Tzedakà e Mishpàt – Aron Barth
Gli ebrei hanno sempre dato Tzedakà in proporzioni molto più elevate di quello che si immaginerebbe dall’entità della popolazione. Secondo il Talmud10, l’atto di dare Tzedakà è parte essenziale del carattere ebraico (non che i non-ebrei non siano caritatevoli, ma è comunque propria dell’indole ebraica). L’U.J.A, la Federazione degli ebrei americani che coordina le opere di Tzedakà, è una delle più grandi organizzazioni di beneficienza negli Stati Uniti, se non la più grande in assoluto, malgrado il fatto che gli ebrei rappresentino meno del due per cento della popolazione americana. Rispetto ad altri gruppi gli ebrei danno in Tzedakà in proporzione maggiore in rapporto al loro reddito. Questo sradica la nozione che gli ebrei donano in grandi quantità solo per via di una loro presunta ricchezza.
Perché dovrebbe essere così? Perché questa mizvà è così importante da essere parte fondamentale del carattere dell’ebreo? Per quale motivo una persona qualsiasi, e particolarmente quelli che appartengono alla cosiddetta “me generation” degli ultimi anni, caratterizzati da una forte spinta egoistica, dovrebbero dare ad altri una parte del proprio denaro, guadagnato con il sudore della fronte? Oltre a queste domande generali, ci sono altre problematiche, più pragmatiche, da discutere a proposito della Tzedakà, perché molti ebrei, per quanto siano caritatevoli, non ne sono al corrente. Per esempio, a quali organizzazioni bisogna dare priorità nel dare Tzedakà? Qual è il metodo migliore? Proprio perché la Tzedakà è così importante nell’ebraismo, le fonti ne hanno discusso a lungo.
L’importanza della Tzedakà
Non a caso, gli ebrei hanno sempre dato un significato particolare a questa mizvà, cosa che si vede chiaramente con un’analisi delle fonti. Per esempio, secondo il Talmud11, la Tzedakà è la forza più forte nel mondo, capace di prevalere su tutte le altre. Nell’opinione di Maimonide12, questa mizvà è più importante di tutte le altre mizvot (positive) e aggiunge che dovremmo stare molto attenti a metterla in pratica in modo corretto. Spiega poi che la Tzedakà è il simbolo del primo ebreo, Abramo, e che è stata tramandata da allora a tutte le generazioni. Chiunque non adempia a questa mizvà di Tzedakà viene chiamato peccatore e persona malvagia.13Secondo il Talmud14, è meglio dare Tzedakà che portare tutti i sacrifici del Tempio, affermazione questa basata sul verso15 che dice specificamente che si preferisce la Tzedakà ai sacrifici.
Tzedakà è una delle tre azioni dell’uomo che possono rovesciare un decreto sfavorevole16, affermazione basata sul verso17 che dice che la Tzedakà ha il potere di salvare una persona anche dalla morte. Dice anche il Talmud18 che la Tzedakà è pari a tutte le altre mizvot messe insieme. Nel Talmud è anche scritto 19 che ogni volta che una persona dà Tzedakà, è come se avesse ricevuto personalmente la Presenza Divina, e che la Tzedakà aiuta a portare la redenzione.
La Tzedakà è unica in quanto è la sola mizvà che si possa fare ponendo una condizione. Un ebreo non può dire, per esempio, osserverò lo Shabbat, ma solo se avrò un certo lavoro, perché l’osservanza dello Shabbat è un obbligo per tutti gli ebrei. Ma può benissimo dire, darò questa certa somma in Tzedakà se otterrò un certo lavoro (o qualsiasi altra condizione); poi, nel caso che non ottenga il lavoro, non sarà tenuto a dare quella somma. Certo, esiste una quantità minima di Tzedakà che tutti sono obbligati a dare, ma oltre a questo minimo, si può porre delle condizioni per farla, e questo appunto non ha un parallelo in tutto l’ebraismo.
