“Accadde a un figlio di re che credeva erroneamente di essere un pollo. Si tolse gli abiti, andò a mettersi sotto il tavolo e rifiutò di accettare cibi di sorta limitandosi a becchettare del grano. Il re mandò a chiamare molti medici e specialisti, ma nessuno riuscì a trovargli una cura. Dopo alcuni giorni un saggio si presentò al re e gli disse: “Credo di poter guarire il figlio del re”. Il re gli permise di tentare e il saggio si tolse gli abiti, strisciò sotto il tavolo e si mise a becchettare il grano.
Il figlio del re lo guardò con sospetto e chiese: “Chi sei e che cosa fai qui?” E il saggio rispose: “Chi sei tu e che cosa fai qui”.
“Io? Io sono un pollo”, rispose infuriato il figlio del re.
“Anche io sono un pollo”, disse il saggio con grande calma, e i due rimasero sotto il tavolo finché non si abituarono l’uno all’altro.
Quando il saggio capì che il figlio del re si era abituato a lui, fece cenno che gli portassero gli abiti. Li indossò e disse al figlio del re: “Non credere che a un pollo sia proibito indossare abiti. Un pollo si può vestire e rimanere un autentico pollo”. Il figlio dei re considerò la cosa e accettò di vestirsi anche lui, allora il saggio fece cenno che gli portassero delle vivande normali.
Il figlio del re strabiliò: “Che cosa fai?”
E il saggio lo tranquillizzò dicendo: “Non ti allarmare: un pollo può mangiare quello che mangiano gli uomini e rimanere un pollo per tutto il resto”.
Il figlio del re accettò il consiglio e fece cenno che gli portassero delle vivande normali, dopo di che il saggio disse al figlio del re: “Credi proprio che un pollo debba rimanere sempre sotto il tavolo? Niente affatto. Può andare in giro quanto gli piace e rimanere un autentico pollo”.
Il figlio del re rifletté un attimo, quindi uscì da sotto il tavolo sulle orme del saggio e si mise a camminare.
Quando ebbe a vestirsi come un uomo, a mangiare come un uomo e a camminare come un uomo, lentamente gli tornarono tutti i sensi e riprese a essere uomo e a vivere in tutto da uomo.”
Questo apologo di Rabbì Nahman di Brazlav, che si presta a molteplici interpretazioni, indica la strada che il saggio dove percorrere per comunicare realmente con gli altri: senza avere il timore di “abbassarsi” al livello degli altri, egli deve spogliarsi dei propri abiti per andare alla ricerca dell’uomo- ebreo, che ha perso la coscienza della propria identità, tanto da tradire la propria natura fino a ritenersi un “pollo”. Non a caso con questo apologo Roberto Della Rocca ha aperto il suo intervento al termine della giornata di studio svoltasi in suo onore, in occasione del primo anniversario del suo rabbinato a Venezia. Un rabbino che voglia oggi comunicare con la propria Comunità non deve avere alcuna remora a calarsi nelle situazioni più disagevoli per riportare un ebreo a prendere coscienza del proprio ebraismo. Si tratta di una strada da compiere con pazienza e con determinazione, ma dai risultati assicurati: per l’ebreo, la sua essenza umana si sostanzia nel fatto di esprimere la propria ebraicità.
Ma come vede la tradizione ebraica il rapporto tra la guida, sia essa politica che spirituale, e la Collettività in cui opera? Quali sono le qualità necessarie per poter diventare una guida? Esiste, per così dire, un “vademecum” per la guida che gli permetta di svolgere meglio la propria funzione? È la guida a doversi adeguare alla Comunità o viceversa? E ancora: quali sono le qualità che fanno di un Talmìd Chakhàm, cioè uno studioso della Torà, una guida?
Cercheremo qui di rispondere a queste domande, appoggiandoci ad alcune tra le opinioni espresse dai Maestri.
Il problema della scelta di una guida adeguata si pone al momento della morte di Mosè. Troviamo scritto nella Torà (Numeri 27: 15-17):
“Mosè parlò al Signore dicendo così: “Destini il Signore, Dio degli spiriti di ogni vivente, un uomo sulla Comunità, il quale esca davanti a loro ed entri davanti a loro, li faccia uscire ed entrare, affinché la Comunità del Signore non sia come un gregge che non ha pastore””.
È questo l’unico passo della Bibbia in cui il Signore viene chiamato Dio degli spiriti di ogni vivente: questa espressione ha fatto pensare che il compito della guida (e di Giosuè in particolare) deve essere quello di trovare il modo perché il suo *spirito* riesca a comunicare con ogni singolo membro della Comunità. La guida deve, per così dire, sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda della Comunità, modulando il proprio intervento a seconda delle situazioni e delle persone: una guida insomma fatta a immagine degli altri pronta a trasformarsi per andare incontro a ogni interlocutore.
D’altra parte, la Bibbia stessa dà un giudizio negativo nei confronti del re Saul che, dopo aver annientato Amalèk, contrariamente agli ordini ricevuti, risparmia il bestiame degli amaleciti e il re Agag, piegandosi alle richieste del popolo. Il profeta Samuele, annunciandogli la perdita del trono, così lo ammonisce (1° Samuele 15:17):
“Samuele disse: “Per quanto tu ti consideri dì non grande importanza, tu sei il capo delle tribù d’Israele, perché il Signore ti ha unto come re d’Israele””.
Tuttavia, i Maestri sconsigliano di assumere un atteggiamento troppo duro:
“Rav Ashì dice: “Ogni studioso della Torà che non è duro come il ferro, non é uno studioso, perché è detto: «Le mie parole sono come il fuoco, e come il martello che frantuma la roccia»… Ma Ravinà diceva: “Anche se ciò è vero, l’uomo deve imparare a comportarsi con dolcezza” (Ta’anìth 4a).
