David Sorani
La Comunità di Torino è scossa, turbata, inquieta. La conferma della revoca a Rav Somekh è un ulteriore colpo assestato a un ambiente già fortemente disorientato e lacerato al suo interno, che da tempo ha purtroppo smarrito il suo equilibrio e la sua vitalità. Già questo basterebbe per esprimere duri giudizi sulla maggioranza consiliare che col suo accanimento antirabbinico l’ha portata a vivere l’attuale situazione di tormento e di crisi esistenziale. E se il presente è amaro e grigio, il futuro si prospetta ancora più fosco e privo di sbocchi. Non solo a Torino, probabilmente, ma in tutta l’Italia ebraica.
Proviamo comunque a tirare su la testa, a perforare il vago senso d’angoscia che molti ebrei torinesi oggi condividono e a leggere con razionalità tutta la situazione. Cominciamo dal lungo documento con cui il Collegio arbitrale ha respinto il ricorso di Rav Somekh. Un’attenta lettura del testo rivela che mentre la massima cura è stata posta nel valutare la regolarità dei documenti presentati a sostegno della revoca e la validità delle procedure seguite durante l’iter con cui il Consiglio è giunto all’adozione del provvedimento, il Collegio non ha ritenuto di procedere a nessun tipo di indagine supplementare atta a vagliare la concreta realizzabilità di una decisione così drastica, a sondare le effettive intenzioni della maggioranza del Consiglio, a comprendere l’impatto e le conseguenze di una simile soluzione sull’ambiente comunitario. Il Collegio, in realtà, ha scelto di non giudicare. Ha dato per scontato che una decisione così grave sia stata attentamente vagliata e abbia perciò alle sue spalle ragioni ben salde. E comunque ha considerato in certo qual modo indiscutibile il giudizio espresso dal Consiglio della Comunità, non ritenendo di avere il diritto di mettere in dubbio la sostanza della decisione presa a maggioranza. Partendo da questi presupposti, ha interpretato il proprio ruolo non come quello del giudice super partes ma come quello del notaio. Forse la vaghezza con cui lo Statuto dell’ebraismo italiano si esprime in merito alle effettive funzioni e al modo di procedere del Collegio arbitrale, richiamata peraltro dagli stessi arbitri all’inizio del loro pronunciamento, si presta a un’interpretazione puramente formale e amministrativa del ruolo. Certo una visione più equilibrata e meno unilaterale dell’intera vicenda, un’interpretazione più consapevole di quindici anni di vita comunitaria torinese e delle ripercussioni – torinesi e non torinesi – di una così grave decisione avrebbero dovuto spingere il Collegio ad assumere una veste più alta e più responsabile rispetto a quella del revisore di atti e documenti.
Ciò che amareggia di più nella conclusione di tutta la vicenda è che la lettura acritica che se ne è data e le conseguenze che se ne sono tratte non corrispondono assolutamente alla realtà dei fatti, anzi la tradiscono in maniera sfacciata e offensiva per una buona parte degli ebrei torinesi, che non volevano e continuano a non volere l’avvilente degradazione sul campo di Rav Somekh. Gli anni del suo rabbinato, quelli descritti dalla maggioranza come anni di continue tormentose liti e così registrati dal Collegio, sono stati in realtà anni di non sempre facile ma produttiva convivenza, di costruttiva crescita identitaria e culturale; anni in cui comunque si è raggiunto un accordo di fondo e un’intesa sostanziale, in cui alcuni problematici rapporti hanno trovato uno sbocco positivo e si sono anche creati col Rav profondi legami umani, in cui in ogni caso si è andati avanti senza giungere a rotture, come giustamente sosteneva Giulio Tedeschi solo qualche mese fa, quando ancora si sperava in una soluzione ragionevole (Ha Keillah, febbraio 2010).
