E’ sceso un po’ d’oblio. Allora, cosa succede ora nella Comunità ebraica di Torino
Giulio Tedeschi
Per non rifare tutta la storia di un’estate un po’ movimentata diremo solo che da ultimo anche la Consulta Rabbinica – interpellata, per la verità, un po’ maldestramente dal Consiglio – ha detto poche ma sagge cose: ha osservato che l’istanza giungeva solo dal “Presidente ed alcune componenti del Consiglio” e che la controversia era “radicale”, ossia non si rifaceva ad addebiti specifici, ma riguardava la valutazione stessa di cosa debba essere il rabbinato. E ha raccomandato “di cercare un approccio nuovo con il Rabbino”. Ossia, saranno pure forse problemi gravi e veri, ma così li aggravate invece di risolverli. Il Consiglio, a questo punto, ha deliberato (il 27/11) di riprendere il dialogo con rav Somekh.
Insomma, lettore, la novità dopo nove mesi è questa: il rabbino capo di Torino resta rav Alberto Somekh. Molto – troppo – rumore per nulla. E ora ?
Ora tutti devono cercarsi una parte nuova.
Comunitattiva, innanzitutto, la lista di maggioranza. Che deve passare dai sogni del contro alla realtà del per.
Comunitattiva deve rendersi conto del suo formidabile ruolo. Che è quello della novità. Della novità nelle forme dell’aggregazione e negli stili della comunicazione. Per questo C.A. può essere, ed è, un fondamentale bacino di decantazione delle voglie di ebraismo. Dove queste voglie possono essere apprezzate, nutrite e incanalate. Le feste più informali, le attività meno “impegnate” saranno apprezzabilissime se diventeranno un luogo per accogliere, stimolare ma poi anche unificare. Troppe volte C.A. ha invece commesso l’errore di stabilizzare questa sua massa di riferimento, proponendosi come un limbo fermo, dove offrire certezze provvisorie, in attesa della sempre promessa catarsi, della caduta del muro, della cacciata del tiranno. Fino ad inventarsi propri valori “contro”, proprie guide “contro”, quasi una vera Comunità “contro”. Comunitattiva dovrà finalmente trovare la maturità per convergere invece con il rabbino nello scopo comune di estrarre – ognuno a suo modo e senza promettere certezze – la voglia di ebraismo che i suoi aderenti manifestano. Senza questo coraggio C.A. è destinata a morire. Il suo zoccolo duro è forte e motivato. Ma la maggioranza ottenuta, lo sappiamo, è solo virtuale: i molti che la hanno votata, da quel giorno in Comunità non si sono più affacciati. L’idea forte e aggregante del rabbino cattivo da abbattere si è dissolta in poche settimane. E francamente vorremmo vedere C.A. alle prese con una graduale conquista del consenso basata sulla forza delle idee, sul valore delle persone e su un realistico pragmatismo risolutore anziché su un’unica parola d’ordine salvifica e un po’ eversiva. Difficile sondare gli attuali umori di C.A. e gli eventuali travagli. Dopo l’abbondante comunicazione preelettorale, in tutti questi mesi neppure una parola. Quel che si vede – certo lentamente, ma con forza – è l’emergere di nuove figure, desiderose sì di nuovi stili, stanche di certa egemonia culturale, critiche fortemente verso rav Somekh, ma altrettanto visibilmente estenuate dal dover sempre pagar tributo alla caparbietà di quanti, nel Consiglio e fuori, continuano a perseguire sempre la stessa certezza dilatando la grande battaglia – ormai persa – in mille piccole sottoguerre e guerricciole.
