Tempio di via Eupili – Milano
Una delle espressioni dell’ebraico più comune e conosciuta è “lechaim”. Certo, ci sono difficoltà, ma alla fine, concludiamo sempre che vale la pena sopportare i momenti dolorosi per provare i piaceri della vita. La Parashà di questa settimana, Tzav, descrive l’offerta di ringraziamento, il korban todà. Rashi afferma: Un uomo porta un’offerta di ringraziamento (nel Bet haMikdash) quando viene salvato da un potenziale pericolo. Ci sono quattro tipi di persone che offrivano questo korban: I viaggiatori per mare, i viaggiatori del deserto, coloro che sono usciti di prigione e un paziente gravemente malato che si è ripreso. Come dice il versetto nei Tehilim (107:22), “Dovrebbero rendere grazie a D-o per la Sua bontà e per le Sue meraviglie verso l’umanità” (Vayikrà 7:12). In modo interessante, la formula mnemonica per ricordare il gruppo di persone citato da Rashi è CHaYYiM – che significa “vita”, dalle cui lettere si possono comporre le parole Chavush (prigione), Yisurim (malattia), Yam (mare) e Midbar (deserto)] (Shulchan Aruch 219:1). Ai nostri tempi, realizziamo questo concetto quando recitiamo la beracha chiamata haGomel (“Colui che concede favori…”), con la quale ringraziamo D-o per averci salvato da possibili disastri perché desideriamo rimanere in vita.
È curioso notare che dopo aver sentito qualcuno recitare una berachà rispondiamo semplicemente “Amen”, con un’eccezione. Dopo aver sentito una persona recitare la Birkat haGomel, rispondiamo: “Amen, mi sheghemalcha kol tov Hu yigamlcha kol tov sela” – “Colui che ti ha concesso tutto il bene possa continuare a concederti tutto il bene”. Poiché questa lunga risposta non si trova da nessun’altra parte, c’è chiaramente bisogno di una spiegazione. Nella sua introduzione, lo Shalmei Nedarim offre una bella intuizione basata su un affascinante episodio raccontato nel Talmud (Shabbat 53b). La moglie di un uomo povero morì poco dopo il parto. Il pover’uomo non aveva i mezzi per assumere una balia per il suo neonato, ma la vita del bambino fu salvata quando il corpo dell’uomo divenne miracolosamente capace di allattarlo. L’Amorà Rav Yosef ha elogiato l’uomo, dicendo che deve aver avuto grandi meriti per aver visto realizzato un miracolo così eclatante. Abaye, in apparente contrasto, ha osservato quanto fosse disonorevole questa persona che l’ordine della creazione è stato alterato per suo conto. Un miracolo è stato davvero compiuto per suo conto; Tuttavia, è stato eseguito in modo umiliante e sgradevole.. Lo Shalmei Nedarim spiega che l’intento di Abaye non era quello di dire che l’uomo fosse malvagio. Dopotutto, ha meritato uno straordinario miracolo per salvare la vita di suo figlio. Piuttosto, Abaye sottolinea il fatto che il miracolo avesse esaurito così tanti dei suoi meriti, usando, per così dire, molti crediti. Alla luce di questa intuizione, si può dire che la Birkat haGomel che viene recitata dopo che una persona è stata salvata da un potenziale pericolo connota che sebbene siamo felici che chi la recita sia sopravvissuto, temiamo anche che possa aver “speso dei crediti” a scapito dei suoi meriti . Di conseguenza, un semplice “Amen” non sarà sufficiente, e aggiungiamo una formula speciale chiedendo che la sua fortuna continui e non si esaurisca a causa di questo miracolo.
Quasi ogni bambino ebreo sa dire grazie in ebraico: Todà. C’è anche un sacrificio chiamato korban todà, l’offerta di ringraziamento. Il Midrash afferma che in futuro tutti i sacrifici saranno interrotti, ad eccezione dell’offerta di ringraziamento. Ci sarà sempre bisogno di dire grazie a D-o. Rav Yitzchak Hutner osserva che la parola ebraica per ringraziamento è hodaà, e la stessa identica parola significa anche un’ammissione. Non è una coincidenza, spiega Rav Hutner, perchè per ringraziare adeguatamente, una persona deve ammettere che aveva bisogno di aiuto, che non è onnipotente e che colui che sta ringraziando ha fatto qualcosa di importante. L’ammissione è parte integrante del ringraziamento e quindi per entrambi viene usata la stessa parola. Come si fa a sapere, conclude Rav Hutner, se la parola hodaà viene usata per indicare ringraziamento o un diverso tipo di ammissione, come ad esempio un’ammissione di colpa? Osservando la parte del discorso che lo segue: Se a seguire è la preposizione ebraica ‘al, significa “ringraziamento per”.
Nella diciassettesima benedizione dell’ Amidà, diciamo: “Modim anachnu lach” Modim è la forma presente plurale della parola hodaà. È generalmente inteso come la benedizione del ringraziamento. Chiaramente, la benedizione del ringraziamento è incompleta a meno che non inizi con un’ammissione, riconoscendo tutte le cose meravigliose che D-o fa per noi giorno dopo giorno. Quando lo shaliach tzibbur ripete l’Amidà ad alta voce e arriva alla berachà di Modim, la congregazione recita in concomitanza la berahà chiamata Modim deRabbanan. Perché è necessario? Perché lo shaliach tzibbur non può rappresentare la congregazione in questa benedizione come fa in tutte le altre? L’Avudraham spiega che l’Halachà permette di nominare uno shaliach, un inviato, per qualsiasi cosa. Non è però possibile nominare uno shaliach per dire grazie: Quello dobbiamo farlo noi stessi in prima persona.
La Torà, attraverso la mitzvà del korban todà, ci insegna quanto sia importante quella che viene chiamata l’hakarat hatov, il riconoscimento del bene ricevuto. Il ringraziamento ed il riconoscimento del bene espresso attraverso le nostre tefillot serve ad insegnarci quanto questo sia importante non solo verso D-o ma anche verso il prossimo.