è trovato in circostanze simili e ha avuto modo di verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione”.
Come si fa a intendere in questo ritegno di Primo Levi un “temerario rifiuto di ogni spiegazione”? E’ una ennesima falsificazione. Il “bianco o nero” di Agamben non comprende la “zona grigia”.
Tanto che non mi pare comprenda neppure la figura che pone al centro della sua riflessione su Auschwitz, il musulmano. Dice Agamben (pag. 46): “Ciò che non si vuole ad alcun costo vedere è però il “nerbo” del campo, la soglia fatale che tutti i deportati sono senza sosta sul punto di attraversare. Lo stadio del musulmano…”. Intanto, se Agamben ne può parlare, è perché più d’uno l’ha voluto vedere e testimoniare. Poi Agamben afferma (pag. 64) che nel Lager “la dignità offesa non è più quella della vita, bensì quella della morte”. Perché bensì? Perché l’una dovrebbe escludere l’altra? Dice ancora: “proprio questa degradazione della morte costituisce… l’offesa specifica di Auschwitz, il nome proprio del suo orrore” (pag. 66). Forse cerca di far quadrare “l’essere per la morte” di Heidegger. Ma è proprio in quello che è il nerbo del campo, nel musulmano, che l’offesa alla dignità della vita e alla dignità della morte, lungi dall’escludersi, si sovrappongono, coincidono.
Faccio ancora un esempio di come Agamben si approprî delle testimonianze per usarle impropriamente. Riguarda ancora la sua polemica sulla vergogna dei sopravvissuti. A pag. 95 Agamben riporta un passo terribile in cui Antelme riferisce dell’uccisione di un giovane italiano da parte di una SS durante una marcia di trasferimento:
“La SS chiama ancora: Du komme hier! E’ un altro italiano a uscire (…). E’ diventato rosso appena la SS gli ha detto Du komme hier(…), la SS cercava un uomo, uno qualsiasi da far morire, aveva “scelto” lui (…)”.
Che cosa ne deduce Agamben?Scrive: “Che la vergogna non sia in realtà senso di colpa, vergogna per essere sopravvissuto a un altro, ma abbia un’altra causa è testimoniato al di là di ogni dubbio da Antelme (…). Qualunque sia la causa di quel rossore, certo egli (il giovane italiano) non si vergognava per essere sopravvissuto. Piuttosto, secondo ogni apparenza, egli si vergognava di dover morire, di essere stato scelto a vanvera, lui e non un altro, per essere ucciso. Questo è il solo senso che può avere, nei campi, l’espressione “morire al posto di un altro”.
Qui si dà per scontato che quel rossore esprima comunque vergogna e non possa manifestare alcuna altra emozione. Ma questa interpretazione univoca non è neppure enunciata da Antelme. Certo non è affatto escluso che quel rossore esprimesse vergogna: ci si può vergognare di partecipare anche solo come spettatori a un fatto degradante, umiliante per la nostra appartenenza al genere umano. Ma perché la possibile vergogna per dover morire senza senso dovrebbe escludere altri motivi di vergogna?
Qui Agamben lo afferma “al di là di ogni dubbio”, ma non lo dimostra.
E quel che vorrebbe dimostrare, senza riuscire a farlo, è che esiste solo la vergogna del morire, non quella del sopravvivere, e ciò per smentire le testimonianze dei sopravvissuti, che hanno confessato il proprio senso di vergogna.
Ciò che resta, è questo modo di Agamben di utilizzare le testimonianze forzandole e falsificandole, piegandole ad un proprio protagonismo di interprete audace, che svelerebbe cose nuove che altri non avrebbero il coraggio di vedere. E’ una mancanza di discrezione o meglio una mancanza di rigore epistemologico verso le testimonianze e verso i fatti.
Dicembre 1999