Stefano Levi Della Torre
Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà –Documento della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo presieduta dal Cardinale Edward Idris Cassidy, 16 marzo 1998
Il 16 marzo 1998, la Commissione vaticana per i rapporti con l’ebraismo presieduta dal Cardinale E. I. Cassidy emetteva il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà. Pur avendo avuto una gestazione di più di un decennio e la ratifica di Giovanni Paolo II, che ne ha firmato la presentazione sotto forma di lettera, la dichiarazione sembra avere un carattere più interlocutorio che conclusivo: Essa si rivolge in primo luogo ai cattolici, in secondo luogo a tutti i cristiani mentre agli ebrei si chiede, con discrezione, di “predisporre il loro cuore all’ascolto”.
Pubblicato integralmente sul giornale della CEI l’Avvenire, il 17 marzo 1998, il testo verte su tre domande impegnative:
— Quali responsabilità della Chiesa e dei cristiani nel fatto che la Shoà ha avuto luogo in regioni di millenaria tradizione cristiana?
— Quali responsabilità ebbe l’antigiudaismo nella formazione e nell’affermazione dell’antisemitismo genocida?
— Fu fatto abbastanza da parte cattolica, e in particolare da parte di Pio XII, per cercare di impedire o limitare gli esiti catastrofici dell’antisemitismo?
Ma se le domande sono poste con chiarezza, non altrettanto lo sono le risposte, come vedremo di seguito.
- Le colpe dei figli
Nel cap. 1 — La tragedia della Shoà e il dovere della memoria — è citato un passo della lettera apostolica Tertio millennio advenientedi Giovanni Paolo II (10 novembre 1994): “La Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli, nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui nell’arco della storia essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo […] lo spettacolo di vere forme di antitestimonianza e di scandalo”. Si dice anche (cap. V): “Al termine di questo millennio la Chiesa cattolica desidera esprimere il suo profondo rammarico per le mancanze dei suoi figli e delle sue figlie in ogni epoca. Si tratta di una atto di pentimento (teshuvà): come membri della Chiesa condividiamo infatti sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli”.
Si parla qui di peccati e di pentimento della Chiesa stessa o “per conto terzi”, per conto dei suoi figli e figlie? Padre Raniero Cantalamessa, su Il Regno (n. 9, 1998, p. 324) sembra voler rispondere a questa domanda se nota che “quando la Chiesa parla dei suoi ‘figli’, sappiamo che include in essi anche i suoi ‘padri’”. Ma allora che senso avrebbe l’affermazione che nel documento Noi ricordiamo separa esplicitamente le colpe dei figli da quelle della “Chiesa in quanto tale”? Leggiamo infatti: “Nel mondo cristiano — non dico da parte della Chiesa in quanto tale — interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebreo e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo” (cap. III, Le relazioni tra ebrei e cristiani, citazione di Giovanni Paolo II in l’Osservatore Romano, 1 nov. 1997).
“Non dico la Chiesa in quanto tale”: del resto lo stesso padre Cantalamessa, nell’articolo citato (Il Regno, p. 321), traduce sorprendentemente dalla Costituzione dogmatica Lumen gentiumn. 8: la Chiesa “sancta simul et semper purificanda” con “santa e immacolata”; ma “semper purificanda” non significa affatto immacolata, bensì il suo contrario: “sempre bisognosa di purificarsi”.
Tutto ciò indica uno dei nodi cruciali: è “la Chiesa in quanto tale” colpevole di qualcosa, o solo si fa generosamente e maternamente carico di peccati non suoi, ma dei suoi figli? Si tratta di una Chiesa disincarnata, di un’idea platonica di Chiesa, immune dai difetti e dalle virtù concrete degli esseri umani che la compongono? Eppure il Concilio Vaticano II ha sancito o, diciamo meglio, constatato che la Chiesa è costituita, concretamente e spiritualmente, dalle donne e dagli uomini che vi partecipano.
