I te’amim, i segni che si trovano sopra e sotto le parole della Toràh, svolgono differenti funzioni: indicano come dividere le varie parti dei versetti, evidenziano gli accenti sulle parole e segnalano come cantarle. La musicalità della Toràh è un aspetto non di secondaria importanza, tanto che Moshèh la definisce, nel suo complesso, una cantica (shiràh). L’opera della scuola di Tiberiade, intorno al X sec., esplicita questa predisposizione e la fissa, distinguendo, all’interno dei vari te’amim, fra mesharetim (servitori) e melakhim (re).
Fra tutti i te’amim ce n’è uno che compare con una frequenza notevolmente inferiore rispetto agli altri, shalshelet, che troviamo sole quattro volte in tutta la Toràh, e sette complessivamente, escludendo i libri “emet” (Yov, Mishlè, Tehillim) in tutto il Tanakh. Le situazioni descritte non vengono accomunate tramite le parole, ma tramite la musica. Questo ta’am, che appare tre volte nel libro di Bereshit, e una quarta nella nostra parashàh, denota una condizione di tensione interiore che si protrae nel tempo. Questo è molto evidente le tre volte che lo incontriamo in Bereshit: 1) quando Lot viene portato via da Sodoma, il segno è sulla parola waytamamàh (esitò). Rashì spiega che Lot era molto combattuto, perché abbandonare Sodoma significava lasciare lì tutti i suoi beni e la posizione prestigiosa che aveva raggiunto nella città, anche se gli era evidente che questa stava per essere distrutta; senza l’intervento dei malakhim, Lot non avrebbe assunto una decisione, e sarebbe stato troppo tardi; 2) quando Eli’ezer prega di trovare una moglie di Ytzchaq.
Eli’ezer, che aveva seguito tutta la vita Avraham, si trovava diviso fra il desiderio sincero di individuare la moglie migliore, come poi effettivamente avverrà, e quello di maritarlo con sua figlia, o rimanendo aderenti al senso letterale, se Ytzchaq non avesse trovato moglie, sarebbe stato Eli’ezer, in seconda battuta, ad ereditare i beni della famiglia di Avraham; 3) quando la moglie di Potifar cerca di sedurre Yosef; in quell’occasione nell’animo di Yosef doveva esserci una tempesta, determinata dall’insistenza della donna, tanto che i chakhamim sostengono che solamente la visione del padre Ya’aqov permise a Yosef di resisterle, poiché costei avrebbe potuto condurlo alla libertà; inoltre Yosef doveva trovarsi in una vera e propria crisi d’identità, trovandosi solo e in terra straniera, rifiutato dalla sua famiglia d’origine. Cosa ci sarebbe stato di male a comportarsi come un egiziano? In questi tre casi non bisogna solamente prendere una decisione, ma determinare attraverso le proprie scelte la propria identità, e da qui l’enfasi esplicitata attraverso lo shalshelet. Tutto questo ci rende più difficoltoso comprendere lo shalshelet nella parashàh di Tzaw, che è posto sul termine wayshchat, che in pochi versi compare tre volte con tre te’amim differenti, nell’offerta del secondo dei montoni offerti, quello dei miluim. Con questo sacrificio si concludono le funzioni sacerdotali che Moshèh aveva compiuto durante l’investitura sacerdotale di Aharon e di suoi figli. D’ora in poi Moshèh avrebbe dovuto lasciare spazio al fratello Aharon.
Nel testo non troviamo il minimo accenno a quanto avvenga nell’animo di Moshèh. Non c’è dubbio che Moshèh fosse molto combattuto, perché certamente in assoluto il Mishkan costituiva un bene per Israele, perché il peccato del vitello d’oro era stato perdonato, e questo era sotto gli occhi di tutti, ma d’altra parte attraverso questo sacrificio Moshèh perdeva irrimediabilmente l’opportunità di fungere da Kohen Gadol. Sino a questo momento Aharon aveva aiutato il fratello, ma sempre all’ombra di Moshèh. Ora invece Aharon si ritrova con una responsabilità specifica, e fa delle cose che Moshèh non potrà fare, rappresentando una nuova forma di potere che prima non esisteva, quella del Kohen Gadol, che il giorno di Kippur entrerà nel Qodesh ha-qodashim per espiare i peccati di Israele. Ma i chakhamim (Zevachim 102a) ci dicono di più: nel disegno divino Moshèh doveva essere il Kohen Gadol, e solo il rifiuto iniziale di Moshèh, quando nell’episodio del roveto ardente H. voleva investirlo dell’incarico, determinò che le cose andassero in questo modo. Ma non ci troviamo nel mondo del “sarebbe potuto essere”… forse in quei frangenti Moshèh stava pensando a quanto stava perdendo, e in particolare al fatto che Aharon avrebbe visto i suoi figli ereditare il suo incarico, cosa che Moshèh non farà mai, e per la quale si rammaricherà molto.
Il figlio di un Kohen, sino a prova contraria è un Kohen, che il figlio di un profeta sia profeta a sua volta è possibile, ma di tratta di un fatto assolutamente eccezionale. Moshèh si trova di fronte a realtà molto dolorose: non sarà il Kohen gadol, non condurrà il popolo ebraico in terra d’Israele. Confrontarsi con queste realtà richiede una grande dose di sincerità con se stessi. Il leader non può permettersi di commettere l’errore di sentirsi tutto per tutti. Il leader è anzitutto e principalmente se stesso, e affinché ciò avvenga deve realizzare prima di tutto ciò che non è.