David Nizza
Discorso tenuto all’Università di Ferrara
Ho pensato di modificare leggermente il mio contributo, alla luce degli interventi che ho ascoltato ieri e delle domande che si sono succedute, in questo modo: parlerò naturalmente della scuola, che, anzi, si chiama correttamente “le” scuole – perché sono più ordini – della Comunità Ebraica di Milano, e poi alla fine capirete meglio, per chi non è del mestiere, perché. Quindi farò questa premessa, sperando che non sia peregrina.
Nel Talmud si racconta una storia molto strana di questo genere: comincia con queste parole: “Ke-she-alà Moshé la-Maròm, ecc.”. E’ una storia che poi dirò per sommi capi. Molti avranno sentito raccontarla in una certa forma, anche sotto forma di barzelletta. Invece adesso io la presenterò un po’ più vicino alla sua collocazione, che è molto profonda. Dice così: Quando Mosè, il nostro Maestro, salì negli eccelsi, – si intende per prendere la Torà, alla Rivelazione del Sinai -, trovò Ha-Kadòsh Barùh-Hu, la Divinità, che in certo qual modo stava finendo di scrivere la Torà. E stava facendo alcuni ritocchi, che si chiamano Tagghim, che sono, non so, intraducibile, come degli apicetti che completano le lettere dell’alfabeto che sono scritte nel Sefer Torà, nel rotolo della Torà, del Pentateuco. E allora Mosé chiede: “Ma che cosa stai facendo?”. Dice: ” Sto facendo queste decorazioni”, che in realtà per noi che scriviamo in ebraico coi caratteri ebraici comunque siano, a stampa o corsivi, non si usano, sono superflui, sono solo caratteristica del rotolo della Torà. Dice Mosè: “Ma a che cosa servono?”. Dice la Divinità: “Un giorno verrà un uomo che da questi piccoli segni saprà ricavare montagne e montagne di Halakhòt, di Leggi, di insegnamenti.” Allora Mosé si stupisce e dice: “Ma, buon Dio, tu hai un uomo così, sai in mente tua che ci sarà un uomo così, e dai la Torà a me?”. E allora gli dice: “Fammelo vedere”. E così, il testo non lo dice, ma possiamo immaginare che nel teatro della storia si apre uno scenario e Mosè può vedere, molti secoli dopo, questo successore che si chiama Rabbì Akivà, che è seduto nella sua scuola e insegna ai suoi alunni la Torà, e effettivamente insegna delle cose meravigliose e ricava dalla Legge di Mosé degli insegnamenti luminosissimi. E Mosé in un certo qual modo è come se assistesse a questa lezione, sinché, a un certo punto, si accorge che non capisce. Quando Mosè nostro Maestro, il Maestro per eccellenza, colui che ha ricevuto la torà, non è più in grado di capire la Torà che insegna Rabbì Akivà, si sente venir meno, come colto da uno svenimento. E allora la Divinità gli fa coraggio e (ricordiamo che la domanda era: perché dai la Torà a me e non la dai a lui?) in quel momento gli mostra che un alunno fa una domanda molto difficile allo stesso Rabbì Akivà, e lui risponde: “Zo halakhà le-Moshé mi-Sinài, questa è la Legge che abbiamo ricevuto per tradizione da Mosè dal Sinai e non sono in grado di spiegarla”. Ecco che così Moshé si rafforza e capisce che, tutto sommato, lui è Mosé. Poi la storia finisce in un altro modo, cioè, dice Mosè: “Mostrami qual è la ricompensa per un uomo così”, e … non posso dirla, perché mi commuove; semmai la racconterò dopo, perché è una tragedia.
