La lotta è un’altra
Luigi Manconi
Questa settimana arriverà nell’Aula del Senato il disegno di legge detto “del negazionismo”: il testo prevede la reclusione da 1 a 5 anni per chiunque neghi “l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità”; e fino a sette anni e mezzo per chi istighi a crimini di genocidio o ne faccia apologia. Si crea così una nuova fattispecie di “apologia di delitto”, reato che secondo la Consulta non viola la libertà di espressione se interpretato come applicabile non alla mera “manifestazione di pensiero pura e semplice, ma a quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (sentenza 65/1970).
Si torna così a discutere di un tema cruciale. Era già successo, di recente, a proposito dell’omofobia: accade ora a proposito di quella corrente storiografica, si fa per dire, e di quell’orientamento politico che negano la Shoah. Nell’un caso come nell’altro, per un democratico ben temperato, la sequenza logico-morale sembra non consentire deroghe: il disprezzo per l’omosessualità e il mancato riconoscimento dello sterminio degli ebrei sono intollerabili. Consequenziali la ripulsa e la sanzione per chi se ne faccia attore. Se esaminiamo quella sequenza, scopriremo che l’inevitabilità e l’inappellabilità della punizione risultano tanto più cogenti quanto più è considerato vergognoso l’oltraggio che l’opinione in questione comporta.
Dunque, oggi le tre problematiche “pitù vulnerabili” sono quelle stesse che appaiono più meritevoli di protezione e che, pertanto, più necessitano di un apparato sanzionatorio. Ovvero: la mortificazione di una condizione di minoranza sessuale; la discriminazione verso un’identità etnica; il rifiuto di riconoscere il genocidio degli ebrei. Di fronte a queste tre aree di evidente e insopportabile sensibilità, risulta inevitabile una reazione tesa a “proteggere” le vittime con tutti i mezzi. Succede così che la mancata tutela per legge delle minoranze sessuali, l’ostilità xenofoba correlata ai flussi migratori e, infine, anche un dato di cronaca come la morte di Erich Priebke, possono accelerare la domanda di intervento a protezione di quelle stesse aree sensibili, reclamando soluzioni immediate. Secondo alcuni solo simboliche e declamatorie. E’ forse questo il caso del disegno di legge sul negazionismo.
Esso tuttavia, pur trovando la sua occasionale motivazione nella cronaca più incandescente, ha la sua ragione più profonda nell’orrore cui rimanda. In altre parole, come si può negare la punizione per chi quell’orrore nega? Insomma, ancora una volta, pesa una valutazione tassonomica: un orrore minore potrebbe apparire meno meritevole di essere protetto da chi lo vorrebbe negare: e quest’ultimo risulterebbe meno meritevole di una adeguata sanzione. Qui si rivela, quindi, una prima contraddizione, perché si rischia una sorta di macabra competizione tra diversi livelli di orrore e di relativi gradi di protezione. Ancora più problematica la seconda conseguenza, quella che attiene alla natura della punizione stessa. Ancora una volta, temo, interviene una peculiarità nazionale: quella per cui nella cultura giuridica e nel senso comune sembra si sia rinunciato a elaborare, o anche solo a pensare, una forma di sanzione diversa da quella più primitiva (privazione della vita, privazione della libertà). E’ possibile che non si possa immaginare una forma di contrasto al negazionismo che non ricorra alla sanzione penale e detentiva? E’ possibile che quel contrasto non si affidi alla libertà, fin aspra e fin violenta, della discussione pubblica e, dunque, alla capacità delle buone ragioni di affermarsi su quelle cattive? E, ancora, è possibile che non si possano elaborare sanzioni diverse da quelle previste dal diritto penale?
Una giovane giurista, Federica Resta, valutando come la sanzione penale (oltretutto detentiva) rischi di intervenire su fattispecie che, almeno in certi casi, non rispondono ai criteri di offensività e materialità, in linea con le modifiche previste per il reato di diffamazione, propone una soluzione diversa. Quella di decarcerizzare l’intera fattispecie di apologia di reato e istigazione a delinquere, sostituendo la pena pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità, particolarmente efficace anche sotto il profilo del reinserimento sociale. Ma se queste ultime sono soluzioni normative di possibile mediazione, resta l’interrogativo di fondo che — temo — ci si riproporrà periodicamente. Un interrogativo intrinsecamente moderno, tanto più che il successivo e più ampio sistema di diritti e di garanzie non ha consentito tuttora una risposta definitiva: la libertà di pensiero e di espressione deve incontrare dei limiti? La risposta negativa, in apparenza così immediata e facile, può essere totalmente ribaltata da una speculare domanda: la mia dignità personale può essere sottoposta a qualunque forma di denigrazione?
La Corte costituzionale tedesca, nel 1994, ha affermato essere parte della “personale auto-percezione e dignità [degli ebrei tedeschi] l’essere considerati come appartenenti a un gruppo di persone distinte per il loro destino. Chiunque cerchi di negare [la Shoah] nega a ciascuno di loro il valore personale di cui ha diritto”. Se tutto questo è vero, è probabile che, molto semplicemente, una risposta adeguata e definitiva a quell’interrogativo non possa darsi. E che forse, mai come in questo caso, ci troviamo di fronte a quei crimini che non si possono — scriveva Hannah Arendt — punire né perdonare.
Il Foglio – 22 ottobre 2013