E ora che ne sarà di questa crescita e di questo legame? Le relazioni costruttive restano dentro gli individui, per fortuna, ma a livello comunitario è lo smarrimento a prevalere.“Nave senza nocchiero in gran tempesta”, siamo oggi apertamente allo sbando. La crescita e la consapevolezza progressive dell’era-Somekh lasceranno il passo al vuoto di contenuti, all’assenza di prospettive (realtà peraltro già riscontrabili nel nulla pressoché totale rappresentato dalla gestione di Comunitattiva) e soprattutto alla strumentalizzazione degli ebrei torinesi rispetto a manovre di più vasto raggio che si intravedono a livello nazionale. Guardiamoci dal complottismo, ma ragioniamo: la revoca di Rav Somekh – evento senza precedenti in Italia e in Europa – avviene in una fase in cui l’ebraismo italiano sta discutendo l’importante riforma del suo Statuto e si accinge a darsi nuove regole; una delle proposte di revisione statutaria (non si sa se ancora effettivamente in discussione) prevedeva l’istituzione del “rabbino a tempo”; da anni del resto circola negli ambienti ebraici italiani una palese tendenza antirabbinica (un diffuso fastidio per i rabbini “troppo ortodossi”). Cosa si sta preparando? Dove sta andando l’ebraismo italiano? Non è il caso di trarre conclusioni sommarie e affrettate, ma l’inquieto timore che un settore significativo e ahimé consistente dei vertici dell’ebraismo italiano si stia orientando, anche a livello normativo, verso una visione laicista (si badi bene, non laica) dell’essere ebrei e della società ebraica appare purtroppo fondato. Si tratta di una visione distorta dell’ebraismo, è persino ovvio ricordarlo; un’interpretazione forse in sintonia con una tendenza diffusa ai giorni nostri, ma certo assai distante dalla tradizione e dalla storia degli ebrei in Europa, secondo le quali forte è il ruolo dell’istituzione comunitaria in sé, ma indiscutibile è l’autonomia e la funzione trainante dell’autorità rabbinica.
Quanto sta avvenendo a Torino è dunque parte di una più vasta evoluzione (anzi, involuzione)? Certo se la direzione degli eventi fosse questa si spiegherebbe anche la strada notarile seguita dal Collegio arbitrale nello svolgere la sua funzione. Respingere la revoca avrebbe significato bocciare la maggioranza del Consiglio, costringerla alle dimissioni, dichiarare la sconfitta dell’istituzione comunitaria rispetto al magistero rabbinico, ponendo dunque ostacoli alla tendenza volta a limitare-regolamentare il rabbinato. Una conferma in questo senso potrebbe venire dallo scarso peso che gli arbitri hanno ritenuto di dare al parere della Consulta Rabbinica, come è noto contrario al provvedimento di revoca. Non si vuole e non si può sostenere che ci sia stata una deliberata volontà di muoversi in questa direzione, nel quadro di un ben preciso progetto globale. Ripeto, le manie di complottismo sono infide e pericolose. E’ possibile però che anche l’organismo arbitrale sia stato in qualche modo condizionato dalla forza trainante di una tendenza diffusa a rafforzare il potere direttivo dell’istituzione. Intendiamoci, nutrire questi timori non significa negare quello che opportunamente faceva di recente notare Dario Calimani (ancora su Ha Keillah di febbraio): la formazione e il ruolo dei rabbini italiani richiedono una profonda opera di revisione, ma proprio per restituire loro efficacia, credibilità, autorità.
Di una situazione complessiva così intricata e minacciosa, quello che resta oggi agli ebrei di Torino è il grigiore di un presente strappato loro di mano dall’alto e il punto interrogativo su ciò che li attende nei prossimi mesi. Ma da qualsiasi prospettiva si guardi a questo brutto panorama torinese, dal basso come chi lo vive giorno per giorno con sempre meno voglia di varcare il cancello di Piazzetta Primo Levi o dall’alto come chi lo coglie nei suoi aspetti d’assieme e nelle sue possibili interpretazioni di fondo, la diagnosi che ne possiamo trarre è sempre la stessa: è lo sviluppo e l’effetto di una pulsione autodistruttiva, che vuole trasformare con metodo centralista e autoritario il tradizionale modo di essere dell’ebraismo, giungendo però così a cancellare quel senso di appartenenza, quella partecipazione di base che gli sono indispensabili in quanto cultura e in quanto scelta di vita.