Troviamo nel capitolo III (Le relazioni tra ebrei e cristiani) che “la Chiesa in Germania rispose condannando il razzismo”. Il razzismo, non il nazismo; non il nazismo se la Chiesa si precipitò a siglare, nell’anno 1933 in cui Hitler salì al potere, il Concordato come già nel 1929 aveva fatto col fascismo in Italia, e non vi rinunciò neppure quando il nazismo scatenò la guerra né quando entrarono a regime i campi di sterminio. “Tale condanna [del razzismo]” prosegue il passo “appare per la prima volta nella predicazione di alcuni tra il clero […].” Dunque, “la Chiesa in Germania” coincide qui con “alcuni tra il clero”. Che cosa se ne può dedurre? Che quando si tratta di vantare virtù, è allora “la Chiesa in quanto tale” a farsi avanti; quando si tratta di vizi o colpe la Chiesa prende le distanze, distingue sé “in quanto tale” dai suoi figli e figlie, e magari anche dai suoi padri. Ma gli esempi citati riguardanti “alcuni tra il clero” (il Cardinale Bertram di Breslavia, il Cardinale Faulhaber) sono discutibili. Ne tratta Rainer Kampling, direttore dell’Istituto di teologia cattolica dell’Università libera di Berlino, in L’antigiudaismo problema cristiano (Il Regno n. 8, 1988, pp. 273-278): “Valga come esempio” scrive Kampling “la condanna del nazionalsocialismo da parte dei vescovi tedeschi nel 1931. Quali sono le dichiarazioni successive al 1933 [cioè dopo l’ascesa di Hitler], e quali sono gli sviluppi di questa presa di posizione? E se la Commissione ritiene di dover esplicitamente citare il Cardinale Bertram di Breslavia, perché non ne evoca i radicali cedimenti?”. E quanto al Cardinale Faulhaber di Monaco, nelle sue omelie “non si pronuncia affatto contro l’antisemitismo, bensì contro gli attacchi sferrati alla Chiesa da un movimento caratterizzato anchedall’antisemitismo. Considerate con oggettività, queste omelie fanno prova di un antigiudaismo inveterato […]”. E per quanto riguarda il rapporto non solo di oggettiva collusione — ma organico — tra antigiudaismo religioso e antisemitismo nazista (di cui tratteremo poi), Kampling cita la voce “Antisemitismo” nell’edizione 1930-38 del lessico allora più in uso nella Chiesa cattolica tedesca (Lexicon für Theologie und Kirche): “I parametri ivi espressi garantiscono a un buon cattolico una coscienza perfettamente tranquilla nell’optare a favore dell’abolizione dei diritti civili degli ebrei […]. La voce […] non contiene alcuna condanna o rifiuto dell’antisemitismo”.
In Noi ricordiamo leggiamo ancora: “A seguito della Kristallnacht, Bernard Lichtenberg — prevosto della cattedrale di Berlino — elevò pubbliche preghiere per gli ebrei. Egli morì poi a Dachau ed è stato dichiarato beato”. Ora, ad onore di padre Lichtenberg, non si può dire, come suggerisce il testo, che egli rappresenti “la Chiesa in Germania”; al contrario, gran parte del suo valore e del suo coraggio consiste nel fatto che fu un’eccezione nel generale silenzio della Chiesa di fronte alla Kristallnacht. Citarlo non dimostra l’opposizione al nazismo della “Chiesa in Germania”; la solitudine di p. Lichtenberg rappresenta anzi il contrario. Ce lo conferma la Dichiarazione dei vescovi tedeschi (24/1/1995): “Oggi ci rattrista profondamente il fatto che si siano avute solo sporadiche iniziative a favore degli ebrei perseguitati e non vi sia stata alcuna pubblica ed esplicita protesta neppure in occasione del pogrom del novembre 1938 [Kristallnacht], quando centinaia di sinagoghe furono incendiate e devastate, i cimiteri profanati, migliaia di negozi ebraici distrutti, innumerevoli abitazioni di famiglie ebree danneggiate e saccheggiate, uomini e donne umiliati, maltrattati e persino uccisi. La considerazione retrospettiva degli avvenimenti del novembre 1938 e dei dodici anni della dittatura nazionalsocialista […]” ci ricordano che “la Chiesa […] è anche una Chiesa peccatrice […]”.
Quando in Noi ricordiamo si afferma che “come membri della Chiesa condividiamo sia i peccati sia i meriti dei suoi figli”, constatiamo che questa condivisione non è simmetrica: la Chiesa evoca a sé le virtù, scarica i vizi sui figli in nome dei quali chiede scusa come se questi fossero sfuggiti alla sua tutela e insegnamento (al suo “costante insegnamento […] circa l’unità del genere umano e l’uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli”; cap. IV). La Chiesa si scusa accusando i suoi figli. Qualcosa chiama alla mente la lunga discussione del Cardinale Federico Borromeo con don Abbondio nel cap. XXVI dei Promessi sposi: “Ma questo m’accora, questo m’atterra [dice il Cardinale Federico] che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi accusando; che prendiate materia di accusa da ciò che dovrebbe essere parte della vostra confessione […]. Forse lo spirito di don Abbondio si aggira anche in Vaticano.
Ben altra è l’assunzione di responsabilità della “Chiesa in quanto tale” espressa dai vescovi tedeschi (cit., 24/1/1995) e nella Dichiarazione di pentimento dei vescovi francesi (30/9/1997). Secondo i vescovi tedeschi, “al tempo del nazionalsocialismo, nonostante il comportamento esemplare di singole persone o gruppi, noi siamo stati nell’insieme una comunità ecclesiale che ha continuato a vivere volgendo troppo le spalle al destino di questo popolo ebreo perseguitato, una comunità che ha fissato troppo intensamente lo sguardo sul pericolo che correvano le sue proprie istituzioni e ha taciuto di fronte ai crimini […]. La concreta certezza della nostra volontà di rinnovamento dipende anche dall’ammissione […] di questa storia colpevole del nostro Paese e anche della nostra Chiesa”.
