Daniel Fishman
Ogni popolo, cultura e civiltà ha tradizionalmente scelto, tra le diverse discipline, quelle che meglio potessero esprimere le sue credenze, i suoi valori, le sue emozioni. Come comunicare la propria concezione dell’identità personale, del rapporto tra gli uomini ed i suoi simili? Come definire i legami tra i singoli e le Autorità o con l’Assoluto? Come manifestare adesione o critica, incutere timore o esprimere odio, dimostrare devozione e rispetto? In tante maniere; dai tatuaggi al rugby, dalla mitologia alle ceramiche, dalla Cerimonia del Tè alle processioni. Ogni scelta espressiva trova sempre una sua spiegazione storica, religiosa, culturale, ambientale.
All’interno del discorso – civiltà-forme espressive scelte – appare evidente un diffuso utilizzo dell’umorismo nella tradizione e nella storia del popolo ebraico.
Non ci riferiamo semplicemente alla constatazione che vi è un significativo numero di umoristi o di comici ebrei, ma al fatto che l’ebraismo, nella sua complessiva chiave interpretativa delle vicende umane, è sembrato creare un terreno particolarmente fertile in questo ambito.
Esaminiamone alcune delle ragioni principali, che ci portano a dire che l’incontro tra l’umorismo e l’ebraismo, non è dunque affatto casuale.
1) L’umorismo ebraico: un fil rouge dall’inizio alla fine della storia
La serietà non coincide con la seriosità. E l’umorismo può essere una cosa seria, perché tutte le tematiche, anche le più difficili, possono essere lette anche attraverso questa chiave di lettura.
Una possibilità che l’ebraismo coglie in pieno, anche nel racconto del Sacro. Già nelle prime pagine della Bibbia, Dio comunica ad Abramo che lui e sua moglie Sara, sterile ed in avanzata età, avranno un figlio. E’ scritto che a questa notizia, la sua reazione e quella di chi li circonda, è quella di una risata scettica.
Alla radice del nome Isacco (Itzhaq), il figlio che nacque loro, c’è infatti la parola zoheq, ridere.
Se questo può essere considerato come “l’inizio della risata nel popolo ebraico”, la sua fine è legata alla realizzazione della promessa messianica, per la quale è scritto che “la nostra bocca alla fine riderà”. In quel momento la iniziale risata scettica di Abramo, dopo secoli di difficili prove che il popolo attraverserà, si tradurrà in un sorriso di allegrezza. In pratica, è come se vi fosse un fil rouge umoristico che lega tutta la storia ebraica.
2) L’umorismo ebraico: una lingua franca
Questo è anche dato da un rapportarsi a Dio con una comunicazione piuttosto diretta. E non solo nei testi scritti. Anche gli scambi verbali sono infatti estremamente franchi.
Nella religione ebraica ci si rivolge al Signore, direttamente, e dandogli, seppur con rispetto e timore, del Tu.
Va poi aggiunto che le preghiere tra il singolo e Dio non sono mediate da un altro essere umano. Il rabbino è uno che sa, non uno che filtra o interpreta o trasmette. Al pari del you inglese, in ebraico non ci sono le garbate formule del Lei e del Voi, e in Israele, ci si dà tutti e solo del Tu, dal doganiere al primo ministro.
Questo favorisce il superamento di molti tabù espressivi. E spiega come ci si abitui a parlare di tutti gli argomenti anche con una certa libertà.
3) L’umorismo ebraico: un’attitudine mentale
Chiunque abbia visto una pagina del Talmud, l’imponente trattato di commento alla Bibbia, ne riconosce immediatamente la particolare stesura ed impaginazione.
