שמור את חודש האביב ועשית פסח לה’ אלקיך
La Parashah che abbiamo letto nel primo Sefer, Tazria’, parla della tzara’at (=lebbra) e ne elenca tre tipologie: nell’ordine la tzara’at ha-adam che colpisce il corpo umano; la tzara’at ha-beghed che interessa i vestiti e la tzara’at ha-bayit che riguarda la casa. E’ noto che la tzara’at viene come conseguenza di trasgressioni e che il S.B. evita di colpire la persona direttamente in prima battuta. Ci saremmo pertanto aspettati l’ordine inverso: che cioè la Torah parlasse della tzara’at in termini di avvicinamento: casa > vestiti > corpo. Commenta il No’am Elimelekh che la Torah vuole fornirci qui un insegnamento.
Le trasgressioni richiedono una riparazione e la riparazione procede gradualmente non in direzione centripeta, bensì centrifuga: dal centro verso la periferia. Per prima cosa si richiede all’uomo di correggere le proprie middot (=attributi personali, attitudini caratteriali), ovvero l’eventuale superbia, concupiscenza, desiderio sfrenato, falsità, adulazione e tutti gli atteggiamenti negativi che albergano nella sua persona. In seconda battuta si passa dall’interiorità all’esteriorità e l’intervento riguarderà le azioni dell’uomo, ovvero la sfera delle Mitzwòt che rappresentano il suo abito: abito nel senso etimologico connesso con il termine abitudine. Si sa che l’abitudine, acquisita attraverso la pratica, crea la mentalità dell’individuo. E’ dunque proprio attraverso la disciplina delle Mitzwòt e delle “buone azioni” che si corregge e si incanala questa seconda sfera. Infine la terza fase, dall’abito all’abitazione: la casa rappresenta ogni contatto rivolto al mondo circostante, le relazioni con la società nella quale l’uomo vive. Una volta completato questo processo graduale dal sé verso gli altri, l’uomo si sarà realizzato sul piano etico e spirituale.
Ebbene le iniziali di adam (=persona, uomo, corpo), beghed (=vestito, abito) e bayit (=casa) formano la parola Aviv. La Torah ci ingiunge: “stai bene attento al Chòdesh ha-Aviv e farai Pessach per il S. tuo D.” (Devarim 16,1). Il mese di Nissan comincia proprio oggi. Fra due settimane esatte è Pessach e giunge ormai il tempo di accennare ai preparativi. Il Chametz che la Torah ci prescrive di eliminare rappresenta il seòr she-ba-‘issah, il “lievito dentro l’impasto”, la quintessenza di tutto ciò che è negativo e che dobbiamo rimuovere se vogliamo giungere a una completa devequt con il S.B. La ricerca del Chametz deve a sua volta essere effettuata nelle tre sfere, partendo dalla più esteriore per giungere a quella più intima. Dobbiamo ricercare il Chametz anzitutto nella casa. Questo implica, come è noto, una attenta verifica be-chorin u-vi-sdaqim, “nei buchi e nelle crepe”. La crepa è il primo segnale di instabilità dell’edificio. La parola sedeq (=crepa) è adoperata nella Mishnah anche per identificare lo stadio a partire dal quale un impasto è da considerarsi Chametz: dal momento in cui si crepa (Pessachim 3,5). Il lievito ci gonfia e ci procura delle crepe. In seconda battuta dobbiamo ricercare il Chametz nelle tasche degli abiti. Dobbiamo verificare le nostre cattive abitudini ed eliminarle. In terzo luogo, ed è la fase più critica, dobbiamo ricercare il Chametz dentro noi stessi, il nostro carattere, i nostri attributi interiori, l’intimo dei nostri sentimenti, la parte più recondita della nostra coscienza che spesso e volentieri stentiamo a esprimere, ma che rivela la parte più profonda di noi proprio quando meno ce lo aspettiamo. Una volta compiuto questo tiqqun, esso ripercorre positivamente il cammino a ritroso: la nostra personalità finalmente corretta rivela tutta la sua luce nel modo di comportarsi (abito) e nella vita di relazione (casa).
Proprio la nostra vita di relazione è nell’occhio del ciclone, come si suole dire. La Parashat Tazria’ inizia la sua trattazione nominando a sua volta tre forme diverse di tzara’at del corpo umano. La prima si chiama seèt, che letteralmente significa “innalzamento”. “Innalzamento” è sinonimo di “superbia”, la causa prima di tanti dei nostri mali. Un’altra si chiama baheret ed è messa in relazione con una radice che implica l’idea di illuminare. Spiega il No’am Elimelekh che molti errori vengono suscitati in noi dal fatto che siamo spesso vittime di illuminazioni, intuizioni che all’istante ci persuadono, che crediamo fondamentali e solo con il senno di poi si rivelano fallaci. Ma una terza forma di tzara’at è forse quella che richiede maggior attenzione in un processo di tiqqun. E’ la sappachat, da una radice che significa “unire, associare”. Molti nostri traviamenti sono dovuti semplicemente al tipo di compagnia che frequentiamo. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. La Torah stabilisce che per guarire da ogni forma di tzara’at è necessario rivolgersi al kohèn. Non perché il kohèn sia dotato di chissà quali poteri soprannaturali. Il kohèn non è uno sciamano, né un apprendista stregone. Neppure perché il kohèn sia un medico in senso scientifico. La Torah non allude né a rimedi magici, né a terapie cliniche. Abbiamo letto la scorsa settimana che il kohen è semplicemente un maestro di Torah. La tzara’at, quali che ne siano le manifestazioni, si cura associandosi ai Maestri e frequentando i Giusti. Queste sono le buone compagnie cui dobbiamo aggregarci. Solo accompagnandoci ai Maestri e seguendone l’esempio e l’insegnamento si attuerà il Chòdesh ha-Aviv, il Chiddush (=rinnovamento) nelle tre sfere della persona (adàm), dell’abito (beghed) e della casa (bayit) che la Torah ci indica metaforicamente all’inizio del mese di Pessach. Shabbatot li-mnuchah, Rashè Chodashim le-tovah we-li-vrakhah e, in prospettiva, Mo’adim le-Simchah a tutti.