Con ancora maggiore nettezza, la Dichiarazione dei vescovi francesi sottolinea la responsabilità della Chiesa “in quanto tale”. “Di fronte alla legislazione antisemita emanata dal governo [di Vichy] dobbiamo constatare che i vescovi francesi non si sono espressi pubblicamente, acconsentendo con il loro silenzio a queste flagranti violazioni dei diritti dell’uomo, e lasciando campo libero a un ingranaggio assassino”; per cui “bisogna chiedersi se gesti di carità e di sostegno siano sufficienti ad onorare le esigenze di giustizia e il rispetto dei diritti della persona”. O ancora: “La Chiesa francese deve riconoscere che […] il silenzio è stato la regola, e la parola a favore delle vittime l’eccezione”. “La Chiesa in Francia ha mancato allora alla sua missione di educatrice delle coscienze […]; ha portato così, insieme al popolo cristiano, la responsabilità di non aver offerto soccorso fin dai primi istanti […], anche se in seguito ci sono stati innumerevoli atti coraggiosi […]. Questo errore della Chiesa francese e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte di lei”.
Entrambi i documenti, quello dei vescovi francesi e quello dei vescovi tedeschi, precedono nel tempo il documento vaticano. Le differenze circa le responsabilità della “Chiesa in quanto tale” sono evidenti. Da esse possiamo dedurre l’intenzione del documento vaticano di ritrarsi, di fare un passo indietro nel senso dell’autogiustificazione e dell’apologia.
Questo segno apologetico è uno degli elementi più scivolosi di tutta la questione. In essa la Chiesa confonde la difesa dei suoi interessi e delle sue funzioni istituzionali con la difesa dei valori universali. Se si legge ad esempio la molto vantata enciclica Mit Brennender Sorge (cfr. cap. III), in cui il Papa Pio XI nel 1937 critica il regime nazista, si può constatare che la massima insistenza verte sulle inadempienze del regime rispetto al Concordato del 1933; e che all’antisemitismo (e limitatamente ai suoi stravaganti risvolti teologici) sono dedicate solo poche righe in cui non compare neppure la parola “ebreo”: “Chi dunque” si legge nell’enciclica del 1937 “vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio […]; egli rinnega la fede in Gesù Cristo […], il quale prese natura umana da un popolo che doveva poi crocifiggerlo. Non comprende nulla del dramma universale del Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento”.
Che cosa contrappone Pio XI al nazismo, in questo passo? L’antica controversia contro Marcione, il quale (nel II secolo) proponeva un antagonismo insanabile tra il Dio malvagio e vendicativo dell’ “Antico Testamento” ebraico e il Dio d’amore del “Nuovo Testamento” cristiano. Ma nell’atto di ribadire il valore del “Testamento” ebraico e la condanna di Marcione, la cui eresia vede reincarnarsi nel nazismo, Pio XI ribadisce anche, in piena campagna antisemita, la tradizionale accusa di deicidio.
In definitiva, anche la vantata protesta della Mit Brennender Sorge rientra nella critica dei vescovi tedeschi alla propria Chiesa: “Una comunità che ha fissato troppo intensamente lo sguardo sul pericolo che correvano le proprie istituzioni e ha taciuto di fronte ai crimini”.
L’antisemitismo — si sostiene nel capitolo IV di Noi ricordiamo — aveva le proprie radici fuori del cristianesimo e, nel perseguire i propri scopi, non esitò ad opporsi alla Chiesa perseguitandone pure i membri”. Un argomento di costante attrito tra Chiesa e antisemitismo razzista fu la questione degli ebrei convertiti. La Chiesa ne difendeva i diritti, e con questi la propria giurisdizione circa conversioni e matrimoni; gli antisemiti perseguitavano i convertiti perché “biologicamente” ebrei. Ma oggi il senso del passo citato è un altro: si inscrive nella linea di una Chiesa che vuole annoverarsi tra i perseguitati e agisce “gradatamente in modo da appropriarsi dei simboli della sofferenza ebraica per minimizzare il significato dell’antisemitismo cattolico, concentrando l’attenzione sul proprio sacrificio” (A. H. Foxman, rav L. Klenicki). È la linea delle croci piantate in Auschwitz, del convento carmelitano istituito nello stesso Lager (e poi rimosso), della canonizzazione di padre Kolbe, antisemita generosamente sacrificatosi ad Auschwitz, della filosofa Edith Stein, ebrea fattasi carmelitana, uccisa ad Auschwitz in quanto ebrea e canonizzata martire santa.