Il gabbai di Tzedakà (la persona incaricata a gestire la Tzedakàdella comunità) viene paragonata alle stelle.20 Il Maharshà 21spiega il paragone dicendo che così come le stelle hanno un’influenza sul mondo, anche se non le si vedono sempre, così pure colui che distribuisce Tzedakà è come un insegnante che ha un impatto sul mondo anche se raramente si riesce a rendersene conto. Si può comprendere in queste categorie tutti coloro che, senza essere visti, danno Tzedakà di un certo livello, cambiando il mondo in meglio e incidendo su di esso per molto tempo dopo la fine dell’atto iniziale di Tzedakà, con una forza duratura. Forse, è in questo senso che possiamo interpretare il fatto che la Tzedakàsalva l’uomo dalla morte: chi la riceve, in quanto rimane in vita per l’influenza che ha avuto la Tzedakà; il donatore in quanto può veramente diventare “immortale” poichè l’effetto della sua Tzedakà perdura dopo che cessa la vita fisica. Rashi22 allude proprio a questo quando dice che gli atti buoni dei giusti sono eterni perché continuano a rappresentare una persona anche dopo la morte.
La Tzedakà ebraica non è la carità cristiana
Si potrebbero anche scambiare le due parole Tzedakà e carità, e a chi non ha dimestichezza né con la parola ebraica né con i concetti di Tzedakà, potrebbero sembrare uguali. In realtà i due termini sono molto diversi, non solo dal punto di vista psicologico, ma anche da quello filosofico. E’ sufficiente fare un’analisi delle due parole per rendersi conto delle grandi differenze. La parola carità viene dalla parola latina caritas, che vuol dire amore, benevolenza; la parola filantropia deriva dalla parola greca philo, che vuol dire amore, e anthropos che vuol dire uomo. Così, filantropia vuol dire l’amore per l’uomo. In questo modo scopriamo che la base non-ebraica o cristiana di carità è l’amore: solo quando sento amore e compassione per l’altro, faccio la carità.
La parola Tzedakà viene dalla parola ebraica zedek, che vuol dire giustizia23 oppure la cosa giusta da fare.24 L’ebreo allora è obbligato a dare Tzedakà perché è la cosa giusta da fare, non perché ha un sentimento particolare per il destinatario.
Una differenza di approccio può essere vista nell’obbligatorietà che ha un ebreo a dare Tzedakà anche a un mendicante puzzolente, imprecante, offensivo che esige la carità, anche se non si prova amore e compassione.25
Da dove deriva quest’obbligo ebraico di dare Tzedakà? Perchél’ebreo non può dire, se quella persona impreca, non darò un premio per un simile comportamento? Perché l’ebreo non può dire, ho lavorato per i miei soldi e anche egli dovrebbe lavorare per i suoi? Una risposta è che prima di tutto, i soldi non gli appartengono. Il Signore dice chiaramente26 che tutti i soldi, l’oro e l’argento del mondo appartengono a Lui, e non all’uomo. Dice il Salmista27 che nel mondo tutto appartiene a Dio, alludendo al fatto che nulla appartiene all’uomo. Nell’atto di dare Tzedakà, dunque, l’ebreo restituisce a Dio ciò che è già Suo. La Mishnah ci insegna precisamente questo,28 basandosi su un verso del libro delle Cronache.29 Poiché il mondo già Gli appartiene, Egli ci dice di restituirne una piccola parte, dopodiché possiamo utilizzare il resto, che ancora Gli appartiene. Abbiamo l’obbligo di dare danaro, dunque, proprio perché non è nostro, e Dio ci impone di darne il 10 o il 20 per cento in Tzedakà. come condizione per tenere il rimanente 80 o 90 per cento. E’ per questo motivo che alcuni ebrei aprono dei conti correnti bancari di Tzedakà, dove, prima di versare il denaro nel conto corrente personale, depositano una percentuale del proprio reddito. Oltre al vantaggio psicologico (la persona non sente di dover prendere i soldi dalla propria tasca), anche dal punto di vista filosofico, questo è il modo più corretto di comportarsi, in quanto i soldi non appartengono mai alla persona. Possiamo capire adesso perché un ebreo deve dare Tzedakà a quella persona sciatta, imprecante, malgrado i propri sentimenti: Dio, il padrone di tutto e quindi anche delle nostre ricchezze ci ha ordinato di dare. L’Abarbanel30 dice che dobbiamo considerare il nostro ruolo come quello di un intermediario che gestisce i soldi altrui. Quando il nostro lavoro consiste nell’usare i fondi di un altro, dobbiamo stare molto attenti ogni volta che decidiamo come investire e spendere i soldi. Se il proprietario ci ordina di investirli in un certo modo, dobbiamo obbedire alla richiesta, altrimenti il proprietario ci toglierà il danaro per darlo a un altro intermediario. La ricchezza che il Signore elargisce deve essere investita in parte in Tzedakà., altrimenti Egli potrebbe servirsi di un altro intermediario.
