Nani sulle spalle di giganti
Gianfranco Di Segni
La caratteristica principale dell’Uomo è l’essere stato creato “a immagine e somiglianza” di D-o (Genesi 1: 27). In che cosa l’uomo – nella sua duplice fisionomia di maschio e femmina – è simile a D-o? Un’analisi del racconto della Genesi ci rivela che D-o è il Creatore dell’universo, che la creazione è da Lui stesso definita “buona” (tov) e che Egli si comporta con amore (chèsed) con le Sue creature. Queste caratteristiche devono quindi essere il punto di riferimento anche per il comportamento dell’uomo. L’uomo può e deve esercitare la propria capacità creativa, deve distinguere fra ciò che è bene e ciò che non lo è, e deve comportarsi con amore verso tutte le altre creature.
La creatività umana non è considerata una sfida contro D-o, tutt’altro. L’uomo è chiamato nel Talmud “socio del Signore nell’opera della creazione”. La Torà ci racconta che i discendenti di Adamo ed Eva costruirono le città, colonizzarono le terre, allevavano gli animali e sviluppavano le arti e la civiltà (ibid. 4: 17-22). Dopo che Adamo ed Eva furono posti nel giardino dell’Eden, D-o disse loro di “lavorarlo e custodirlo” (ibid. 2: 15). La missione dell’uomo è di “lavorare” la terra, perfezionare il mondo e migliorarlo, ma al contempo l’uomo deve anche “custodirlo”, preservarlo e consegnarlo intatto alle future generazioni. La tecnologia può in vero diventare distruttiva, ma non dobbiamo detestare il fuoco – che è un dono di D-o, come afferma il Talmud –, bensì il suo uso dissennato. Quando l’uso diventa un abuso, non può che essere condannato, come avviene nel racconto biblico della torre di Babele (ibid. 11: 1-9). La costruzione di una città (o di una torre) è utile e necessaria; al contrario, l’erezione di una torre che abbia il solo e dichiarato scopo di sfidare D-o porta all’annullamento della convivenza umana.
Per l’ebraismo, un conflitto fra fede e osservanza religiosa, da una parte, e sapere scientifico e sviluppo tecnologico, dall’altra, non è ammissibile. Torà e scienza sono due forme di conoscenza che si complementano l’una con l’altra. La scienza tenta di svelare il disegno divino insito nella natura, creata da D-o con “dieci detti” (Mishnà, Pirkè Avot 5: 1). La Torà, d’altro canto, ci rivela la volontà divina trasmessa all’umanità sul Monte Sinai attraverso le “dieci parole” (il Decalogo; Esodo 20: 1-17; 34: 28; Deuteronomio 5: 6-18). Il fatto stesso che in entrambe le istanze si tratti di “dieci” entità è indice della stretta connessione esistente fra il mondo della natura e il mondo della Torà secondo la concezione ebraica.
La ricerca scientifica e tecnologica non possono essere portate avanti se non sono guidate da un impeto morale. D’altra parte, la scienza e la tecnologia sono utili, se non necessarie, per far sì che la morale possa essere applicata. I rapporti sociali e familiari, la cura dei malati e l’assistenza ai bisognosi, l’equa distribuzione dei beni naturali e del prodotto del lavoro, tutto ciò può essere maggiormente conseguito attraverso lo sviluppo della scienza e della tecnologia. Il precetto biblico che invita ad “amare il prossimo tuo come te stesso” (Levitico 19: 18), che secondo Hillèl è alla base di tutta la legge ebraica, tanto meglio può essere messo in pratica quanto più siamo in grado di manifestare concretamente il nostro amore per il prossimo. Come scrive il profeta Isaia, bisogna “sciogliere le catene della malvagità, slegare e spezzare i legami del giogo, mandare liberi gli oppressi, dividere il proprio pane con l’affamato, accogliere in casa i poveri derelitti, rivestire gli ignudi e non chiudere gli occhi davanti ai bisogni del proprio simile” (Isaia 58: 6-7).
Lo sviluppo scientifico e tecnologico non è solo uno strumento di conoscenza, ma può anche essere un mezzo per arrivare a una società migliore e più giusta. Impegnarsi nella ricerca scientifica, per chi ne ha le possibilità, è una mitzwà, un precetto legale e religioso. I versi della Torà che parlano della “saggezza e dell’intelligenza” del popolo d’Israele agli occhi degli altri popoli (Deuter. 4: 6) sono interpretati dal Talmud come un invito a “calcolare le orbite dei pianeti e delle stelle” (Talmud, Shabbàt 75a). Occuparsi di astronomia, o di ricerca scientifica in senso lato, è al tempo stesso una mitzwà e un motivo di vanto. Mosè Maimonide (Spagna-Egitto, 1135-1204), che fu rabbino, medico e filosofo, dedica una notevole parte del suo codice giuridico, il Mishnè Torà, alle conoscenze astronomiche. Simone Luzzatto, un rabbino veneziano del 1600, afferma anch’egli che occuparsi delle scienze è un precetto legale, e così sostengono molti altri importanti rabbini.
Lo studio della Torà, sviluppatosi al massimo livello nel Talmud (che letteralmente significa appunto “studio”), possiede alcune caratteristiche in comune con la scienza moderna. Ciò ci indica che il legame fra questi due tipi di conoscenze è più profondo di quanto si potrebbe pensare. Secondo alcuni storici e sociologi, proprio a queste somiglianze è dovuta, in parte, la notevole presenza ebraica fra gli scienziati della nostra epoca. Lo stesso ambiente socio-culturale ebraico che fino al XIX secolo aveva prodotto studiosi che eccellevano negli studi talmudici, dopo l’emancipazione e l’apertura dei ghetti permise e incoraggiò un grande sviluppo degli studi scientifici presso gli ebrei. L’abitudine agli studi astratti e l’impostazione critica tipiche della logica talmudica avrebbe predisposto gli ebrei ad occuparsi con successo delle scienze. Comune ai due tipi di sapere è la predilezione per una coerenza logica interna: in entrambi si parte da una serie di assiomi e postulati di base, sui quali si sviluppa un sistema razionale coerente con regole ben chiare e precise. Sia la ricerca scientifica che lo studio del Talmùd si appoggiano su ragionamenti logici e fonti verificabili. D’altro canto, visioni mistiche o rivelazioni celesti per introdurre nuovi concetti o arrivare a una migliore comprensione non sono ammesse né nell’uno né nell’altro caso.
Un’ulteriore somiglianza fra scienza e Talmud è il fatto che in entrambi i sistemi la conoscenza si accumula sulla base del sapere precedente. Il rapporto reciproco fra tradizione e progresso è bene illustrato da un detto alquanto in voga fra i filosofi medioevali, e ripreso pure dai Saggi ebrei, in particolare della tradizione ebraico-italiana. Rabbì Azarià de Rossi (Mantova, 1513-1578), citando Rabbì Tzidkià Anav (Roma, 1230-1300, l’autore del testo halakhico Shibbolè Haleket, “le spighe del raccolto”), il quale a sua volta cita Rabbì Yeshaià da Trani (Trani, 1180-1260), afferma che le generazioni posteriori, in confronto agli antichi, sono costituite da nani. Ma siamo nani poggiati sulle spalle di giganti e pertanto riusciamo a vedere sempre un po’ più lontano di chi ci ha preceduto. Non è un caso se questo detto fu ripreso anche da Isaac Newton.
Tratto da Il Portavoce dell’Adei-Wizo, n. 2, aprile-giugno 2010