2. Antigiudaismo e antisemitismo
La difficoltà di Noi ricordiamo nell’assumere le responsabilità della “Chiesa in quanto tale” emerge con evidenza anche nell’altra questione cruciale: il rapporto tra antigiudaismo e antisemitismo. All’inizio del capitolo IV (L’antisemitismo nazista e la Shoà) si legge: “Non si può ignorare la differenza che esiste tra l’antisemitismo, basato su teorie contrarie al costante insegnamento della Chiesa circa l’unità del genere umano e l’uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli, e i sentimenti di sospetto e di ostilità perduranti da secoli che chiamiamo antigiudaismo, dei quali, purtroppo, anche dei cristiani sono stati colpevoli”. Più oltre leggiamo che “la Shoà fu opera di un tipico regime moderno neopagano. Il suo antisemitismo aveva proprie radici fuori del cristianesimo”.
La prima mossa è dunque quella di negare qualunque nesso organico tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo moderno e “pagano”. Sicché la questione si riduce a questo: “Se la persecuzione del nazismo nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani. Il sentimento antigiudaico rese forse i cristiani meno sensibili”?
A questa domanda Noi ricordiamo risponde in tre modi:
a) in primo luogo, abbiamo visto, col negare ogni responsabilità dell’antigiudaismo nella formazione dell’antisemitismo;
b) in secondo luogo, col dimenticare le dimensioni dottrinarie e di magistero dell’antigiudaismo, e col ridurre questo a “sentimenti” quasi casualmente perduranti da secoli;
c) in terzo luogo, col diminuire la portata collettiva della tradizione antigiudaica del cristianesimo, riducendolo al caso di “alcuni cristiani”. Il dato dell’antigiudaismo cristiano viene frantumato in innumerevoli situazioni personali, e incrociato con altri fattori e altre influenze (rispetto a quelle del magistero della Chiesa).
“Ogni risposta a questa domanda [sulle responsabilità dell’antigiudaismo nell’affermarsi dell’antisemitismo] deve tener conto del fatto che stiamo trattando della storia di atteggiamenti e modi di pensare di gente soggetta a molteplici influenze […]. Una risposta va data caso per caso: per farlo è necessario conoscere ciò che precisamente motivò le persone in una specifica situazione”. Non tanto, dunque, retaggi storici di tradizioni e dottrine antigiudaiche, quanto piuttosto specifiche situazioni contingenti, infinite e indefinite combinazioni sociologiche e psicologiche.
Ma il vizio fondamentale di questa argomentazione sta alla radice, ossia nella definizione stessa dell’antigiudaismo: esso è definito all’inizio del capitolo IV, abbiamo visto, come un insieme di “sentimenti di sospetto e di ostilità perduranti da secoli […], dei quali, purtroppo, anche dei cristiani sono stati colpevoli”.
Dunque, l’antigiudaismo è sì dichiarato una colpa, solo però di “alcuni cristiani”. Ma può davvero essere ridotto a “sentimenti” quando fu formulazione dottrinaria e tradizione letterata, predicata dai padri ai figli della Chiesa per due millenni, e con maggiore costanza del vantato “costante insegnamento dell’uguale dignità di tutti i popoli”? Né l’antigiudaismo può essere lasciato intendere come prerogativa di alcuni generici cristiani, quando predicatori e persecutori furono vescovi, cardinali e papi e, cosa più imbarazzante, santi, cioè figure portate a modello di virtù, di fede, di giusta dottrina. Tali ad esempio San Giovanni Crisostomo o Sant’Ambrogio, San Bernardino da Siena o san Vincenzo Ferrer, o san Pio V e troppi altri. Il duro scoglio sta nel fatto che l’antigiudaismo non è accidente bensì elemento intrinseco del cristianesimo. È inscritto nella dottrina costitutiva della sostituzione, secondo la quale la Chiesa è la Nuova Israele che sostituisce l’antica, e il Nuovo Patto supera e destituisce l’Antico Patto. E se il marcionismo rinnegava Israele (e il Primo Testamento) in quanto accolita di un Dio malvagio, la condanna dell’eresia marcionita non ha impedito che marcionita sia tuttora il senso comune della cristianità, e in particolare del cattolicesimo, fino ad oggi; inoltre la condanna di Marcione, grazie alla quale la Bibbia ebraica veniva assunta nel canone cristiano, imponeva di rinnegare l’interpretazione ebraica della Bibbia, cioè di negare validità all’ebraismo vivente nei secoli, e imponeva ad esso il marchio dell’impostura e dell’aberrazione, con tanta più forza in quanto concorrente del cristianesimo sugli stessi testi.