Questo si può comprendere se accettiamo la premessa iniziale, ma si può anche metterla in discussione: Perché infatti, i soldi non appartengono alla persona? Tutto il mondo funziona come se il denaro fosse di proprietà dell’individuo che lo possiede, e anche nella legge ebraica, una persona non può rubare al compagno, affermando che il denaro appartiene a Dio. Allora, se una persona lavora per ottenere il proprio salario, perché questo non è suo, tanto da poterne fare ciò che vuole? Per capirlo, dobbiamo individuare perché e come una persona guadagna il suo stipendio dal punto di vista ebraico. Ci sono solo tre modi per ottenere i soldi con mezzi legali: o il denaro proviene dal duro lavoro, o dalla fortuna, come per esempio una lotteria, oppure da un eredità o da un regalo. Se una persona lavora sodo per il suo denaro, è facile dire che sia stato ottenuto per il duro lavoro, ma tutti noi conosciamo persone che lavorano tanto o più degli altri e guadagnano comunque molto poco. Perché una persona laboriosa può accumulare grande ricchezza, mentre un’altra non ci riesce? Allora non è solo il lavoro stesso, la fatica, che fa guadagnare grandi quantità di soldi. L’individuo ricco è stato dotato di più talento, un fiuto più acuto per gli affari, l’abilità di correre più veloce con una palla o un’intelligenza più grande, dandogli un vantaggio che gli fa guadagnare di più. Secondo l’ebraismo, questi talenti vengono dal Signore, e mentre è vero che senza il duro lavoro, gli uomini non avrebbero potuto sviluppare questi talenti, il lavoro da solo sarebbe inutile per accumulare soldi. Così, secondo l’ebraismo anche i soldi ottenuti in questo modo appartengono a Dio.
E mentre generalmente la persona che vince una lotteria che si trova “nel posto giusto al momento giusto” si ritiene sia stata toccata dal caso, per l’ebraismo il caso non esiste. Secondo l’ebraismo Dio, per qualche ragione sconosciuta, voleva che questa persona avesse dei soldi, quindi, ancora una volta, il denaro risale alla volontà di Dio. Infine, un’eredità o un regalo differiscono poco dalle situazioni precedenti perché o è stato guadagnato attraverso il talento (e il duro lavoro) o era dovuto alla “fortuna”. Così tutto il denaro accumulato in questo modo è dovuto, in qualche modo, a Dio. Quando Egli ci chiede, dunque, di restituire il 10 o il 20 per cento dei soldi, abbiamo qualcosa di più di un obbligo morale: abbiamo un obbligo legale, perché in pratica Gli appartengono.
Perché ci sono i poveri?