Si tratta di un insieme di trattati, divisi per diverse tematiche. E in ogni pagina è presentato un sotto-tema, uno sviluppo, una domanda, una problematica. A questa viene data risposta con una serie di interventi di diversi commentatori e rabbini. I responsa sono collocati e stampati tutti intorno alla tematica di partenza. E’ come se si trattasse di una rappresentazione, anche grafica, del fatto che nell’ebraismo non esiste LA risposta ma un insieme di risposte, e che LA verità è la somma di diverse considerazioni e pareri. Tutti con uguale validità. Può anche essere che in un determinato secolo e su un certo tema prevalga l’opinione di un saggio piuttosto che quella di un altro. Ma nel Talmud rimangono i pareri di tutti, e di ognuno secondo la propria visuale, ottica, punto di osservazione.
Questa attitudine mentale a vedere uno stesso testo, un avvenimento, un problema, da tutti i punti di vista, e a non considerarne uno meno serio di un altro, ci suggerisce come nell’ebraismo ci si sia abituati a vedere le cose da tutti i punti di vista, anche considerando il sottosopra, o l’angolazione apparentemente più paradossale. E il paradosso, la stranezza, il “ribaltamento dei ruoli e delle situazioni” sono appunto architravi dell’umorismo.
4) L’umorismo ebraico: un’attitudine del cuore
All’attitudine mentale a vedere il mondo in diverse maniere, si accompagna anche l’impostazione ebraica ad avere una corretta interpretazione dei propri sentimenti nei confronti degli altri.
Nei Pirqè Avot, le Massime dei Padri, si trova un chiaro invito rivolto all’uomo perché questi accolga la vita e gli altri, con il sorriso, letteralmente – besever panim iafot -, con un volto bello e sereno.
E a vedere la vita – belev tov – con cuore buono.
Buber e Levinas, due filosofi Ebrei del ‘900, hanno dato un importante contributo a questo approccio positivo delle relazioni umane.
– To feel good -, – To Think Positive -, per dirla con termini di comunicazione moderna, ma se vogliamo già gli Zoroastriani, antica civiltà pre-monoteista, invitava i propri adepti a – agire bene, pensare bene, parlare bene -. Perché un atteggiamento positivo provoca come per un processo di contaminazione, conseguenze positive sulle persone e le situazioni che ci circondano, e questo si riverbera infine anche su noi stessi.
I medici spiegano come chimicamente il riso faccia buon sangue.
Ed essere sani e felici, è più di invito nella Bibbia. E’ un ordine. Per Sukkoth, la Festa delle Capanne, questo invito è addirittura triplice. Il paradosso è che questa sensazione di gioia non è lasciata solo ad un sentimento soggettivo ma è in qualche modo “obbligata” e cioè anche se a uno “gli rode” deve “essere felice”!
E gli conviene ubbidire e fare le cose per bene. Nel Deuteronomio (cap. 28 – verso 47) è detto esplicitamente che le punizioni che vengono inflitte sono la conseguenza per non aver servito il Signore con gioia e felicità di cuore.
5) L’umorismo ebraico: un anticorpo rivoluzionario
– Dio ha detto agli Ebrei: “Voi siete il popolo eletto… “ – “Mmmh, a mio parere, c’è bisogno di un ballottaggio” – (Woody Allen)
L’umorismo è diventato un modo per reggere le importanti responsabilità storiche che “pesano” sul popolo ebraico stemperando e rendendo così accettabili le prove e le difficoltà di questo compito.
Rispetto alla grande responsabilità di diffondere il monoteismo ma di rimanere umili, del “crescere e moltiplicarsi” ma di sapere essere “pochi tra i tanti”, l’umorismo è una forma di anticorpo che permette agli Ebrei di non “esagerare” e di non “prendersi troppo sul serio”. E’ infatti estremamente facile e pericolosa la tentazione di pensare di avere una “Missione Assoluta”, di essere gli “eletti” e dunque di avere più diritti degli altri. L’umorismo serve anche a ricordare agli Ebrei che la loro elezione – è fatta innanzitutto di doveri. E in una religione, che non ha LA figura umana unica di riferimento per tutti, che con il Giubileo rimette averi e possedimenti in gioco, non sorprende la forza rivoluzionaria di – una risata che può seppellire – per riferirsi ad un azzeccato slogan del ’68. Ridere per mettersi in discussione, per non dare niente di scontato, neanche quelli che appaiono essere diritti, averi e privilegi già acquisiti.
