Rav Shlomo Riskin – Efrat, Israele – 5763 (2002-2003) – Tradotto da Dany e Giulio Barki
L’inganno di Giacobbe a suo padre per strappare la benedizione destinata a Esau rappresenta la tragedia che lo pervaderà fino alla fine della sua vita, la trasgressione trattata per il resto del Libro di Genesi; possiamo dire che tutto quello che succederà nella storia dell’Ebraismo dopo questo episodio sarà in qualche modo influenzato dall’episodio stesso. Sullo stile del “contrappasso”, Labano offre a Giacobbe in moglie la figlia non amata perché “dalle nostre parti non si usa far sposare la più giovane prima della grande” – impostando il palcoscenico dell’amara rivalità delle mogli, che ha portato all’atroce crimine di Reuben contro suo padre. Analogamente, Giacobbe, come padre, viene ingannato dai suoi figli con la falsa spiegazione sulla sparizione del suo amato Giuseppe, “è stato divorato da una bestia feroce” – con la quale è stata nascosta la vendita di Giuseppe in Egitto e il conseguente inganno dei fratelli di Giuseppe davanti al Grand Visir del Faraone. Inoltre, l’inimicizia tra i figli di Giuseppe e i figli di Esaù (la contrapposizione fra Israele e Roma), così come il litigio e l’odio interno tra i figli di Israele, si riversano nel corso della storia Ebraica e ci tormentano perfino oggi. Cosa costringerebbe il “sincero” Giacobbe, lo studioso abitante nelle tende, a cadere preda di un atto ingannevole e a prendere i panni del fratello per amore di una benedizione – anche se è stata sua madre a dargli il suggerimento? La cosa che rende il testo ancora più strano da comprendere è il fatto che Giacobbe sapeva che sarebbe stato sicuramente scoperto: dopo tutto, Esau sarebbe apparso prima o poi con la carne in mano e l’ira del padre Isacco si sarebbe scatenata sulla testa dell’impostore Giacobbe. Dunque, perché lo avrebbe fatto?
Credo che una risposta affascinante possa essere trovata nella complessità delle relazioni genitore-bambino o padre-figlio, che sono così profondamente descritte e integrate tra le vite dei personaggi della pergamena del sorprendente libro della Genesi. Un fondamentale punto di partenza sta nella rivalità tra i fratelli gemelli Giacobbe e Esau con le parole “E Isacco amava Esau perché la caccia era nella sua bocca, e Rebecca amava Giacobbe” (Genesi 25:28). Ogni bambino desidera ardentemente – e merita – amore incondizionato da parte dei suoi genitori; dopo tutto, il bambino non ha chiesto di venire al mondo, e la più concreta protezione che possa ricevere contro le forze irrazionali dell’ambiente e della società, è l’amore protettivo – non importa quale – dei genitori che con impegno si preoccupano di lui; per parafrasare Robert Frost, una casa è quel posto in cui, quando tutti gli altri ti chiudono la porta in faccia sei accolto sempre con un caldo abbraccio. E all’interno della società dei patriarchi, che era il mondo di Giacobbe, Giacobbe aveva esplicitamente bisogno dell’amore incondizionato di suo padre.
Tragicamente, non lo ha ricevuto. Rebecca amava Giacobbe, punto; evidentemente questo tipo di espressione implica amore incondizionato. Ma questo non era abbastanza. Giacobbe non è stato amato, è stato rifiutato, da suo padre – che amava invece suo fratello Esau. Giacobbe desiderava ardentemente e disperatamente questo amore – e c’è stato per lui perfino un modo per acquisirlo. Dopo tutto, Isacco non amava Esau incondizionatamente; lo amava perché – perché la caccia (allettante) era nella sua bocca, perché Esau nutriva suo padre della tanto amata carne di cervo. (“La carne di cervo di Esau era nella bocca di Isacco”), perché la parlata melliflua dell’avvocato-politico-imbroglione era lo scioglilingua di Esau (“L’allettamento di Esau attraverso le parole era il dono della parlata nella bocca di Esau”). Se soltanto…..
