Il cimitero ebraico di Pesaro fra tradizione e storia
M. Luisa Moscati Benigni
Nessuno, forse, muore davvero
Alle pendici del colle San Bartolo, volto a mizrach 1, il cimitero ebraico di Pesaro s’inerpica per l’impervia collina quasi a costringere il visitatore a volgere in alto lo sguardo, via dalla terra, poiché in realtà nessuno muore davvero.
E’ la Beth ‘Olam, la casa di eternità, o la Beth Hachayim, la casa della vita o dei viventi, o, come nel rito tedesco, il Gut-ort, il buon posto.
Dalle espressioni usate per indicare il luogo, appare chiaro il senso della morte nella concezione ebraica: essa è la porta della vita eterna 2. Questa certezza sul destino dell’uomo dopo la morte viene espressa anche dai salmi (16 e 49) letti durante il periodo della Shiv’à 3 nella casa del defunto: “ …anche il mio corpo risiede al sicuro: poiché non abbandonerai il mio spirito nello Sheòl …mi farai conoscere il sentiero della vita, abbondanza di gioie se il Tuo volto è vicino e dolcezza alla Tua destra per sempre” (Sal. 16; 10-11).
Nella concezione biblica più antica con il termine Sheòl 4 è indicato il luogo sotterraneo ove i defunti hanno una sopravvivenza allo stato larvale, senza una qualsiasi coscienza del proprio stato di morte. Questa concezione, comune anche ad altri popoli dell’Antico Oriente, sarà poi sostituita in epoca postbiblica da una distinzione tra una punizione per il malvagio e la speranza di resurrezione per il pio, anche se “non tutti quelli che hanno vissuto verranno resuscitati”. Infatti “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si sveglieranno: gli uni alla vita eterna altri alla vergogna” (Dan. 12; 2).
Quindi molti, ma non tutti
Poiché il peccato è trasgressione ad una legge, a coloro che non hanno conosciuto la Legge non potrà essere imputato alcun peccato. Pertanto per essi non vi sarà giudizio né quindi resurrezione. Saranno invece svegliati per essere giudicati coloro che hanno conosciuto la Legge, e per primi gli ebrei, poiché per primi ricevettero i Comandamenti, e “a chi molto fu dato, molto sarà chiesto”. Ma l’universalismo ebraico contempla la possibilità di salvezza anche per tutti coloro, i noachidi anche non ebrei, che seguono le sette regole date da Dio a Noè 5, e ne riconoscono l’origine divina, i cosiddetti “Giusti della terra”. Per questo l’ebraismo non ritiene necessario far opera di proselitismo, dal momento che ciascuno può raggiungere la salvezza rispettando le norme imposte dalla fede (monoteista) in cui si trova alla nascita.
Non dobbiamo quindi lasciarci influenzare da quel bagaglio culturale che ci deriva da una religiosità popolare secondo la quale gli uomini retti troveranno ricompensa in paradiso già subito dopo la morte. Occorre qui tener presente che la dimensione temporale ha, nell’altra vita, un valore assolutamente diverso da quello terreno, e che a volte la ricompensa, per una vita spesa nel rispetto della Torà, inizia già in questa, come può esserlo ad esempio una vecchiaia serena ricca di discendenza. Ciò non significa necessariamente che quei milioni di ebrei, la cui vita terrena fu nei secoli segnata da ogni sorta di pene, fossero peccatori: non avrebbero infatti potuto esserlo i bambini vittime dei lager, ma questo rientra in un imperscrutabile disegno divino.
Comunque dalla lettura di alcuni passi della Bibbia si può dedurre che alla morte faccia seguito uno stato di non coscienza della morte stessa.
Giobbe, ad esempio, intendeva la morte come oblio, come “non fossi mai nato” (Giob. 10; 18), e nel Salmo 146; 4 si legge “Esala lo spirito e ritorna alla terra; in quel giorno svaniscono tutti i tuoi pensieri”, e ancora “i morti non sanno nulla… il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito (Qoh. 9; 5,6).
Numerosi sono i passi biblici che esprimono o confermano questa particolare concezione della morte che restituisce serenità dopo le sofferenze, le ansie, i rancori o le paure della vita terrena.