E poi il presidente Tullio Levi. Sempre difficile essere eletti e dover governare senza un programma, solo sul prestigio personale e del già fatto. Eppure la lettera con cui Tullio Levi chiedeva il voto agli elettori era proprio questo. Votatemi per quanto di buono ho già fatto e perché contribuirò a risolvere il problema del rabbino. L’alleanza tra Tullio Levi, membro storico del Gruppo di Studi Ebraici e fondatore di Hakeillah, e Comunitattiva, diversissima per storia, per stile, per idea di Comunità, appariva assai innaturale, puramente tattica, solo sul rabbino appunto. Così presentata anche dall’interessato, peraltro. Ma è acqua passata, il rabbino resta rav Somekh. Anche da Tullio Levi ci farebbe piacere avere informazioni. Cosa pensa di fare? Che presidente sarà? Quale è il suo programma ora? Rientrerà nel gruppo consiliare del GSE-Hakeillah, collocazione che sembrerebbe la più naturale perché lì stanno i suoi metodi e i suoi valori? Resterà indipendente come presidente di garanzia? Come rimetterà insieme i cocci di questa Comunità che – gli va detto con immutato affetto ma senza sconti – la sua crociata ha portato assai vicino all’esplosione?
Purtroppo un’intervista sull’ultimo numero di Hakeillah (anche su www.hakeillah.com) non lascia ben sperare. Dice Tullio Levi che anche dopo un anno la convivenza con rav Somekh continua ancora a sembrargli insostenibile, che sul suggerimento della Consulta è scettico. Dunque ora il dialogo dovrà riprendere – come ha infine deciso il Consiglio – ma da condizioni molto più deteriorate dopo tutte le guerre, dopo tutte le cose dette e sussurrate. Sarà molto più lungo e difficile e, se il presidente lo vivrà ancora quasi come un duello personale, rischia di dare ben più scintille e ancora più angosce per tutti che in passato. Ciò che la Consulta chiede è il ritorno alla politica pragmatica, ritornare a convivere con rav Somekh, rispettare i reciproci ruoli, senza poi rinunciare volta a volta a discussioni e contestazioni anche dure. Tutto il contrario della visione quasi mitica, e infantile, di Comunitattiva secondo cui l’unica soluzione è il suo allontanamento fisico, sia esso definitivo o temporaneo. Se Tullio Levi non ci crede veramente, con entusiasmo, è davvero ancora Tullio Levi la persona adatta per condurre questo dialogo?
E’ una situazione intricata, troppe contraddizioni si sono accumulate. Una risposta di Tullio Levi ancora irata contro tutto e tutti – come nell’intervista su Hakeillah – non pare la ricetta giusta. Se la prende con il GSE, la scuola, i giornalisti faziosi (che però lui stesso rivendica di aver contribuito a mettere in riga). Ma non vi si trova un lato B, una exit strategy, un programma per gli altri tre anni e tre mesi, una qualunque riflessione autocritica sul suo ruolo nelle vicende di questi mesi.
Bisognerebbe ricominciare ad unire, non è più il tempo di dividere. Ma questo è solo nelle mani del presidente, solo lui può recidere questi nodi. Il presidente è uomo di coraggio: dovrebbe trovare dentro di sé il coraggio per arrivare ad una intelligente teshuvah, un intelligente inizio di spinta alla storia verso il ritorno. Una teshuvah di ripristino di rapporti umani e anche di equilibri politici che muova dal fatto che il motivo per mantenere accesa la tensione è cessato. I modi li deciderà lui stesso. Di certo in queste situazioni il semplice aspettare, o anche generici appelli alla concordia non seguiti da idee o fatti concreti sono destinati a fallire.
Un anno e mezzo fa la Comunità di Torino era tesa, i problemi non mancavano, le strategie divergevano. Ma vi era una fortissima unità ideale e sociale. Ora Tullio stesso constata “… ripercussioni negative che … si stanno purtroppo aggravando fino ad alterare gli stessi rapporti interpersonali”. Per una spallata poi fallita. Ma nessuna introspezione, nessuna terapia. La morte delle amicizie è la peggior tragedia per una Comunità. Ma l’unica causa che Tullio sa indicare è la “frustrazione dei perdenti”. Forse anche qui, come dice la Consulta, occorre “un approccio nuovo”.