Permettetemi di raccontare una storia per aiutare a chiarire il bisogno insoddisfatto che ha causato un vuoto nel cuore di Giacobbe, la dolorosa angoscia con cui solo un bambino che si sente non amato e rifiutato dal genitore preferito, può vivere.
Mia moglie e io abbiamo una stimata e adorata amica, una sopravvissuta all’olocausto, una bella e intelligente donna, benedetta, con un carattere genuinamente forte, una franchezza sbalorditiva, ma una generosa disponibilità, e una rara abilità nell’esprimersi in prosa e in poesia. Durante una delle tante nostre conversazioni nella quale si è abbandonata ai suoi ricordi di bambina, ha rivelato che uno dei suoi più felici ricordi della sua vita è stato il giorno in cui è stata separata con violenza dalla sua famiglia e portata dai nazisti in un campo di sterminio. Ha risposto alla nostra reazione scioccata descrivendo una situazione familiare in cui la sua sorella maggiore era la favorita, figlia “frum” (religiosa) e lei era quella rifiutata, quella ribelle. Se era disponibile un pezzo di burro e uno di margarina, alla sorella spettava il burro e a lei la margarina; “dopo tutto”, sua madre spiegherebbe, “Miriam è esausta dal profondo studio; tu ci sei andata più leggera con i libri di preghiera e quindi puoi accontentarti di un po’ meno”.
Quello che era perfino più difficile per lei da sopportare era l’arrendevolezza di sua madre tutte le volte che era arrabbiata per la condotta della sua figlia più piccola, “probabilmente non sei la mia figlia biologica! Tua sorella è nata a casa, mentre tu sei nata in una clinica e i dottori avranno scambiato la mia vera figlia con te…” Ovviamente, questo non era il solito ritornello intonato dalla madre, ma veniva evocato nelle occasionali ribellioni della nostra amica. Ma come recita un proverbio Yiddish “Uno schiaffo allontana, una ‘parola’ brucia ancora” (A patsch derght, A vort bashteht).
Nel 1942 I nazisti arrivarono alla sua città natale di Bendine e radunarono i bambini. Solo lei e i suoi genitori erano a casa. Suo padre cercò di calmare il tremolio delle sue mani scrivendo una “kvittel” (petizione) al Rebbe Gerrer; sua madre si buttò ai piedi delle bestie naziste pregandole di prendere lei e risparmiare la vita della sua preziosa bambina. La nostra amica disse che lei non aveva avuto assolutamente alcun timore, perfino quando loro la trascinarono nel carro bestiame; lei potè sentire solo gioia, gioia nel sapere che sua madre l’amasse veramente, gioia per la conferma che quelli erano in effetti i loro veri genitori e lei la loro amata figlia, gioia per la scoperta di essere finalmente accettata e non respinta.
Ipotizzerei che Giacobbe volesse disperatamente sentire l’amore di suo padre, perfino per un breve momento. Se gli avesse portato la carne di cervo, se avesse davvero pronunciato le parole “sono Esau il tuo primogenito”, allora forse Isacco l’avrebbe amato come proprio amava l’Esau della carne di cervo. Proprio come amava l’Esau dalle parlate melliflue. Infatti, Giacobbe desiderava ardentemente essere Esau – perché poi avrebbe potuto sperare di guadagnare il favore e l’affetto paterno. E così comincia l’odissea di Giacobbe, prima nella ricerca di un’identità come Esau nella casa e negli affari di Labano per 22 anni e poi, finalmente riuscendo a esorcizzare Esau al fiume Yabbok riconciliandosi con la propria vera identità. Ma il tragitto di Giacobbe verrà completato solo, e il Signore diventerà solo il suo D-o, quando eventualmente ritornerà in pace verso – e in pace con – la casa di suo padre. (Genesi 28:21; 35:27).
Shabbat Shalom.