Un seguitissimo convegno riporta a Torino la leadership culturale che aveva perso negli ultimi anni
Giulio Tedeschi
Tutti gli oratori l’hanno definita un gran pasticcio. Ed è già molto meglio delle precedenti. L’ultima versione della travagliata proposta di riforma dello Statuto, in tema di rabbini, recita che Per l’espletamento dei compiti di cui all’articolo 1, comma 2… la Comunità nomina un Rabbino Capo. Lo nomina per un periodo di sette anni. Rinnovabili. Ora l’art. 1 elenca semplicemente tutte, nessuna esclusa, le competenze e gli ambiti d’intervento di una Comunità.
E quindi le idee parrebbero essere due, molto divaricate. O il rabbino resta, come ora è, un organo della Comunità, potenzialmente in dialettico contrasto con gli altri poteri, e allora il suo reclutamento è effettuato sulla sola base di criteri di valore, viene assunto a tempo indeterminato e l’accento normativo è posto soprattutto sulle tutele della sua indipendenza. Oppure invece il rabbino è una sorta di supermanager socio culturale, asseconda gli indirizzi della Comunità, deve necessariamente essere in sintonia con l’organo politico e la normativa prevede un incarico a tempo determinato dopo il quale verificare i risultati e il permanere della sintonia in vista di un possibile rinnovo.
Tutto chiaro allora? Niente affatto! Perché poi lo stesso articolo elenca i compiti e le prerogative del Rabbino Capo esattamente, stesse testuali parole, come lo Statuto vigente. E identica è anche la normativa – complessa, improntata alla massima garanzia – per l’eventuale revoca anticipata. Un po’ surreale: sembra tutelato, quindi libero da condizionamenti e pressioni, se magari è il terzo anno dei sette. Tanto poi arriva il settimo e può essere liquidato senza neppure fornire un motivo. E in sette anni i Consigli passano, le amministrazioni cambiano.
C’è una spiegazione chiara di tutto questo. Ed è per questo che un convegno sulle modifiche di Statuto è di fatto diventato un convegno sui ghiurim. Lo hanno detto tutti gli intervenuti, rabbini e non rabbini: il succo di tutta la storia è la pressione ormai intollerabile delle Comunità sui rabbini perché facilitino i percorsi di ghiur. E le modifiche proposte allo Statuto sono un maldestro tentativo di sostituire una minaccia normativa ad una seria disamina di un fenomeno sociale e culturale.
Amos Luzzatto la domanda se l’è posta: una generazione fa i matrimoni misti scivolavano, in gran maggioranza, verso l’assimilazione o comunque la scarsa osservanza. Oggi è il contrario, la richiesta di ghiurim aumenta, e si tratta talvolta di ottimi gherim, che arricchiscono e danno nuova linfa alle comunità. Che cosa è cambiato? Quali suggerimenti si devono dare ai rabbini?
E invece il dialogo non c’è. C’è solo l’eccessiva pressione politica sui ghiurim che, osserva rav Arbib, fa male agli aspiranti stessi, trasforma un grande processo di crescita e cambiamento personale in una tensione affannosa a più avanzati equilibri di potere.
Un po’ allarmante anche il riferimento all’art. 1. Significa la delega totale ai rabbini dell’intero mondo di ciò che può essere ebraico? Significa riconoscere che i non rabbini trovano ormai tutto così estremamente altro da sé, che non v’è in Comunità che un unico sportello, che nessun altro possiede proposte, idee, campi di competenza? Ai rabbini oggi chiediamo troppo, ha osservato Dario Calimani. E li trattiamo come impiegati, al più come esperti. E intanto talora la forza della nostra cultura ebraica decade. C’è il problema dei ghiurim. Fondamentale, ma accidenti, non c’è solo quello!
Sintomatico il secondo comma del nuovo articolo 47 dedicato all’Assemblea rabbinica: L’assemblea definisce le linee guida per i percorsi di conversione all’ebraismo. Perché mai non la kasheruth, non i divorzi? Perché sempre e solo questo? Non è meglio, si è chiesto rav Di Segni, che l’Assemblea semplicemente eserciti un coordinamento tra ogni bet din esistente, e su ogni materia?
Già, il bet din. Uno solo per tutta Italia o uno in ogni Comunità. Un bel problema. Perché, sempre in tema di ghiur, la pretesa di un tribunale unico non tiene conto del lavoro istruttorio, lungo, introspettivo, che impone ai giudici una conoscenza di lungo tempo degli aspiranti. Concreto il rischio che con un bet din unico l’uniformità – valore positivo – sia realizzata al ribasso.
Del bet din ha parlato rav Di Segni, riportando varie realtà di altre nazioni. Vi sono esempi in cui il Rabbino è ben al sicuro da attacchi e pressioni, perché le patate bollenti (sempre i ghiurim, naturalmente) sono in carico al bet din, in composizione del tutto disgiunta e indipendente dal rabbino Una realtà finora completamente estranea all’esperienza italiana, ma a cui si potrebbe anche pensare.
Centosessanta persone attente, per più di tre ore. Un sogno per Torino ebraica di questi ultimi anni. Maurizio Piperno Beer, l’unico torinese tra i relatori, l’ha fatto notare: si può discutere di cose alte, invece di continuare a litigare per cose basse. Si può. Dopo questo convegno si può.
Un plauso agli organizzatori
Dario Calimani*
A Torino, domenica scorsa, un gruppo di iscritti alla Comunità ha organizzato un convegno su “Quali rabbini nel nostro domani?”. Relatori di rilievo, da Rav Alfonso Arbib a Rav Riccardo Di segni, da Amos Luzzatto a Maurizio Piperno. Si è parlato di rabbinato, di Comunità, di ghiurim e di cultura.
Ma il fatto di maggior rilievo, a parere del sottoscritto che vi ha partecipato, è il risveglio sorprendente che si sta verificando all’interno di quella Comunità. Una comunità che, fino a qualche anno fa, è stata capofila culturale e politica di un ebraismo illuminato, sensibile ai problemi culturali, politici e sociali. Una comunità che ha fatto da segnapista vivace per l’insieme delle altre comunità italiane, e che ha aperto e sostenuto dibattiti anche delicati e fondamentali. Poi, e da qualche anno ormai, Torino è scomparsa, si è avvolta a spirale in una controversia che l’ha divisa e ne ha devastato ogni potenziale culturale.
Nelle piccole comunità, ne abbiamo sentito la mancanza, e ne abbiamo sofferto l’assenza. La divisione, purtroppo, non è ancora stata sanata, ma domenica a Torino le oltre 160 persone presenti al dibattito e tutti coloro che vi hanno partecipato hanno affermato la volontà non solo di riprendere in mano le proprie sorti, ma anche di riprendere con il resto dell’ebraismo italiano un dibattito che che era stato sospeso, con danno gravissimo di tutti.
Credo che l’evento di Torino e il successo che lo ha accompagnato siano da segnalare, al di fuori di polemiche e contrasti, con il dovuto risalto, magari per esportarli. È una boccata d’aria che molte comunità attendevano da un pezzo. Su questa strada, ora, si può sperare che riprenda il dialogo. Un plauso agli organizzatori.
*Dalla newsletter L’Unione Informa