Se è vero che il Signore vuole che i soldi guadagnati vadano ai poveri, perché non ha fatto in modo che essi avessero dei soldi sin dall’inizio? Perché esistono i poveri? Sarebbe un mondo migliore, senza così tanta sofferenza. Il malvagio Turnus Rufus ha fatto propria questa domanda31 e la risposta è che Dio vuole fare di noi i Suoi emissari nel mondo. Una parte della missione dell’uomo è di continuare la creazione iniziata da Dio. Rabbì Akivà ha risposta a questa stessa domanda nel Midrash32, dicendo che questo è il motivo per il quale non ci sono alberi di pane, anche se ogni cultura ne fa uso e sarebbe stato logico per Dio di creare degli alberi di pane. Dio vuole che l’uomo lotti e che sia creativo, vivendo il processo arduo che comportano le undici azioni, dall’arare all’infornare, che servono per la produzione del pane. Ecco parte della missione dell’uomo: essere creativo nel mondo e completare la creazione iniziata da Dio. Inoltre, l’uomo ha il compito di migliorare il mondo, di “perfezionare il mondo”.33Parte di questa perfezione ha luogo quando l’uomo tenta di restaurare almeno un po’ l’equilibrio, dando Tzedakà. Così, ora, uno dei versi34 più strani della Torà acquista un senso. Dio dice che “non cesserà di esserci il povero nel mondo”, e che, dunque, l’uomo deve aprire le sue mani e dare. Se la povertà esisterà sempre, perché cercare di dare ai poveri – tanto non aiuterà a risolvere la situazione? Tuttavia, possiamo comprendere ora che Dio ci sta dicendo che, siccome la condizione della povertà nel mondo esisterà sempre, ancheil nostro compito per migliorarlo non cesserà.
Come dare Tzedakà
Per quanto sia importante dare Tzedakà, ancora più importante dell’atto stesso di dare è come la si dà. E’ particolarmente difficile e imbarazzante per una persona chiedere e dipendere da un altro essere per la sua sussistenza. Ecco perché preghiamo il Signore35di non metterci mai in una situazione in cui dobbiamo dipendere dall’uomo, ma solo da Dio. Maimonide dice36 che una persona che si trova a dover chiedere Tzedakà già si sente senza dignità e depressa e quindi bisogna fare del tutto per non compromettere ancora di più la dignità di questa persona. Questo aspetto cruciale della Tzedakà si riflette in tutte le leggi in materia.
L’ottavo gradino di Tzedakà, quello più basso, secondo Maimonide,37 è di dare mostrandosi scuri in volto. Ancora secondo Maimonide,38 si può salire di livello dando meno di quanto richiesto ma con faccia cordiale, cioè è preferibile dare di meno di quello di cui ha bisogno una persona, ma con buon umore, piuttosto che dare la soma intera ma con espressione cupa. L’atteggiamento e il metodo per dare Tzedakà dunque sono più importanti della somma data.
Ogni passo successivo nell’ordine stabilito da Maimonide è una funzione della dignità di chi riceve Tzedakà. E’ molto più dignitoso per il povero sapere chi gli ha dato Tzedakà, purchè il donatore non conosca il destinatario, perché altrimenti sofrirebbe d’imbarazzo ogni volta che incontra il donatore per strada.39Rimane tuttavia un certo grado di vergogna perché il destinatario sarà comunque consapevole della persona che ha dato ogni volta che lo incontra per strada. La situazione crea meno disagio quando il donatore conosce il destinatario, ma il destinatario non sa da chi ha ricevuto Tzedakà perché in questo modo, il bisognoso non si sente in imbarazzo ogni volta che incontra il donatore.40 Rimane sempre però, una piccola misura di ignominia per il povero nel sapere che esiste una persona che sa di averle dato sostenimento. Molto più dignitosa è la situazione in cui né il donatore, né il destinatario si conoscono. Così si evita completamente un imbarazzo specifico e si ha solo l’imbarazzo generale di dover comunque accettare Tzedakà.41 Questo concetto ha dato l’impulso per l’invenzione del bossolo, la scatola di Tzedakà presente in ogni casa, tramite la quale né il donatore, né il destinatario si conosceranno mai.