Da qui, forse, quel grande senso di pace che aleggia in un cimitero ebraico: è come se la serenità di quel sonno profondo diventasse a un tratto contagiosa.
In fondo “tutto è vanità”, per cui il visitatore, di fronte al grande mistero della morte, dimentica i propri affanni.
L’uomo si è sempre chiesto quale vita avrà oltre la vita, ma non ha mai trovato una risposta certa a questo interrogativo. Soltanto due sono le certezze espresse in materia dalla dottrina ebraica: il valore della preghiera per i defunti, che può in un certo senso cambiare il verdetto di Dio, e la fede nella resurrezione. Questa è espressa chiaramente nella seconda delle “Diciotto Benedizioni”, Benedetto tu o Signore che fai diventare vivi i morti, e nell’ultimo dei tredici “Articoli di fede”, Credo nella resurrezione dei morti, e che questa succederà quando piacerà a Dio, il cui Nome sia benedetto e glorificato per tutti i secoli dei secoli. Amen.
E’ forse proprio in attesa del grande evento della resurrezione dei morti che la disposizione delle sepolture è stata “pensata” così come si presenta in tutti i cimiteri ebraici, cioè volta a est di modo che, al momento del risveglio, ciascuno risorgerà con il volto verso Gerusalemme.
Nell’antichità le sepolture avvenivano in caverne scavate nella roccia nelle quali si raccoglievano via via interi nuclei familiari. Successivamente, in epoca postbiblica, si è pensato ad un luogo comune di sepoltura collettiva, anche fuori dall’abitato senza tema di profanazioni dato che era noto a tutti l’uso ebraico di seppellire il cadavere spoglio di qualsiasi ornamento, semplicemente avvolto in un sudario. Una semplice pietra con il nome indicava il luogo della sepoltura e, a conferma del concetto di uguaglianza tra gli uomini, in ispecie di fronte alla morte, non erano previsti mausolei che distinguessero i ricchi dai poveri, i pii dai malvagi e ciò anche per non umiliare i famigliari del defunto. All’inizio la pietra tombale era posta, oltre che per il ricordo del defunto, anche per evitare che un Coen si avvicinasse inavvertitamente ad una sepoltura, terreno considerato impuro.
Con il decreto di papa Urbano VIII (23 ottobre 1625) sarà vietata in segno di disprezzo qualunque iscrizione tombale, per cui, nei territori che via via vengono annessi allo Stato pontificio, saranno rimosse e distrutte anche le lapidi preesistenti. Con ciò si voleva cancellare persino il ricordo di chi non era più, ma continueranno ad essere onorate dalla presenza di una matzevah (stele o pietra) 6 le tombe di insigni rabbini o comunque di uomini di grande cultura, unici ebrei cui il decreto papale accorderà questo onore. Tale interdizione, ribadita nel 1775 da Pio VI, resterà in vigore sino al 1846.
Per questo oggi, di fra l’intrico di rovi, nel cimitero ebraico di Pesaro, affiorano ben poche lapidi, per lo più raccolte per nuclei familiari, certamente in numero notevolmente inferiore a quello degli ebrei che hanno composto la comunità ebraica pesarese negli ultimi tre secoli.
Sono circa centoquaranta, in alto quelle più antiche, molto diverse tra loro per la qualità e il taglio della pietra, per i caratteri ebraici a volte italiani elegantissimi, altre volte tipici sefarditi, e per i motivi ornamentali: fiori leggeri come merletti, centine, stelle, piccoli soli scolpiti o in rilievo. Differiscono anche per il contenuto delle epigrafi: quelle sefardite sono più ricche di spunti poetici derivati dal testo biblico come nell’iscrizione di Raphael Shalom datata 1697, forse la prima del nuovo cimitero.
Più in basso si allineano le sepolture più vicine nel tempo: sono le più monumentali, in particolare quelle erette tra il 1860 e il primo ‘900. E’ come se l’emancipazione sociale degli ebrei, che fa seguito all’annessione delle Marche al regno d’Italia, si fosse spinta sin lì, tra le tombe, e quello spirito di rivalsa che altrove ha mutato la fisionomia di tante sinagoghe, qui si fosse invece sbizzarrito nella ricerca di forme e decori tipici del decadentismo romantico ottocentesco.