Sentimento, tradizione e dottrina, l’antigiudaismo è una sedimentazione a molti strati. E la sua deplorazione o condanna è una delle questioni teologico-politiche più complesse e intricate che la Chiesa si trovi ad affrontare: essa ne coinvolge la stessa identità storica e teologica. Lungo questo percorso, che muove dal riconoscimento che il Cristo si è incarnato non solo come essere umano ma specificamente come ebreo (“Gesù è ebreo per sempre”), lungo questo percorso che implica una trasformazione radicale, e su cui sono già stati fatti importanti passi dalla Nostra aetate dal 1964-65 in poi, sono inevitabili titubanze e contorsioni. Tanto maggior rispetto, dunque, per chi nella Chiesa si pone oggi di fronte a un nodo di tale portata.
Tra questi padre Raniero Cantalamessa, che nell’articolo già citato (Il Regno, 9, “Dal Vaticano, basilica di San Pietro, 10 aprile 1998”) indica come primo documento dell’antigiudaismo l’accusa di deicidio lanciata contro gli ebrei da Melitone di Sardi nel II secolo, in un’omelia pasquale tuttora inclusa nella liturgia (“ne abbiamo letto un brano” scrive padre Cantalamessa “nella ‘liturgia delle ore’ di ieri”). Non dunque generico sentimento, bensì materiale liturgico, omiletico, dottrinario; né sedimento collaterale, ma elemento inoculato fin dalle origini. Però, sostiene padre Cantalamessa, le radici dell’odio non sono né in san Paolo né nei Vangeli: in essi la polemica contro gli ebrei e i farisei era fatta all’interno del giudaismo. “I profeti, Mosè stesso, erano stati forse meno severi nei confronti di Israele? A volte lo erano stati assai di più […]. ma forse che gli ebrei si sono sentiti offesi da Mosè o dai profeti […]? Sanno bene che all’occorrenza Mosè è pronto a farsi radiare lui stesso dal libro della vita, piuttosto che salvarsi da solo senza il suo popolo”. Così è per Gesù, per Paolo, per gli apostoli. La loro polemica presupponeva l’amore per Israele. “Cosa è successo invece nel passaggio dalla primitiva Chiesa giudeo-cristiana alla Chiesa dei gentili? I gentili hanno raccolto la polemica di Gesù e degli apostoli contro il giudaismo, ma non il loro amore per i giudei. La polemica si è trasmessa, l’amore no. Quando parleranno dell’avvenuta distruzione di Gerusalemme, i padri della Chiesa non lo faranno piangendo, tutt’altro. La radice del problema è tutta qui: mancanza d’amore, cioè infedeltà al precetto centrale del Vangelo”.
Così padre Cantalamessa pone radicalmente il problema: l’antigiudaismo promana da un’infedeltà originaria degli stessi padri della Chiesa; alla radice non l’amore, ma l’odio. Tutto ciò diverge profondamente dall’immagine marginale che dell’antigiudaismo è offerta dalla dichiarazione di Noi ricordiamo. La tesi che vi è adombrata, secondo cui l’antigiudaismo sarebbe devianza di “figli” piuttosto che della Chiesa in quanto tale è “tanto più problematica” scrive Kampling nell’articolo già citato “quanto più manchi la prova positiva che consenta di conoscere la posizione concretamente presa dalla Chiesa nel momento in cui i suoi figli e figlie si abbandonavano a tale errore. Manca cioè la prova di una dottrina magisteriale davvero priva di antigiudaismo” (Il Regno, 8, 1998, p. 278). Non è dunque un caso — come osserva Pietro Stefani — se il documento che comincia a mettere in discussione l’antigiudaismo, il Nostra aetate, è l’unico del Concilio Vaticano II che non ha potuto essere accompagnato da rinvii alla tradizione (padri, concili, papi ecc.). R. Kampling (cit., p. 278) ricorda anzi come “durante il Vaticano II gli ultraconservatori avevano affermato, nel corso del dibattito sul capitolo IV di Nostra aetate, che l’antigiudaismo è parte costitutiva della dottrina della Chiesa e che quindi va recepito come traditio“. “Tutto ciò significa una cosa sola” scrive Paolo De Benedetti (in Sefer, 82, 1998), “che la Chiesa (certo non solo la Chiesa cattolica) fino al Vaticano II, e quindi per tutta la durata della sua esistenza, ha insegnato l’errore”.
Ora, se la natura e la portata dell’antigiudaismo sono altro rispetto a quelle suggerite dal documento vaticano, altra ne è anche la responsabilità nella formazione dell’antisemitismo.
Decisa a sostenere la tesi non solo di una differenza, ma di una sostanziale estraneità tra l’antigiudaismo cristiano e l’antisemitismo, la dichiarazione Noi ricordiamo è gravemente reticente sui fatti storici. Leggiamo nel capitolo III: “Nel XIX secolo prese piede un nazionalismo esasperato e falso. In un clima di rapido cambiamento sociale, gli ebrei furono spesso accusati di esercitare un’influenza sproporzionata rispetto al loro numero. Allora cominciò a diffondersi in vario modo, attraverso la maggior parte d’Europa, un antigiudaismo che era essenzialmente più sociopolitico che religioso”.