Non a caso sono spesso proprio gli “ultimi della società” a presentare le migliori verità. Pensiamo per esempio a diverse figure letterarie e a diverse forme espressive; dai Wiz, i motti di spirito degli Ebrei dell’est Europa alle storielle midrashiche, agli esempi di saggia ironia del mendicante schnorrer, alle “pazze verità” di Gimpel l’idiota, o ancora alle “pierinate” di Djohà tipiche dell’area Mediterranea.
Perché in fondo il vantaggio di essere intelligenti è che si può sempre anche fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile.
6) L’umorismo ebraico: una lingua per non farsi capire
Le prime cinque spiegazioni finora date sono sicuramente utili per capire in termini generali come mai vi sia una inclinazione ebraica verso l’umorismo. Ma le vicende storiche del popolo ebraico ne hanno aggiunto delle altre. Se è vero che, come scrive Woody Allen,
il mondo è diviso in buoni e cattivi, e che i primi dormono meglio la notte, e i secondi se la spassano meglio il giorno
è anche vero che nei secoli agli Ebrei è spesso capitato, al di là del loro grado di bontà, di dovere passare qualche notte insonne e di avere anche giornate da incubo.
Secoli di persecuzione hanno dato importanza all’umorismo attraverso lo sviluppo di una straordinaria capacità di sapere ridere delle proprio disgrazie. La risata ha permesso di restare a galla. L’umorismo è servito a definire il rapporto della minoranza ebraica rispetto ad una realtà circostante che a seconda dei momenti l’ha circuita, invitata, minacciata, colpita, integrata.
Le Bolle e gli Editti che determinavano la separazione fisica, culturale, sociale degli Ebrei avevano lo scopo di farne un corpo separato rispetto alla popolazione, in maniera poi da poterne puntare il dito accusatore nei momenti di difficoltà. I ghetti, i pogrom, le vessazioni dei gendarmi, le tassazioni coatte, la richiesta di denunciare i propri simili, i rapimenti dei bambini, i roghi dei libri e a volte delle persone; verrebbe da piangere. E invece anche su queste tragedie vi sono state elaborazioni umoristiche.
L’umorismo aiuta a creare uno spazio di difesa. Collegato alle proprie tradizioni. Queste ultime nessuno poteva prenderle. Anche attraverso lo sviluppo di linguaggi per “capirci tra di noi”, o “per potere esprimere liberamente i nostri sentimenti e le nostre difficoltà”. Non sorprende così che le parlate ed i dialetti giudaici sviluppatisi in diversi secoli e paesi (lo Yiddish, il ladino, ma anche i tanti dialetti ebraici italiani) hanno prodotto tantissime opere di carattere umoristico.
Ridere, se necessario per difendersi dagli altri, ma anche da sé stessi, per esorcizzare i propri tic e le proprie paure. In questo, dimostrando una capacità di vivere contemporaneamente da insiders e outsider, di essere dentro la società ma con una ottica disincantata e scettica. Un aspetto psicologico e culturale che, rielaborato nei meccanismi dello spettacolo, si è poi declinato in epoca moderna nel genere “tragicomico”, e di cui il primo grande personaggio cinematografico fu l’attore Charlie Chaplin.
E che ha nel film “Train de Vie” anche un ultimo straordinario esempio di lettura umoristica perfino della tragedia dello Shoà.
Succede così che l’umorismo è diventato un abito mentale degli Ebrei. Che si applica sia alle cose concrete di tutti i giorni che ai grandi temi che la religione propone. E a volte a tutti e due.
“Ho 12 anni. Vado alla sinagoga.
Chiedo al rabbino qual è il significato della vita.
Lui mi dice qual è il significato della vita.
Ma me lo dice in ebraico. Io non lo capisco, l’ebraico.
Lui chiede 600 dollari per darmi lezioni di ebraico”
Daniel Fishman – Rivista Kos S. Raffaele