Quando tutto è relativo, il male non esiste e trionfa l’antisemitismo
Lucetta Scaraffia
Forse anche questo libro sarà un successo stratosferico, milioni di copie vendute, traduzioni in tutte le lingue. E a una prima occhiata, sembra accattivante, con quel suo rimandare ironicamente a un feuilleton anche nelle illustrazioni, di puro stile popolare ottocentesco. Ma appena ci si immerge nella lettura, ecco la delusione. Il romanzo che Umberto Eco ha appena pubblicato (Il cimitero di Praga, Milano, Bompiani, 2010, pagine 526, euro 19,50) è noioso, farraginoso, di difficilissima lettura. Perfino per una persona come me, che forse capisce i suoi riferimenti storici.
Del feuilleton non ha la trama avvincente, i personaggi appassionanti, l’intreccio abile da cui non ci si riesce a staccare. Su un unico personaggio, il goffo e antipatico Simone Simonini — il solo inventato del romanzo, spiega Eco — cade il peso di quasi tutti i complotti dell’Ottocento, almeno dei più noti. Simonini, notaio torinese nipote di un ammiratore del gesuita Barruel e figlio di un patriota mazziniano, si rivela precocemente abile nella creazione di documenti falsi, e dai testamenti passa rapidamente allo spionaggio: prima a favore del re di Sardegna, tallonando i Mille in Sicilia dove architetta, forse con un eccesso di zelo, la morte per naufragio di Ippolito Nievo che portava a Torino la documentazione economica dell’impresa. Poi a Parigi, in contatto con i servizi dell’Impero, che si prolungano senza soluzione di continuità in quelli della Repubblica.
Simonini non solo obbedisce alle richieste che gli vengono fatte, ma è lui stesso fervido di fantasia e avido di soldi: il suo obiettivo è quello di costruire documenti falsi che si possano vendere al numero più alto possibile di acquirenti. È così che entrano in scena gli ebrei, odiati a destra e a sinistra, dai cattolici e in certi casi perfino dai massoni. Il nostro eroe collaborerà quindi a incastrare Dreyfus con un documento naturalmente falso, e contribuirà in varie fasi a costruire quel manoscritto che sarà poi noto come I protocolli dei Savi di Sion. Tutto questo passando da fetide cloache, inverosimili delitti, e intrecciando a questo massiccio plot i personaggi più discutibili del secolo: il massone traditore poi pentito Taxil, il prete fondatore di una setta satanica Boullan. Diciamo la verità, sul piano della morbosità Eco non si è negato niente:la descrizione della messa nera è un perfetto esempio di banalità già lette o viste al cinema centinaia di volte, e così è priva di verosimiglianza la freddezza omicida del protagonista.
La debolezza della natura umana, infallibilmente orientata al male, appare in tutti. In tanto orrore sembra impossibile credere che gli ebrei non siano i vampiri della finanza mondiale che ordiscono complotti, sembra impossibile pensare che esistano esseri umani non coinvolti con le più orride bassezze, pronti a tradire e a vendersi per un pugno di monete, per un pranzo succulento in un ristorante di lusso. Naturalmente i cattolici, nel ruolo di persecutori — soprattutto i gesuiti, che sarebbero adusi a ogni bassezza — sono rappresentati come caricature mostruose, e non mancano neppure riferimenti ai pontefici, che rifulgono per stupidità e ottusa opposizione a tutto ciò che osi far pensare al progresso. Non si può però accusare Eco di una speciale antipatia verso la Chiesa: tutti coloro che compaiono, a vario titolo, nel romanzo, sono orrendi, sporchi e compromessi con il male. Anche i mazziniani, i socialisti, i repubblicani, i massoni. Il risultato è un libro pesante, in cui l’esilità della trama non riesce a sostenere il macigno di troppi complotti. Eco chiede di identificarci con un protagonista insensibile, privo di sentimenti e di morale, la cui unica nota umana sembra essere la golosità, e di appassionarci alle sue contorte vicende. Grave errore per un aspirante scrittore di feuilleton.
Ma forse anche il feuilleton è un falso obiettivo: il lettore ha la sensazione — già provata del resto in altri romanzi di Eco — che all’autore non importi nulla di interessare, far riflettere e magari commuovere, perché il suo unico intento è fare sfoggio di una sterminata erudizione storico-letteraria e dare prova di abilità intellettuale nel mettere insieme dei pezzi di storia con episodi inventati. Niente di più lontano dalla genuina passione dello scrittore di feuilleton, dal suo amore per alcuni personaggi nei quali far identificare il lettore fin dalle prime righe, e soprattutto nessuna battaglia fra bene e male che, pur cambiando veste a seconda dello scrittore, è sempre il motore della trama. E qui sta il punto più debole del romanzo: denunciare l’antisemitismo mettendosi nella parte degli antisemiti non serve a smascherarli ma solo a suscitare un crescente disgusto per la narrazione. Del resto, smascherati gli antisemiti lo sono già, e da decenni, dalla storia: Eco saccheggia infatti il bel libro di Norman Cohn — questo sì di lettura avvincente come un romanzo — che ricostruisce minuziosamente la storia della fabbricazione dei Protocolli.
Che senso ha, allora, questa ricostruzione che già è stata fatta? Non si può negare, invece, che le continue descrizioni della perfidia degli ebrei facciano nascere un sospetto di ambiguità, certo non voluta da Eco ma aleggiante in tutte le pagine del libro. A forza di leggere cose disgustose sugli ebrei, il lettore rimane come sporcato da questo vaneggiare antisemita, ed è perfino possibile che qualcuno pensi che forse c’è qualcosa di vero se tutti, proprio tutti, i personaggi paiono certi di queste nefandezze. C’è un solo commento che dà un po’ di spessore storico all’ostilità ottocentesca della Chiesa verso gli ebrei, quando il protagonista li accusa di essere nemici di ogni religione: è proprio l’assimilazione veloce e ben riuscita degli ebrei nei paesi dell’Europa occidentale, che nella maggior parte dei casi comporta un abbandono della religione originaria, a farli temere dalla Chiesa come un esempio di secolarizzazione per la borghesia di matrice cristiana. Anche se agli occhi di Eco si tratterà certo di una osservazione banale, la lettura di questo romanzo fa pensare che quando si evoca il male — almeno nella narrativa popolare che l’autore arieggia — bisogna subito affiancargli il bene che lo combatte, altrimenti si rimane coinvolti nel fango e si fatica a uscirne.
La sua ricostruzione del male senza condanna, senza eroi positivi con cui identificarsi, acquista una parvenza di voyeurismo amorale, in cui ci si può impantanare. E alla fine l’obiettivo del libro si riduce a una affermazione politicamente corretta: «Ora il senso dell’identità si fonda sull’odio, sull’odio per chi non è identico. Bisogna coltivare l’odio come passione civile. Il nemico è l’amico dei popoli. Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala».
Osservatore Romano, 30 ottobre 2010
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