Quando due allievi di Rabbàn Gamlièl, a causa della loro modestia, si rifiutarono di accettare un incarico pubblico che era stato loro affidato dal Maestro, egli li manda a chiamare e dice foro che “non era stato foro offerto il dominio, ma piuttosto la schiavitù”. Per un capo, l’umiltà è una virtù necessaria, ma non sufficiente guidare la collettività non è un privilegio, né uno strumento per dimostrare il proprio dominio sugli altri, ma piuttosto una servitù, un servizio per la collettività. Una guida non devo in alcun caso trarre profitto dalla propria posizione di comando, per godere di privilegi, siano essi piccoli o grandi. Significativa è ad esempio l’interpretazione che dà il Midràsh alle parole di Sansone quando chiede che, per l’ultima volta, gli vengano restituite le forze per combattere i filistei:
“”Signore Dio, ricordami e dammi forza ancora per questa volta”: ricorda a mio favore il fatto che per ventidue anni ho giudicato Israele e non ho detto a nessuno di essi: sposta il mio bastone da un posto all’altro”. Di fronte allo spettacolo che viene purtroppo offerto dalle guide dei popoli oggi, sembrano affermazioni esagerate e ingenue. Ma l’esercizio del potere inizia proprio dalla rinuncia ai piccoli privilegi…
A chi vuole cedere alla tentazione di rifugiarsi nel ricordo delle grandi guide del passato, la Bibbia dà questo insegnamento (Deuteronomio 17:8-1): “Quando ti capitino… questioni controverse nei tuoi tribunali, … ti presenterai… al giudice che sarà in carica in quel tempo e lo interrogherai … Agirai secondo l’insegnamento che ti diranno e secondo la decisione che ti riferiranno; non ti allontanerai dalla decisione che ti avranno detto né a destra né a sinistra“. I Maestri osservano che è ovvio che ci si debba rivolgere ai giudici del proprio tempo e quindi, poiché i giudici erano anche guide politiche, ne traggono questo insegnamento:
“Il Signore che ha mandato Mosè e Aronne… il Signore mandò Yerubbaal e Bedan e Yefte e Samuele” (Samuele 12: 6-11): il Santo, benedetto sia, ha paragonato tre guide semplici come Yerubbaal (cioè Gedeone), Bedan (cioè Sansone) e Yefte a tre guide importanti come Mosè, Aronne e Samuele, per insegnarti che Gedeone nella sua generazione era come Mosè nella propria, Sansone nella sua generazione come Aronne nella sua, e che Yefte nella sua generazione era come Samuele nella propria”.
Ma qual è il rapporto di dipendenza che si crea tra una generazione e i suoi capi? “Rabbì Yehudà Nessìaà e i Maestri discutono: il primo diceva ogni generazione dipende dalla sua guida (dor lefì parnas), gli altri dicevano la guida dipende dalla sua generazione (parnas lefì dorò)” (Talmud ‘Arakhìn 17a).
Insomma, è la guida a doversi adattare alla propria generazione oppure è la generazione che deve adattarsi alla guida che si è data? Si possono creare varie situazioni, anche quella dell’improvvisa comparsa dì una guida che, in una situazione di diffusa corruzione, si impone per liberare una società dai corruttori e dalla decadenza morale. Tuttavia, anche quando la guida risponde al nome di Mosè, si impone la necessità del cambiamento.
Quando il popolo era in procinto di entrare nella Terra Promessa, la Torà narra che Mosè chiese al Signore che gli venisse concesso di portare a termine la sua missione e di poter condurre il popolo al di là del Giordano. In questa richiesta era sottintesa un’altra, quella di vedere rinviato il momento della morte. Di fronte alle insistenti richieste di Mosè, ecco come si sarebbero svolte le cose secondo il Midràsh (Tanchumà Vaetchanàn e Vaielekh Rabbà):
“Il Signore disse: “Questa è la consuetudine: ogni generazione ha le sue guide, ogni generazione ha i suoi capi; finora spettava a te servire al mio cospetto, ma adesso la tua parte è finita ed è arrivata l’ora del tuo allievo Giosuè”. Disse Mosè: “Padrone del mondo! Se io devo morire per fare posto a Giosuè, sarò suo allievo”. E il Signore: “Sia come tu vuoi, va’ e fai pure”.
Di buon mattino Mosè si recò alla tenda dì Giosuè. Giosuè si spaventò e disse: “Oh mio maestro Mosè, vieni presso di me”.
Si incamminarono… ed entrarono nella Tenda della Radunanza. La nube scese e pose una separazione tra di loro… Quando la nube si distaccò, Mosè andò da Giosuè e disse: “Cosa ti ha detto la Parola?” Giosuè gli rispose: “Quando la parola ti si rivelava, tu mi informavi di quanto ti diceva?” In quel momento Mosè gridò e disse: “Meglio mille volte la morte che un solo momento di gelosia””.
Ogni generazione ha bisogno di una nuova guida, magari di livello inferiore, ma che sappia interpretarne i bisogni: se fosse vissuto ai tempi di Giosuè, lo stesso Mosè sarebbe stato inadeguato alle necessità del momento. E questo non per i meriti di Giosuè, ma per i meriti o demeriti della sua generazione.
Il momento del distacco dall’esercizio attivo del potere è, per ogni uomo un momento difficile: l’importante è saper uscire di scena nel momento migliore e con dignità. Lo spettacolo che ci ha offerto in questi giorni il Parlamento è l’ennesima prova di quanto questo non sia affatto facile.
Ma, di fronte alle affermazioni di catastrofismo, un antico e saggio detto giudaico romanesco afferma: morto Mosè, c’è rimasto Dio.
1994