Adesso parliamo di noi. Ho detto: questa storia mi è venuta in mente, sentendo alcuni interventi e le domande di ieri, perché noi in fondo ci interroghiamo spesso, soprattutto chi è del mestiere, su che cosa sia il maestro. Un buon maestro si mette sempre in discussione. E allora, come vedete, anche gli antichi maestri, i Tannaìm, sapevano mettersi in discussione. Una delle domande di ieri era: “quanto conta il maestro?”. Veramente forse potremmo dire: quanto è importante la capacità e il ruolo del maestro in una scuola. In generale e in particolare noi siamo in Italia e parliamo delle scuole ebraiche, quanto prevale o è importante l’organizzazione, come credo che si dica nel mondo aziendale, il ‘know how’ di una certa organizzazione, la partecipazione, il consenso, l’atmosfera che condizionano enormemente anche le capacità del migliore insegnante? Questa è la prima domanda, e ancora di più: Quanto conta la capacità del buon insegnante o conta il team, consiglio di classe, collegio docenti, consiglio di istituto, la capacità di programmare orizzontalmente, di fare le programmazioni collettive, insieme, per gruppi, per area, per materia, e così via. Perché io posso avere un ottimo insegnante che non è grado di esprimersi e quindi è sprecato. La seconda domanda è: Quanto conta, cosa vuol dire, il buon maestro. Come sempre la domanda vuol dire: molto dotto, molto saggio e sapiente, preparato, hahàm. Però può darsi che non sia in grado di insegnare, forse non è un buon insegnante. E viceversa, forse non è così sapiente, però ha grande capacità comunicative. Non tutti possono avere tutto. Qui dico subito qualche mia opinione, che non vuole e non può essere definitiva e drastica, ma è un’opinione. Io credo che, quanto alla prima domanda, conti di più il gruppo, l’atmosfera, l’ambiente che è o stimolo al fare, e meglio, o purtroppo deterrente, che induce al torpore anche le capacità dei migliori. Ho visto ottimi insegnanti col tempo subire frustrazioni che hanno loro impedito di dare quello che possono dare, e quindi appiattirsi al peggio, e viceversa. Quanto alla seconda domanda, come va la scuola di oggi, e specialmente in Italia, credo che la tendenza sia molto chiara. Si va sempre di più verso una figura professionale chiamata a saper dare e fare, mentre è molto meno rilevante quanto veramente sia elevata la sua competenza nella conoscenza della materia che ha i titoli per insegnare. Naturalmente cum grano salis: portato agli estremi, non regge. Un maestro ignorante non potrà mai essere un buon insegnante, ma questo è ovvio.
Adesso vorrei entrare, per non dilungarmi troppo sulla teoria, a parlare della mia scuola. Noi ci stiamo ponendo in questo periodo una domanda divenuta ormai un po’ semi retorica: qual è il futuro della nostra scuola, delle scuole ebraiche della Comunità di Milano, e qualcuno ha già tirato fuori lo slogan ‘la scuola ebraica nel 2000’ e cose di questo genere. Darò alcuni esempi pratici, dai quali penso che potremo tirare alcune somme, senza teorizzare troppo. La nostra è una scuola legalmente riconosciuta e quindi procediamo analogamente allo Stato in tutti i sensi, quanto alla didattica e all’educazione, fino al quadro orario e al riconoscimento dei titoli. In più, abbiamo da più di 10 anni una sperimentazione, che ha già subito modifiche migliorative, per le superiori. Questi cambiamenti, riforme, specialmente la sperimentazione, sicuramente ci hanno permesso di migliorare alcuni aspetti, tra i quali certamente la componente dell’educazione ebraica. Oggi le materie ebraiche, grazie alla sperimentazione, sono equiparate alle altre materie in tutto: hanno la stessa dignità quindi di voto, di pagella, di titolarità, con il coronamento di maturità, che oramai da 4 anni consecutivi il ministro mette nella rosa delle materie di esame, e quindi i nostri ragazzi sanno ormai da sempre che può loro capitare, e capita tutti gli anni, di essere chiamati al colloquio di maturità a rispondere anche di ebraismo e ebraico. Più precisamente: Ebraismo, che non si chiama religione naturalmente, ma si chiama cultura ebraica, e Lingua Ebraica.