Secondo Maimonide, il livello più alto di Tzedakà non è la scatola della Tzedakà ma dare alla persona un lavoro o un prestito.42 Per quale motivo questo è preferibile all’elemosina – quando a fine settimana i soldi sono sempre quelli? Perché questo è un metodo superiore di dare Tzedakà? Quando una persona fa un lavoro, si sente produttivo e contribuisce alla società, non riceve da essa. Accettare denaro per un lavoro completato non è per nulla imbarazzante; è un atto di orgoglio, come l’orgoglio provato nel prendere la busta paga. Il fattore dignità nell’accettare questo tipo di soldi è molto alto e dunque il modo migliore di distribuire soldi ai poveri. Nello stesso modo, dare un prestito a una persona segnala la fiducia della banca o di chi dà il prestito che la persona lo ripagherà. E’ segno di rispetto per se stessi ricevere un prestito, in quanto a molti i prestiti vengono negati perché sono considerate soggetti a rischio (E’ un vecchio detto che le banche prestano i soldi solo se si può provare di non averne bisogno). Gli individui che prendono i prestiti più alti sono i più ricchi del mondo, quegli imprenditori che investono in enormi progetti. Dunque, ricevere un prestito piuttosto che l’elemosina fa sì che il beneficiato accresca la fiducia in sé: ecco perchè questo è il livello più alto di Tzedakà. (Naturalmente il prestito va restituito senza interessi).Certo, è anche una forma valida di Tzedakà se si può invogliare una persona a prendere Tzedakà dando un “prestito” senza chiedere di essere ripagati,43 al patto che la persona creda veramente che è un prestito e che la dignità individuale non venga compromessa.
Ci sono molte altre leggi ebraiche che rafforzano il concetto primario che lo scopo della Tzedakà è di preservare o di elevare la dignità della persona. Secondo il Talmud,44 un individuo che soddisfa una persona povera, accogliendola nella giusta forma, riceve una benedizione più grande di uno che soddisfa la stessa persona dandole del denaro. Anche il povero ha l’obbligo di dare Tzedakà.45 Perché? Dopotutto, i suoi soldi sono venuti dalla Tzedakà. Ma si accresce la sua dignità quando lui dà a un altro povero. Tutti hanno un’opinione più alta di sé quando danno piuttosto che quando ricevono. Inoltre, nel dare a un altro individuo, il povero si rende conto che c’è sempre qualcuno che sta peggio, una consapevolezza che aiuta sempre a non far pesare troppo la propria situazione.
Quando, negli Stati Uniti, la gente era costretta a fare la fila per avere l’assegno di sussidio, ci furono molti anziani, ebrei e non-ebrei che rifiutavano questi soldi, pur avendone molto bisogno, semplicemente perchè sentivano negata la loro dignità umana. Per molte persone fare la fila per un sussidio era molto imbarazzante. Un tempo aGerusalemme46 (che aveva anche essa i suoi poveri) vigeva un’usanza che tentava di risolvere questo problema. All’ora di cena, ognuno metteva una “bandierina” sulla propria porta per far vedere che in casa si stava mangiando e i poveri di tutta la città potevano entrare e cenare con le famiglie. Dopo cena le “bandierine” venivano tolte. Anche se è sempre possibile distribuire del cibo organizzando una mensa per i poveri o ricevendoli in maniera discreta dalla porta di servizio delle case, vi è un’enorme differenza fra questi metodi di distribuzione e invitare le persone a cenare insieme alle famiglie. Nessun ospite sente che sta togliendo del cibo al padrone di casa e quando si trattano i poveri come ospiti, la loro dignità non è compromessa. Ancora una volta, non è determinante l’entità della somma, ma la maniera con cui viene data.
Sinora abbiamo discusso della dignità del destinatario della Tzedakà, ma il Talmud47 descrive il modo migliore per dare, e cioè di non dare per niente! E’ meglio convincere un altro a dare Tzedakà, che darla di persona. Ancora una volta, è una questione di dignità personale perché è molto più facile per una persona distribuire i propri soldi che persuadere gli altri che la causa è meritevole. Un individuo che spinge gli altri a contribuire sente la soddisfazione di aver compiuto un’azione importante.
A chi, quanto e quando dare
Nell’Ebraismo c’è un chiaro ordine di priorità riguardante chi deve ricevere la Tzedakà:: il principio fondamentale è che i familiari bisognosi di aiuto hanno la precedenza48; seguono in ordine di priorità i vicini e poi i propri concittadini. I poveri d’Israele e quelli di Gerusalemme in particolare, hanno una priorità speciale, perchè Gerusalemme è considerata come la città natia.49Oggigiorno, un ebreo ha l’obbligo di dare anche ai poveri non-ebrei e alle istituzioni non-ebraiche della sua città.50 I moderni esperti di halakhà discutono sulle priorità da dare ai vari enti. Quando è possibile è chiaramente preferibile dare direttamente a una persona povera, secondo le modalità succitate, piuttosto che alle organizzazioni ebraiche, come la UJA, gli ospedali, le scuole e le sinagoghe, anche se ciascuna di queste istituzioni aiuta individui indigenti.
