Emilio Jona
La redazione di H.K. a maggioranza ha ritenuto di dover reagire a caldo sulla decisione del Collegio arbitrale sulle vicende tra Rav Somekh e la Comunità di Torino, come avesse un dovere giornalistico di farlo, io e altri pensavamo fosse meglio non avere fretta e seguire i tempi soliti, più lenti e meditati, di H.K. Il 27 maggio scorso sono andato in Comunità a leggere la sentenza arbitrale che ha posto fine a questo doloroso conflitto, ero la dodicesima persona a farlo, così ho pensato che per parlarne era bene conoscerne meglio il contenuto. Lo riassumo quindi nelle sue linee generali, con poche conclusive considerazioni personali.
Si poteva pensare e si è pensato che la posta in gioco fosse quella di un diverso modo di essere ebrei e di concepire l’ebraismo e di un diverso potere dell’istituzione comunitaria a fronte del magistero rabbinico o addirittura di una cancellazione della tradizionale ortodossia dall’ebraismo italiano.
Si è pensato che di questo si fosse discusso e su questo si sia deciso, ma non è così. La Corte arbitrale si è occupa ta di tutt’altro e cioè di un problema, concreto e specifico, quello del rapporto personale, durato 17 anni, che si era stabilito tra un rabbino e la sua Comunità, decidendo che era corretta la decisione del Consiglio della Comunità che esso avesse termine.
La sentenza del Collegio arbitrale si è posta al riguardo anzitutto il problema dell’interpretazione dell’art. 30 2° comma dello statuto dell’UCEI, cioè quello della natura e del contenuto dei “gravi motivi”, previsti da tale arti colo, che giustificano e fondano la revoca di un rabbino, e ha giudicato che lo statuto ha valore halakhico, e che nell’interpretazione della norma in questione ha prevalenza la legge e la tradizione ebraica, contemperate dai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, osservando che l’equità e la ragionevolezza, con i loro presupposti di solidarietà e responsabilità della persona, sono anche principi fondamentali della halakhà.
Partendo da questa premessa il Collegio ha disposto che l’esame del merito fosse “il più approfondito ed esauriente possibile nell’interesse delle parti e dello stesso ebraismo”. Quindi ha esaminato una fitta serie di eccezioni pre giudiziali di natura formale sollevate dalla difesa di Rav Somekh, sulla legittimità delle produzioni documentali della Comunità, sulle possibilità o meno di esaminare fatti attinenti a periodi antecedenti a quello del Consiglio in carica, su pretesi ulteriori analoghi limiti temporali nell’ambito dello stesso consiglio, sulle maggioranze più o meno qualificate con cui dovevano essere assunte determinate deliberazioni precedenti, ma collegate a quella di revoca, sul carattere consultivo o cogente della decisione, favorevole a Rav Somekh, della Consulta rabbinica, ed il Collegio Arbitrale ha respinto tutte queste eccezioni con una lunga e motivata analisi che qui non interessa approfondire o discutere.
Il Collegio è poi entrato nel merito delle contestazioni mosse dal Consiglio prendendo in considerazione la conflittualità sorta tra il rabbino e la Comunità, che aveva interessato anche quattro precedenti consigli su temi essenziali quali la conversione, specie quella di minori nati da matrimoni misti, l’educazione formale nelle scuole, l’organizzazione dei servizi rituali e la Kasheruth.
A questo riguardo il Collegio ha affermato che non risultava, come aveva sostenuto la difesa di Rav Somekh, un tentativo del Consiglio di forzare il rabbino ad assumere comportamenti lassisti e contrari all’Halakhà, ma bensì l’esistenza di un problema di natura personale e comportamentale nella condotta del rabbino nei confronti della Comunità, quali un suo atteggiamento improntato a “durezza”, “contraddizioni”, “ripensamenti”, “mancanza di volontà di trovare soluzioni”, contraddittorietà di comportamenti nelle procedure che riguardavano la conversione, specie dei minori, resistenza passiva a soluzioni transattive, braccio di ferro con la Comunità, con mutamenti di atteggiamenti, liti, attacchi personali, accuse infamanti poi ritrattate, vale a dire un insieme di fatti denotanti una patologia di questo rapporto tra rabbino e Comunità che avrebbe comportato, secondo il Collegio, l’obbligo delle sue dimissioni e che integravano quindi, essendo esse mancate, i gravi motivi previsti dallo statuto per la sua revoca.
Qui non interessa entrare nel merito di questi aspetti comportamentali del conflitto tra rabbino e Consiglio della comunità, perché si tratta di una serie di valutazioni e di interpretazioni di fatti concreti, su cui è difficile e doloroso, e ormai forse inutile, interloquire e va rilevato invece che il contenuto della decisione non ha riguardato il rispetto o meno dell’ortodossia, né l’esistenza di interferenze del Consiglio della Comunità su campi halakhici devoluti alla competenza e al magistero del rabbino, ma bensì una valutazione, che oggi ha valore di giudicato, di suoi specifici comportamenti nei confronti di appartenenti alla comunità, che avrebbero, secondo il Collegio, determinato un conflitto rivelatosi non sanabile, perché perpetuatosi con 5 diversi presidenti e 5 diversi consigli e conclusosi anziché, come la ragionevolezza avrebbe consigliato, con un divorzio consensuale, con una revoca giustificata e conseguente anche all’intransigente difesa del rabbi delle proprie posizioni.
Ora è ovvio che è pienamente legittima la critica di tale sentenza, e che la lettura dei fatti ha spesso un margine di opinabilità e di soggettività, ma è altrettanto vero, che la decisione arbitrale deve essere valutata e discussa per quello che dice, per le argomentazioni che svolge per supportare le sue conclusioni e non per quello che non dice o si immagina dica tra le sue pieghe.
Rav Somekh è sicuramente uno studioso e un maestro di grande cultura e autorevolezza della tradizione ebraica e H.K. ha ospitato e continuerà ad ospitare con l’attenzione, il rispetto e l’interesse che merita i suoi interventi, ed è certo che egli continuerà ad animare con la sua dottrina e la sua passione gruppi di studiosi di Torah, ma resta il problema, e questa è una conseguenza non della decisione arbitrale ma di quanto è accaduto nella Comunità di Torino (e non solo in essa), sulle regole della convivenza di una comunità ebraica e di come essa deve essere retta, anche quando rivendica la propria ortodossia. Vale a dire se essa deve tendere, come vorrebbe la più elementare regola democratica, ad includere, ovvero ad escludere, i suoi effettivi o potenziali partecipanti, vale a dire chi si considera, o vuole essere, insieme a propri famigliari, ebreo, sia egli ortodosso o eterodosso, ateo o agnostico in fatto di religione.
Io continuo a pensare che proprio in questa double band, in questo gioco e rinvio e in questo fruttuoso conflitto tra ortodossia e eterodossia, tra rigore e libertà l’ebraismo abbia conservato e sviluppato la sua ricchezza millenaria di comunità e di pensiero.
Penso anche che l’oscuro e preoccupante presente imponga di uscire dall’ottica amico/nemico che ha avvelenato in questi ultimi anni i rapporti umani e culturali di questa Comunità, per ritrovare finalmente le ragioni del confronto pacato e della serena dialettica.
Fonte: http://www.hakeillah.com/3_10_05.htm