Un antigiudaismo “più sociopolitico che religioso” lascerebbe intendere una estraneità della Chiesa a questa rinnovata ostilità. Ciò a conferma di una pretesa cesura tra ostilità religiosa e ostilità “sociopolitica”. Ma Noi ricordiamo dimentica; dimentica il coinvolgimento del mondo cattolico ufficiale nel fronte anti Dreyfus, o la recrudescenza della polemica antiebraica condotta dai gesuiti di La civiltà cattolica negli ultimi decenni del XIX secolo. La reazione clericale all’emancipazione ebraica e a tutte le idee liberali, moderniste o socialiste, che l’hanno sostenuta arriva fino alla Shoà. Scrive Raul Hilberg (in Carnefici, vittime, spettatori, Milano, Mondadori 1994, p. 253) che “quando il governo di Vichy incaricò il suo ambasciatore al Vaticano [agosto 1941] di accertare se i decreti [antisemiti] da loro presi in considerazione superassero i confini della dottrina cattolica, il Vaticano rispose che i provvedimenti economici o quelli volti a isolare gli ebrei non costituivano una violazione delle direttive tradizionali promulgate dalla Chiesa. Tuttavia non ci si curò di specificare la differenza tra la vecchia discriminazione e il puro e semplice annientamento”. E quando nel 1943, dopo la caduta del fascismo, le comunità israelitiche chiesero al governo Badoglio l’abrogazione delle leggi razziali del 1938, padre Tacchi Venturi, per conto della santa Sede, dichiarava di trovare in quelle stesse leggi elementi “meritevoli di conferma”. Ma, per essere brevi, a illustrazione dei nessi tra antigiudaismo religioso e antisemitismo potremmo rifarci alla sintesi offertaci da padre Agostino . Gemelli, che non fu un marginale “figlio della Chiesa” bensì fondatore e rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore e presidente della pontificia Accademia delle Scienze. In occasione del suicidio di Felice Momigliano nel 1924, padre Gemelli dichiarava: “Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, Felice Momigliano è morto suicida […]. Ma se insieme col Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?”.Queste abiette parole di un esponente responsabile ed autorevole della “religione dell’amore” — al quale sono intestate tuttora piazze, aule universitarie e ospedali — ci mostrano quanto l’antigiudaismo religioso e l’antisemitismo “sociopolitico” siano intricati tra loro. E non solo nel senso che il primo avrebbe favorito il secondo ispirando l’indifferenza, ma nel senso di una matrice comune e spesso di una collaborazione attiva, un comune auspicio della morte altrui per fare un “mondo migliore” (“al mondo si starebbe meglio”).
3. Pio XII
L’indifferenza, la non testimonianza di molti cristiani sono comunque sotto imputazione. Nel capitolo IV si legge: “Non possiamo conoscere quanti cristiani in paesi occupati o governati dalle potenze naziste o dai loro alleati constatarono con orrore la scomparsa dei loro vicini ebrei, ma non furono tuttavia forti abbastanza per alzare la loro voce di protesta [corsivo nostro]. Per i cristiani questo grave peso di coscienza di loro fratelli e sorelle durante l’ultima guerra mondiale deve essere un richiamo al pentimento”: Ora domandiamoci: l’allora Papa Pio XII alzò forse la voce di protesta? Non l’ha fatto, come egli stesso ha ammesso. Non alzò la sua voce di protesta quando il 16 ottobre 1943 constatò la scomparsa dei suoi vicini ebrei nella retata nazista al ghetto di Roma. Qui si dichiarano colpevoli i cristiani che si comportarono come il Papa; si pretende da loro ciò di cui il Papa, loro guida, viene ora giustificato (cfr. nota 16 di Noi ricordiamo). Si dichiara colpa degna di pentimento la non testimonianza che fu di Pio XII, del quale si propone la canonizzazione. Eppure sull’orrore Pio XII era tanto più informato dei suoi fedeli, anzi era il più informato tra i capi delle nazioni, come sostengono storici quali Mommsen e Miccoli, grazie alla rete delle parrocchie su scala europea. Constatiamo questa contraddizione insostenibile, sul piano logico e morale, a distanza di poche righe nello stesso documento.