Non potendo scolpire immagini 7 velate e recline secondo la moda al tempo diffusa nei cimiteri cristiani, ecco allora colonne spezzate a simboleggiare una giovane vita troncata, serti di edera e rose, corone e drappi, fiaccole di pietra perennemente accese o piccole giare in cui un tempo ardeva un lume ad olio. Pochi sono i maghèn-Davìd 8 ma ovunque la prima formula scolpita su ogni pietra è ha-tziyyun ha-laz (questo monumento) o matzevah, la stele che il patriarca Giacobbe eresse sulla tomba dell’amata sposa Rachele presso Betlemme (Gen. 35.20). E’ la prima pietra tombale cui fa riferimento la Bibbia.
Cenni storici sui cimiteri ebraici di Pesaro
L’area adibita a cimitero è interamente cinta da un alto muro fatto erigere negli anni venti da un membro della comunità ebraica pesarese, Lazzaro Recanati, che, come recita la grande lapide posta a sinistra del cancello di ingresso, ha profuso in quest’opera tutte le sue sostanze. In quell’occasione aveva fatto costruire, all’interno della cinta muraria, anche una piccola cappella in cui si usava preparare la salma per la sepoltura e si recitavano le opportune preghiere. Precedentemente veniva utilizzato a questo scopo un piccolo edificio posto più a valle, presso la casa del colono. Infatti quest’area, oggi proprietà della comunità ebraica di Ancona 9, faceva parte di un ben più ampio terreno con annessa casa colonica, e, come era consuetudine in tutte le comunità, il colono che aveva la conduzione del fondo si impegnava, in cambio del raccolto, ad espletare tutte le penose incombenze relative alla sepoltura, alla pulizia delle tombe e alla chiusura del cancello la sera.
L’uso cimiteriale di quest’area risale al 1695 10, quando la comunità ebraica di Pesaro ne era venuta in possesso a seguito di una permuta con il podere in cui si trovava il cimitero precedente. Quest’ultimo, in zona Pantano, doveva essere piuttosto esteso, come risulta dall’estimo di San Niccolò del 1690: misurava 512 canne, di cui “canne sessanta e mezza per le sepolture degli ebrei”, oltre al resto del terreno “arativo di canne centonovantacinque et un quarto con parte della casa”, e così per ciascuna delle due sinagoghe, quella “levantina” e quella “borghigiana “ 11.
L’abbandono di questo si era reso necessario per le condizioni del terreno particolarmente paludoso.
E in proposito, nella lettera inoltrata in data 19 maggio 1695 dal luogotenente di Pesaro al legato Fulvio Astalli 12 a sostegno della “lagnanza” presentata dagli ebrei della città, si fa presente, con abbondanza di particolari, che appena “un piede sotto terra vi si trova dell’acqua” e ”massime in tempo d’inverno appena scoperto il terreno”, pertanto si propone uno scambio con due luoghi entrambi fuori della Porta del Ponte, i cui proprietari sono evidentemente interessati. Verrà quindi scelto quello in vocabolo Soria, ove il cimitero si trova attualmente, e appena due mesi dopo viene stipulato l’atto che legalizza la permuta.
Né si tralasciano tutte le dovute clausole per il rispetto dei precetti relativi agli usi funerari ebraici: il terreno che fu adibito a cimitero non potrà essere arato poiché, essendo la riesumazione vietata, i cadaveri debbono restare nel terreno sino al loro totale dissolvimento, né vi potranno pascolare gli animali, ma potrà invece essere falciata e utilizzata l’erba che vi cresce copiosa.
Questo luogo di sepoltura quindi si colloca nel tempo tra quello che nella pianta del Blaeu (1663), ripresa poi dal Mortier (1704), è indicato in legenda alla lettera t come “Campo vecchio dei giudei” e quello in località Soria, del quale la Fondazione Scavolini ha operato il recupero.
