Paolo Brera
Nella città dove è sepolto il rabbino Nachman 40mila ortodossi da tutto il mondo. Un pellegrinaggio bloccato dal Covid, non dalla guerra. Reportage
UMAN — Li fermò il Coronavirus, ma la guerra no. Sono qui da tutto il mondo, almeno 40mila ebrei ortodossi chassidici coi riccioloni lungo le tempie, in testa lo shtreiml di martora e «shana tova umetuka!», ti auguro un anno buono e dolce. Cantano pregando e ringraziando Dio per il profumo dei sacchetti di cannella, per l’effluvio delizioso della salvia e della menta che annusano attorcigliate in mazzetti. Sciamano in processione verso il santuario dello tzaddik Nachman, “il giusto” morto qui a Uman nel 1810 e sepolto in questa sinagoga squinternata in cui oggi entrano solo i maschi.
Parlava con Dio, rabbi Nachman, «come si parla con un amico», e in questo mondo che ha creduto nel secolarismo e si è ritrovato in decadenza e in guerra il suo messaggio arriva alle anime dei pellegrini. Risalgono il loro fiume costi quel che costi, come i salmoni sui ruscelli gelidi del Canada tra le zampate degli orsi. L’allarme areo? «Non importa. È qui che devi essere — dice Avraham Nahman, 32enne israeliano del Golan — e vengo da 26 anni». Dicono che il rabbino Nachman, venerato come santo, chiedesse di raggiungerlo almeno una volta nella vita; loro tornano come metronomi per il capodanno, Rosh Hashanah, che cambia come la nostra Pasqua ed è finito ieri. Inizia l’anno 5784. «Vieni alla festa, stanotte, ti divertirai. Balleremo, ci sarà musica, sarà fantastico», dice Bernie di New York.
Sono arrivati a Uman, a mezza via tra Odessa e Kiev, come si va a Lourdes o alla Mecca, in pellegrinaggio nel luogo in cui ogni ortodosso chassidico — corrente slava nata nel XVIII secolo tra gli ashkenaziti — sogna di essere. Qui è la tomba del rabbino, non hanno paura di entrare in un paese in guerra da 19 mesi coi cappelli neri e le Kippah a zuccotto, le tuniche bianche tallit katan e i cappotti neri anche se c’è il sole, col nastro bianco e blu del ptil tekhelet, «azzurro come il cielo e bianco come lana di pecora», dice Israel, elettricista 24enne di Gerusalemme.
E allora eccoli nella città sventrata da un missile russo il 28 aprile: si mangiò i piani alti di un condominio, 23 morti. Ti danno tre minuti per capirli, tra sorrisi e strette di mano; poi via sulla loro strada, la Puskin che ora si chiama “via del Turismo” perché in ucraina quello che era russo non c’è più. «Spendo tremila dollari di affitto, siamo dieci per 4 giorni e venti anni fa pagavo 7 dollari», dice Eial, preside in Israele. È una tale invasione che gli ucraini hanno imparato a fare la cresta: «Quanto costa l’avocado?» chiede il giornalista ucraino alla commessa. «Prezzo ucraino o per gli ebrei?», replica. «Quasi tutto il quartiere è stato comprato — dice Naomi Leibi, 53enne di origini marocchine, occhi verdi «e 14 figli», «40 nipotini» e una vita un po’ in Israele e un po’ qui. «Ogni volta affittiamo lo stesso appartamento dalla stessa signora che vive in Italia. Sono venuta 35 anni fa, ogni anno torniamo cinque o sei volte nelle feste religiose. Io resto in casa per non stare tra gli uomini, ma ero stanca del balcone e sono scesa. Ho finito ora di cucinare per tutti».
Si mangia ogni dieci metri, stufato di patate o carne grigliata, pastasciutta e vassoi di frutta. Ecco la parete delle bibite coi rubinetti che erogano tè caldo e caffè, latte e zucchero e qui c’è il cesto dei biscotti. Non si paga nulla, a sinistra è «riservato per gli uomini, le donne di fronte» ma le donne mica ci sono. «Le cose cambiano ma ci vuole tempo — dice ancora Bernie — vengo quasi sempre con mia moglie. Ci siamo trasferiti con tre figli due settimane fa da New York a Israele, un sogno. La prima volta venni per divertirmi, avrai sentito le voci che si beve e ci sono droghe… mi ha cambiato dentro, mi sono disintossicato».
Lì una sinagoga di stracci, una enorme è un moncone di edificio col tetto di lamiera; sono strutture temporanee, affollatissime, banchi con le torah e preghiere, «puoi entrare anche se non sei ebreo, non ti preoccupare». Crocicchi di ebrei dondolano con la torah in mano, recitando chissà cosa rivolti a un muro. Nel parking riadattato ci sono tavolate con cento sedie, si mangia e si prega e si canta. Aron suona lo shofar, il corno d’ariete, tra ragazzi e bambini, ispirato come alla Carnagie Hall anche se sono suoni ripetitivi, disarmonici.
Al santuario del rabbi Nachman c’è uno striscione: «Preghiamo per la pace in Ucraina». «Siamo venuti in preghiera, non per la politica», dice Itshak quando gli chiediamo un commento. «Paura delle bombe? Ma no, la guerra è lontana e poi Putin farà attenzione», dice monsieur Tal, 59 anni, di Antibes. Dorme all’albergo Domit, vicino alla sinagoga francese, con più di 400 francesi. «Questo è un altro mondo. Se ascolti le parole del rabbino sarai così affascinato che vorrai entrarci dentro. È la pillola rossa del film Matrix, ti fa vedere la realtà dentro la nostra anima. Fossimo tutti lì dentro, non ci sarebbero mica le guerre».
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