Pio XII non negò la sua non testimonianza. In un opuscolo in apologia di Pio XII (Pio XII, il nazismo, gli ebrei, Ed. Antoniano, Bologna 1964) si legge a p. 21: “Nel dicembre 1942, in una lunga udienza concessa a padre Paolo Dezza S. J., allora rettore magnifico della pontificia Università Gregoriana, Pio XII confidava: ‘Si lamentano che il Papa non parla. Ma il Papa non può parlare. Se parlasse sarebbe peggio […]”. Considerazioni assai diverse guidarono ad esempio, nel marzo del 1943, il metropolita ortodosso di Sofia, Stefan, che denunciò pubblicamente la persecuzione antisemita e contribuì fattivamente, con Peshev, a salvare migliaia di ebrei bulgari dalla deportazione.
Ora, si può constatare che ogni atto di condanna o di resistenza può inasprire l’offensore e intensificare la sua ferocia (l’abbiamo visto recentemente nel Kossovo). La guerra stessa favorì l’entrata a regime della “soluzione finale”. Tuttavia la guerra e la resistenza, e non lo spirito di condiscendenza o la reticenza, furono le condizioni per debellare il nazismo, il fascismo e con essi i campi di sterminio.
In un altro passo dell’opuscolo sopracitato, a p. 20, si riporta una dichiarazione di Pio XII, fatta durante la guerra, in udienza privata: “Dica che più volte abbiamo pensato di lanciare una scomunica contro il nazismo, di denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei […]. Dopo molte lacrime e molte preghiere ho giudicato che una mia protesta non solo non gioverebbe a nessuno, ma susciterebbe le ire più feroci contro gli ebrei […]. Forse una mia protesta solenne provocherebbe a me la lode del mondo civile, ma ai poveri ebrei una persecuzione più implacabile”.
Così Pio XII non scomunicò il nazismo né i molti cattolici che lo sostenevano (Hitler stesso e Himmler, capo delle SS, erano di ascendenza cattolica). Ma più tardi scomunicò i comunisti. Dunque i casi sono due:
— o Pio XII pensava che il comunismo non avrebbe reagito con la stessa ferocia del nazismo contro i suoi oppositori veri o presunti, e dunque il Papa si sarebbe adattato a scomunicare il male minore per non affrontare quello maggiore;
— oppure, al contrario, il Papa riteneva il nazismo più tollerabile per il cattolicesimo che non il comunismo: più tolleranza per i nazisti e scomunica per i comunisti.
I fatti suggeriscono quanto meno due interpretazioni opposte. Resta un’oscura ambiguità, che non è il carattere proprio della testimonianza. Malgrado che lo stesso Pio XII, nell’enciclica Summi pontificatus (1939) avesse parlato del dovere del Papa di “rendere con apostolica fermezza testimonianza della verità”.
Tutto questo non smentisce l’opera del Vaticano per salvare ebrei, né il suo avvallo ai molti che si sono prodigati al rischio della vita per aprire vie di fuga o dare rifugio ai perseguitati in conventi e parrocchie, in case e villaggi. Tanti ebrei si salvarono anche grazie a “figli e figlie” della Chiesa cui è andato il riconoscimento di giusti delle nazioni in Israele. Gli attestati di gratitudine da parte ebraica sono l’argomento centrale in difesa di Pio XII riportati nella nota 16 di Noi ricordiamo.
Tuttavia il sostegno della Chiesa non mancò neppure sull’altro versante. È il caso ad esempio (e per limitarci a Roma) di monsignore Alois Hudal, vescovo titolare della comunità tedesca a Roma presso Santa Maria dell’Anima, il cui filonazismo era noto, tanto che nel natale 1939 ricevette dal Vaticano una busta indirizzata al “Collegio ariano dell’Anima”, come riporta Raul Hilberg (cit., p. 258). Non cessò di esaltare le vittorie naziste e, dopo la sconfitta del Reich, aiutò non pochi nazisti in fuga con documenti falsi. Forse è anche così che si lavora per l’eternità di un’istituzione: acquistando benemerenze tanto presso i vinti quanto verso i vincitori, che potranno domani essere i vincitori e i vinti: essere pronti ad ogni rivolgimento delle sorti, ad ogni sviluppo futuro.
4. Atti contestuali
Ancora un’impressione di doppiezza affiora se estendiamo lo sguardo ad alcuni atti che la Chiesa è andata compiendo nello stesso periodo in cui veniva elaborato il documento Noi ricordiamo.
Consideriamo la canonizzazione di Edith Stein. Tralasciamo le polemiche che tale canonizzazione ha sollevato, e cui ho già accennato, e seguiamo invece un aspetto particolare della vicenda.
In un’intervista al giornale polacco Gazeta Wiborcza del 10/1/1999, padre Stanislaw Musial, gesuita, rende noto che “nell’aprile del 1933, subito dopo l’ascesa di Hitler al potere, Edith Stein scrisse al Papa [Pio XI] supplicandolo di redigere un’enciclica contro l’antisemitismo. L’esistenza della lettera è indiscutibile, perché Edith Stein ne parla nelle note successive scritte in convento. Ma […] gli ecclesiastici che lavoravano alla pratica di canonizzazione hanno ricevuto l’ordine di non farne menzione”.