Inoltre siamo molto impegnati sulla formazione degli insegnanti, secondo le loro specificità e ordini di scuola (materne, elementari, medie inferiori e superiori), con due percorsi paralleli. Uno delle attività seminariali permanenti, piccole e modeste come quantità, però con il vantaggio della continuità: si tengono tutti gli anni con cadenza settimanale, e si organizzano, ormai da diversi anni nella cornice del Bet Ha-Midràsh, cioè del Collegio Rabbinico di Milano. Il secondo è costituito da vari corsi seminariali di vario livello, più mirati, che possono essere: una specialista da Israele di una materia, lingua piuttosto che altro, che viene per due giorni, un giorno, full time, o un determinato ciclo di interventi in corso d’anno. Spero che continuerà l’iniziativa dell’anno scorso: abbiamo mandato un insegnante full time per un anno a studiare in Israele, a aggiornarsi all’università di Bar Ilan con un programma stabilito in sintonia con un’organizzazione analoga a quella del Melton Center. Inviamo insegnanti a corsi estivi, in funzione della materia, di solito in Israele, per lo più di lingua, ma anche di altre materie, da una a cinque settimane. Mi soffermo sui corsi di materie ebraaiche perché sono più difficili da organizzare, ma partecipiamo a corsi di tutte le materie, per esempio all’IRRSAE. Non solo: cerchiamo di sviluppare anche alcuni progetti speciali. Quest’anno ne stanno partendo due: uno di psicomotricità, chee durerà un anno e mezzo e avrà come destinatari le educatrici delle materne e alcune insegnanti delle elementari e sarà guidata da un’équipe che ha dato ottima prova di sé l’anno scorso, fornendoci uno screening sul campo; e l’altro che comincia oggi pomeriggio per le medie, (e per questo chiedo scusa del fatto che non potrò rimanere fino alla fine dei lavori, ma non avevo modo di iniziare in altra data), guidato da una équipe universitaria che fa capo al Professor Demetrio, che è un personaggio molto noto nell’educazione in Italia.
Da queste iniziative noi speriamo, e in parte possiamo già vedere, delle ricadute positive, che riassumerò in due aspetti principali. Uno: quello dei materiali che per tutte le materie, in particolar modo per le materie ebraiche, sono la nostra sofferenza, perché tutti gli insegnanti si lamentano, come è giusto, dell’ineguatezza dei testi e dei materiali. Personalmente ho sempre pensato che l’insegnante super non ha testo, io i testi, e non solo per quello che riguarda le materie ebraiche, spesso me li sono fatti da solo; ho insegnato di tutto, italiano, latino, greco, storia e geografia e tutte le materie ebraiche dalle medie alla maturità, e, quanto ai testi, o ho fatto scarsissimo ricorso, o non ho potuto usarli perché mi è capitato di prendere dei cicli e delle classi in cui erano stati scelti da altri e a me non andavano a genio, o non trovavo sul mercato testi adatti, o mi sono scritto le mie dispense, o ne ho fatto semplicemente a meno. E credo di poter dire che un buon insegnante può fare anche a meno, entro certi limiti, per certe materie, non tutte, del testo. Ma comunque è giusto che la scuola moderna sia dotata del meglio a disposizione. Oggi ci sono tante possibilità di scelta a livello mondiale. Quindi i testi, e oggi i testi vuol dire più che il libro, i materiali moderni e le tecniche moderne. E l’altro aspetto, una riorganizzazione del corpo docente ai vari livelli, di materia, di gruppo classe, di collegio docenti, e in certo aspetto, di consiglio di istituto.
Quindi, a questo punto, mi avvicino alla conclusione, la domanda pertinente a questo convegno a cui posso tentare di dare un contributo, credo che sia questa. Adesso, visto più o meno chi siamo, che cosa vogliamo o dobbiamo fare? Cioè, che servizio dobbiamo dare? Visto che non siamo né una scuola statale, né una scuola privata, chi siamo? Io interpreto il fatto che noi siamo le Scuole della Comunità Ebraica di Milano con il significato che noi siamo una scuola pubblica, perché siamo tenuti a dare un servizio pubblico a tutti gli iscritti utenti della Comunità, che noi eleggiamo e che ci amministra, ci gestisce, e per il solo fatto che un utente è iscritto alla Comunità ha il diritto a usufruire di questo servizio. Bisognerebbe anche entrare nel merito importantissimo dei costi, del bilancio, ecc… che è anche pertinente; ma, per ragioni di brevità devo accantonarlo per il momento. Allora, siccome siamo e ci pensiamo come una scuola pubblica all’interno della Comunità, e non siamo una scuola privata, con i vantaggi e gli svantaggi che ha una scuola privata in Italia e nel mondo, è importante che sappiamo definirci. Anche qui per brevità non voglio aprire l’argomento, ma noi abbiamo questo problema. Normalmente una scuola, soprattutto se privata, ma ormai in Italia anche le scuole