La nuova edizione di saggi “Ebraismo e architettura” – curata da Manuel Orazi per Giuntina – è un distillato dell’universo interiore di Bruno Zevi, architetto, storico ma soprattutto critico, divulgatore dell’architettura e molto altro. La voce della complessa e sfaccettata personalità dell’autore, capace di essere dissacrante, spigoloso, rigoroso, a tratti simpatico, sempre appassionato, vibra in ogni sua pagina. Un libro petit, ma pesante come una pietra miliare, pubblicato la prima volta nel 1993, capace di mettere in circolazione il “sangue”, e accendere lo sguardo su un mondo più intimo, tenuto lungamente in ombra. Il suo ritorno scandisce, come un rintocco di campana, il centenario dalla nascita dell’autore. Un documento importante per capire un grande intellettuale del ‘900, che qui mostra compiutamente i suoi valori come mai prima di allora; lo scrigno segreto che raccoglie gran parte delle battaglie civili combattute da Zevi in prima persona, fino alla fine dei suoi giorni.
Manuel Orazi, raffinato scrittore, storico dell’architettura e giornalista, apre con la sua folgorante introduzione I love Bruno! (citazione mutuata da Frank Gehry che Manuel incontrò nel suo studio a Los Angeles nel 2010), a cui Zevi era legato da un forte sentimento di stima e ammirazione, tanto da dedicargli il suo ultimo editoriale in cui si chiedeva “è ancora impossibile immaginare un’architettura dopo Frank Gehry?” Scrive Orazi “Ebraismo e architettura può̀ essere considerato un risarcimento verso questo lato identitario costitutivo e fondamentale, rimasto a lungo in secondo piano rispetto alle maschere pubbliche che Zevi di volta in volta ha indossato nelle sue infiammate battaglie civili, politiche, culturali, urbanistiche”. Ne emerge una coerenza di fondo: i suoi ideali, l’ebraismo e la sua concezione di cosa sia l’architettura, infatti, sembrano convergere in un’unica direzione.
Zevi partì per studiare prima a Londra e poi negli Stati uniti, dove si unì ai circoli degli esuli antifascisti. Dichiarava di odiare l’accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali, le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli ‘ordini’, i vincoli prospettici… e di apprezzare o subire richiami contraddittori. Dichiarò inoltre di amare i rituali e di non sopportare il conformismo” ci svela Manuel Orazi che, fin da studente, trovava la figura di Zevi molto divertente con le sue idiosincrasie verso le simmetrie e verso autori molto potenti come Sangallo e la setta Sangallesca, Valadier e il neo-classicismo, contro il “detestato” Marcello Piacentini. Tutte queste critiche e le sue profonde idiosincrasie si catalizzano in forti passioni sia in positivo – nei confronti di autori molto amati come Borromini e F.L. Wright – che in negativo, in una flusso di corrente alternata che rende la lettura dell’opera molto gustosa. Zevi si muove in un periodo storico in cui la critica aveva cambiato il proprio modo di esprimersi, mentre nel Novecento gli architetti si affrontavano a viso aperto, criticandosi apertamente, oggi si mostrano tendenzialmente amici tra loro solo in pubblico; in questo contesto leggere le sue pagine cariche di passioni, vive e contrastanti, risulta estremamente amusant.
Zevi apprezzava architetture connotate da irrazionalità, disordine, estraneità al contesto, che esprimevano disagio, irrequietezza, ribellione e dolore. Seguì il “cammino interrotto” dell’architettura organica, senza giungere al suo pieno compimento. In quest’opera l’autoreprende il largo verso la riflessione su valori universali – come dice Manuel Orazi – ontologici fondanti della vita dell’uomo di cui ci consegna una sua lettura personale in relazione all’ebraismo. Nell visione zeviana l’azione di progettare, che va ben al di là del significato racchiuso nel termine architettura, si innesta come carne viva in un ragionamento all’interno del quale – spazio e tempo –diventano metronomo dell’espressione artistica a tutto campo.