Sappiamo che la richiesta della Stein non ebbe seguito. Pio XI incaricò padre La Forge di preparare un testo contro l’antisemitismo, ma con l’avvento di Pio XII nel 1939 l’iniziativa venne insabbiata.
Ora, dopo la Stein, si propone di canonizzare Pio XII. La contraddizione non è lieve: si troveranno fianco a fianco in cielo una santa che ha chiesto un pronunciamento e un Papa che di fatto gliel’ha negato. Sarà forse questa una delle ragioni per le quali, come riferisce Musial “il Cardinale Meisner, arcivescovo di Colonia, ha chiesto invano che gli si permetta di versare la lettera del 1933 nell’archivio Stein di cui ha la tutela” (Il Manifesto, cit.): quella lettera porrebbe forse una contraddizione tra la canonizzazione della Stein e quella di Pio XII. La politica di appropriazione cattolica del martirio, che ha nella Stein una copertura nobile, fa attrito con l’intenzione di redimere Pio XII e la Chiesa dalle loro ambiguità di fronte alla Shoà.
Ai primi di ottobre del 1998 Giovanni Paolo II ha proclamato beato Aloijs Stepinac, già arcivescovo di Zagabria. Dal 1941 fu sostenitore del regime nazista cattolico di Ante Pavelic, tra i più atroci in Europa: fuori e dentro il campo di Jasenovac (in cui operarono nello sterminio anche frati francescani, fra cui F. Maestrovic) furono massacrate in Croazia tra le 700.000 e un milione di persone: serbi ortodossi, ebrei, zingari, oppositori politici. Non risulta che l’arcivescovo Stepinac abbia levato proteste contro la strage; le sue obiezioni si limitarono a certi metodi di conversione forzata. Fu poi oppositore di Tito, dopo il 1945. L’anticomunismo è evidentemente un merito che redime dalle simpatie e compromissioni col nazismo.
Tralasciamo qui le ragioni politiche della canonizzazione di Stepinac, nel contesto della crisi balcanica in cui il Vaticano si è schierato a sostegno del nazionalismo croato-cattolico di Franjo Tudjman con tutte le sue nostalgie verso lo “stato indipendente croato” di Ante Pavelic. Consideriamo però questa contraddizione: l’esaltazione di un sostenitore di un regime nazista, quale Stepinac, contestualmente alla pubblicazione di un testo solenne di deplorazione e/o condanna dei crimini nazisti:
né pentére e volere insieme puossi
(Dante, Inf. XXVII, 119)
Nel testo e nel contesto, la dichiarazione di pentimento di Noi ricordiamo è attraversata da riserve e da ombre. Si tratta di contraddizioni o non piuttosto di compensazioni? Di compensare cioè una presa di posizione che va in un senso con altre che vanno in senso diverso, così da accontentare ecumenicamente questi e quelli, progressisti e conservatori, fautori del pentimento e fautori della giustificazione, fautori della svolta e fautori della continuità, poveri e ricchi, vittime e persecutori. E la sproporzione della nota 16 in difesa di Pio XII lascia il dubbio che per alcuni sia questo l’obiettivo: il riscatto e la canonizzazione di quel Papa controverso, quasi Noi ricordiamo fosse solo premessa e funzione della stessa nota 16.
Nell’insieme, non è così. Il documento ha il coraggio di porre domande decisive. Tra le risposte elusive, una posizione è chiara: la condanna dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. Quest’ultima è quella più impegnativa: coinvolge l’identità del cristianesimo e si apre alla possibilità di rinnovamenti profondi.
Post scriptum
Il I settembre 1999 Giovanni Paolo II ha ricordato il 60° anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Il testo del suo discorso è stato pubblicato in L’Avvenire del 2 settembre.
Il Papa dà un ulteriore segnale contro l’antigiudaismo, invitando a imitare gli ebrei: come gli ebrei pregavano dopo l’esilio facendosi carico delle colpe dei loro padri, così “la Chiesa imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei suoi figli […]. Affida l’indagine sul passato alla paziente e onesta ricostruzione scientifica, libera da pregiudizi di tipo confessionale o ideologico”. E delle colpe dei suoi membri storicamente accertate la Chiesa chiede perdono a Dio e ai fratelli, non come “ostentazione di finta umiltà” ma per un’ “irrinunciabile esigenza di verità”.
Il Papa cita il Concilio Vaticano II, la Lumen gentium, la sua Tertio millennio adveniente ma non fa alcuna menzione a Noi ricordiamo, il cui argomento era del tutto pertinente all’occasione.
Si tratta di una presa di distanza da quel documento? Di una presa d’atto della sua insufficienza?
Stefano Levi Della Torre
giugno 1999