Elena Loewenthal
C’è qualcosa di profondamente paradossale ma non meno congeniale all’ebraismo nel fatto che la tradizione d’Israele chiami «Torah orale» un immenso corpus di testi scritti. Questo suggestivo ossimoro porta con sé l’idea di una sorta di rivelazione permanente che comincia con la chiamata di Abramo – che in ebraico significa «Padre grande» -, prosegue con la dettatura della Legge su al Sinai, s’incammina nella storia del popolo d’Israele con i Profeti e gli Agiografi, e procede in una progressiva discesa ma anche diluizione dell’ispirazione divina che continua peraltro ad animare i detti dei rabbini e il loro inesauribile discutere intorno al testo sacro, cioè la Torah scritta – la Bibbia ebraica. La Torah she beal peh, «Torah che sta sulla bocca» è fondamentalmente il Talmud, parola ricavata dalla radice ebraica che – in nome di quella straordinaria didattica dello scambio che fa dire a un grande maestro: «Ho imparato soprattutto dai miei discepoli» – significa a un tempo «imparare» e «insegnare»: un immenso verbale di discussioni, commenti, divagazioni e interpretazioni della Bibbia, passo per passo.
Non fine a sé stesso, beninteso, bensì parte integrante di un continuo dialogare tra cielo e terra alla ricerca di quegli infiniti significati che la Bibbia contiene ma che non sono palesi. Giunto alla sua redazione finale intorno al VI secolo, il Talmud è composto da sei ordini e 63 trattati, per un totale di molte migliaia di pagine. Questo testo straordinario (di cui a dire il vero esistono due redazioni, una detta «di Gerusalemme» e una, quella canonica, che viene invece «da Babilonia» perché quello era allora il fulcro della cultura ebraica) è ben più di un dotto commento alla Legge divina, cioè alla Bibbia: è una vera e propria enciclopedia della vita, per quanto disordinata e difficilissima da esplorare, in cui il materiale si delinea – sempre disordinatamente – secondo due categorie: la halakhah, cioè l’insieme di regole, e la haggadah, cioè la narrazione.
In questi giorni esce il secondo volume del monumentale progetto che prevede la prima traduzione italiana integrale di tutti i 63 trattati talmudici, avviato ormai molti anni fa e sostenuto fra gli altri dal Miur e dalla Presidenza del Consiglio (https://www.talmud.it). Si tratta del trattato Berakhot, che vede oggi la luce nella nostra lingua con la prefazione del rabbino Gianfranco Di Segni (in due tomi per i tipi della Giuntina, € 90) e che è forse il più suggestivo, il più ricco di evocazioni di tutto il Talmud. Berakhot si traduce convenzionalmente con «Benedizioni» ed è uno dei trattati contenuti nell’ordine Zeraim, cioè «sementi» (e dunque tutto ciò che è legato alla vita produttiva dell’uomo e al suo rapporto con la terra, con la materia). Ma nell’universo ebraico la benedizione è qualcosa di difficile se non impossibile traduzione, perché, scrive Di Segni, «non rende bene la ricchezza semantica e concettuale che risuona nel termine ebraico. […] È il modo più tipicamente ebraico con cui si esprime la fede in Dio Re e Creatore del mondo». L’uomo benedice Dio e Dio benedice l’uomo in una dinamica in cui attivo e passivo si scambiano, l’astratto si fa concreto e viceversa, come quando è il Signore stesso a imporre all’uomo «Benedicimi!». I primi tre capitoli del trattato si occupano della lettura dello Shema («Ascolta Israele», la professione di fede dell’ebraismo), e delle relative benedizioni; seguono parti dedicate alla preghiera «generica» e a quella che si ha da recitare «in piedi» (Amidah); poi si tratta delle benedizioni per il pasto, i cibi, i fenomeni naturali, i miracoli, la salvezza, i vestiti nuovi…, perché tutto è degno di benedizione.
Ma, come scrive il più grande talmudista vivente, Rav Adin Steinsaltz, il tema centrale di queste pagine è la fede stessa attraverso un dialogo a molte voci che coinvolge lo spazio e il tempo del mondo. Forse più il tempo dello spazio, perché l’ebraismo per millenni ha abitato nel primo molto più che nella geografia reale. E allora uno dei temi centrali del trattato Berakhot è quello di capire quando pregare, quando dedicarsi allo studio: «Come faceva re David a capire quando era mezzanotte? Lui aveva un segno per sapere quando era mezzanotte. C’era un’arpa appesa sopra il letto di David, e quando giungeva la mezzanotte veniva un vento dal Nord e soffiava attraverso l’arpa, e l’arpa suonava da sola. Immediatamente David si alzava e si occupava di Torah fino al sorgere dell’alba». È proprio così che il Talmud si dipana: interrogando il testo sacro là dove esso tace, cercando ciò che in apparenza manca e che invece sta lì, negli inesauribili spazi bianchi fra le righe, là dove tutto è detto, fuori del tempo e dello spazio.
La Stampa – 7.12.2017