pubbliche, con la tendenza all’autonomia, con i vari progetti educativi di istituto, e poi si vedrà con la ‘carta dei diritti” e quant’altro, comunque, diciamo, la scuola pubblica di oggi e del prossimo futuro, e sicuramente una normale scuola privata, qualunque essa sia, di solito non hanno problemi di identità. Uno va a Lione, c’è una scuola ebraica religiosa, sa che è una scuola religiosa. A Milano c’è la scuola Habàd, uno non si pone neanche il problema. Nella normalità, una scuola ebraica, a differenza della nostra, non si pone neanche il problema dell’identità; ipso facto, se un genitore iscrive i figli alla scuola Habàd, non mette in discussione l’osservanza della Torà o altro; se uno va a Anversa e iscrive un figlio alla scuola ebraica Tahkemoni, non mette in discussione l’ideale sionista di quella scuola, quindi l’importanza della lingua ebraica ecc… Quindi di solito non c’è problema di adesione e consenso su identità, programmi, fini educativi nelle altre scuole; da noi invece c’è. Perché noi siamo una scuola che verrebbe chiamata a fare un compito impossibile, cioè dare tutto a tutti, al religioso, al laico, al sionista… all’ebreo italiano che vuole solo una scuola buona tout court, e glie ne importa fino a un certo punto che sia ebraica, e contemporaneamente dobbiamo dare con un tempo pieno, che più di così non si può nell’arco settimanale, tutto di ebraismo, lo scibile umano… Allora cerchiamo al presente, e, ripeto, dobbiamo ripensare, come definirci. Presto verrà, credo, il momento in cui dovremo tutti, ma soprattutto i genitori dovranno ripensare, chiarire meglio, che cosa è più importante, e forse occorrerà fare delle scelte. Comunque noi nella situazione attuale cerchiamo di dare un po’, più o meno, non di tutto, ma di quello che per tradizione si ritiene fondamentale, affinché l’alunno, da quando comincia fin dai tre anni della materna, supponendo che termini il suo curriculum con la maturità, esca dalla nostra scuola almeno con alcune basi acquisite di conoscenza e di cultura ebraica e di sapere, non solo, ma, ancor più importante, di vita ebraica.
Detto ciò, e ho finito, forse interesserà sapere che la mia personale sensazione, che conta fino a un certo punto, ma da numerosi incontri, occasioni di scambio che non adesso, ma da anni mi capita di avere, l’ultimo, un paio di settimane fa fra gente del mestiere su scala mondiale, credo di poter dire che nella nostra realtà, anche senza questionari, statistiche, ecc., emerga forte la sensazione di essere un chiamati a dare una qualità superiore alla media; la qualità che sia la più soddisfacente o la migliore possibile. Un paio di settimane fa ho avuto un incontro con un responsabile di Sidney. Una delle loro scuole – loro hanno 5 scuole ebraiche – ha lo stesso chiarissimo obiettivo: scuola tradizionale, cioè religiosa di tipo tradizionale, con attaccamento al sionismo, una scuola di un migliaio di alunni di ogni ordine, e anche lui diceva che siccome sono partiti da un problema di calo degli alunni e di deficit economico – però quella è una scuola privata naturalmente, non comunitaria – lo hanno studiato; hanno avuto da un lato la fortuna di avere delle immigrazioni dal sud Africa e quindi hanno aumentato gli alunni, dall’altro hanno ristrutturato il bilancio, che adesso è in pareggio, ma quello che è interessante è che sono partiti da questa domanda: “Che cosa vogliono da noi gli utenti?” E la loro risposta, che a loro che sembrava chiara, era la seguente: “Noi vogliamo una buona scuola”. E allora loro si sono posti l’obiettivo, di cui avevano già le potenzialità e le capacità prima, perché non sono cose che si organizzano né in un giorno né in pochi anni, ma sono riusciti evidentemente a dare il meglio per raggiungere questo obiettivo. Una buona scuola, che produce un alunno preparato sopra la media delle statistiche dell’ingresso all’università, a un livello molto superiore a quello delle altre scuole pubbliche e private di Sidney, e in più, e non come accessorio, una buona educazione ebraica. Be’, allora io mi sono consolato, perché noi passiamo il tempo a piangere e a sentirci piangere addosso genitori insoddisfatti – perché quelli soddisfatti naturalmente non vengono a farci perdere tempo -, e allora, diciamo così, mi sono consolato, perché ho colto l’occasione di dire: “Be’, noi non abbiamo le statistiche, però possiamo fare due calcoli: maturità di quest’anno, sette ’60’ su trentasei ammessi, tutti ammessi e tutti promossi, con una percentuale forse da record nazionale; e in più, con una percentuale di respinti, dalle Medie ai Licei, in genere inferiore al 3 per cento, il che dimostra che non siamo una scuola selettiva, ma, al contrario, sappiamo in genere recuperare i ragazzi in difficoltà”.
Davide Nizza
Università di Ferrara – 1995