Quale percentuale del proprio reddito bisogna dare in Tzedakà? Anche se si crede erroneamente che la cifra ottimale sia il 10 per cento, cioè la decima, dal punto di vista ebraico, una persona dovrebbe dare il 20 per cento del proprio reddito in Tzedakà.51 La cifra del 10 per cento è solo per la persona media, ma non è questo il modo per adempiere completamente alla mizvà, mentre la persona che dà meno del 10 per cento di Tzedakà è considerato avaro. Ma come si calcola il 10 per cento, cioè, che cosa viene considerato come il reddito reale? Si possono togliere le tasse? Si può dedurre il mutuo ed altre spese? Quando comincia l’anno fiscale ebraico? Esiste il concetto di media annuale di reddito? Alcuni Maestri di Halakhà discutono sul come adempiere a questa mizvà. Tali discussioni sono molto tecniche, e suonano come le istruzioni del modello 740 e vanno ben oltre i limiti di questa discussione.52
E’ preferibile dare piccole quantità di Tzedakà ogni giorno piuttosto che una somma grande una tantum, anche se le cifre totali sono le stesse, perché ogni atto di Tzedakà è una mizvà in sè, e perché ogni volta che una persona adempie a una mizvà, un nuovo “difensore” di quella persona è creato in cielo.53 Inoltre, ogni mizvà e ogni colpa commessa da un individuo lo precedono nel mondo da venire.54 E, come abbiamo detto prima, ogni volta che una persona dà Tzedakà, la Presenza Divina si posa su di lui.
Si può mai rifiutare di dare Tzedakà a una persona che la chiede?
Purtroppo, anche nella comunità ebraica ci sono stati individui che hanno approfittato della generosità altrui e hanno cercato di defraudare chi dà Tzedakà, affermando di essere bisognosi o di rappresentare organizzazioni inesistenti. Qual è il corretto approccio ebraico verso una persona di cui si ha il sospetto che non sia onesta? Si può rifiutare una donazione a questa persona?
Ancora una volta, la nostra preoccupazione principale dev’essere quella di preservare la dignità di chi ha veramente bisogno. Dice Maimonide55 che una persona non può mai opporre un rifiuto a un povero. Certo, se si è certi che la persona che chiede del denaro sia un imbroglione ci si può rifiutare di dare a questa persona, però, in caso di dubbio, secondo Maimonide,56 se il bisogno è immediato, cioè, se la persona ha bisogno di cibo per sopravvivere, non lo si può mai rifiutare. Ma se il bisogno è meno immediato, come, per esempio, una richiesta di vestiario, lo si può fare aspettare mentre si fanno indagini sul suo conto, senza, però farlo sentire a disagio e in imbarazzo. In pratica, se una persona viene alla porta, si può andare rapidamente nell’altra stanza per fare una telefonata senza che quello se ne accorga. Però, se una simile operazione non è possibile, è preferibile dare Tzedakà, perché è meglio darla a nove individui, sospettati di essere disonesti piuttosto che rifiutarla alla decima che ne ha bisogno. Se regna l’incertezza, non si deve mandare via una persona a mani vuote, come dice Maimonide. Bisogna dire anche che se si dà una somma che viene restituita perché ritenuta insufficiente, si ha comunque adempiuto all’obbligo di Tzedakà e non c’è bisogno di darne altra.
In sintesi, la mizvà della Tzedakà è fondamentale nell’Ebraismo ed è molto complessa e spesso difficile da mettere in pratica. Ciò nonostante, se tutti gli ebrei dovessero seguire l’approccio di Abarbanel e trattare il denaro che guadagnano come se fosse di qualcuno altro, non solo sarebbe più facile adempiere all’obbligo di questa mizvà, ma anche la nostra sensibilità su come utilizzare i fondi in nostro possesso ne trarrebbe un grande beneficio.