A questo punto bisognerebbe chiedersi quando l’antico cimitero diventa “vecchio”, cioè non più in uso: quando nel 1633 gli ebrei dovettero lasciare le abitazioni del vicino Borgo Mozzo per assoggettarsi alla segregazione del ghetto o già più di un secolo prima per il forte aumento della popolazione ebraica con l’arrivo degli ebrei sefarditi? 13
Ma non si può escludere che, almeno per qualche decennio, i cimiteri ebraici funzionanti fossero due, così come due erano, e all’inizio ben distinte dalla diversità del rito, le comunità ebraiche di Pesaro: quella di rito italiano con la sinagoga in piazza Giudea (via delle Zucchette) con il vicino cimitero di porta Fanestra, e quella di rito sefardita (spagnolo) insediatasi già all’inizio del ‘500 in via Mammolabella, con più oratori dislocati, secondo l’uso, in abitazioni private, e con un suo cimitero in zona Pantano, certamente più vicino dell’altro.
Era importante infatti che il luogo per le sepolture non fosse troppo lontano poiché già in epoca ducale i funerali dovevano svolgersi in modo da passare inosservati, quindi evitando le vie del centro, la sera dopo il tramonto o al mattino prima dell’alba perché non vi fosse “alcun scandalo”. Tale infatti doveva apparire un funerale senza la presenza di preti, croci e le lunghe file di incappucciati delle confraternite. E ciò ancor più dopo l’istituzione del ghetto con i suoi rigidi orari di chiusura e apertura dei portoni, per cui i funerali dovevano essere programmati in modo che tutti potessero, la sera, rientrare prima dell’avemaria, o uscire al mattino all’alba, appena aperti i portoni.
Il cimitero più antico, conosciuto sin qui, è dunque quello fuori porta Fanestra, come risulta dalla pianta del Bleau che pone la lettera t subito a destra fuori della porta stessa. Nel 1895, durante i lavori di scavo e di demolizione, in quell’area vennero alla luce cippi e lapidi con scritte ebraiche, la più antica risale al 1415 14. Forse ha la stessa provenienza uno splendido cippo marmoreo in cui la parola matzevah è sormontata dal leone della tribù di Jehudah; reca la scritta scolpita in caratteri ebraici italiani particolarmente eleganti come si addice ad un’alta personalità, e infatti recita: “stele del grande sapiente Joseph Barukh da Urbino – 1556”. Il fatto che si precisi che è da Urbino, e non di, indica, come nei cognomi di provenienza, che ormai viveva altrove da molto tempo, forse proprio a Pesaro ove poi verrà sepolto. Alcune lapidi dell’attuale cimitero portano date più remote di quella indicata nell’atto di acquisto del terreno, forse vi sono state portate proprio per conservare la memoria di illustri personaggi.
Tuttavia la presenza ebraica in città ha origini ancora ben più lontane di quelle indicate dalle date incise su quelle lapidi, poiché troviamo riferimenti alle “due comunità di Pesaro e Fano distanti fra loro meno di un giorno di cammino” nella cronaca di un naufragio contenuta in un parere rabbinico di rav Eliezer Ha Levi di Bon del 1214. Se a quel tempo la popolazione ebraica si era già costituita a comunità, la sua presenza, sia pure numericamente limitata, doveva avere origini remote e così pure il luogo destinato alle sepolture. Era consuetudine infatti che alla concessione di una condotta, medica o feneratizia 15 che fosse, tra i capitoli del contratto venisse sempre contemplata la necessità di destinare un appezzamento di terreno a questa triste ma ineluttabile esigenza.
Tradizioni e riti legati al lutto
“Colui che trascura un malato, è responsabile della sua morte”. Questo antico detto richiama ogni ebreo ai suoi doveri di assistenza e preghiera, verso il prossimo. Si ritiene che le preghiere recitate accanto a un moribondo possano ritardare il momento della morte, della separazione dell’anima dal corpo. Anche un rumore secco, improvviso potrebbe spezzare quel filo sottile, per cui si raccomanda, in quel momento solenne, silenzio e rispetto. Da ciò si comprende come l’ebraismo sia contrario ad ogni forma di eutanasia, tuttavia molti testi si oppongono all’accanimento terapeutico con mezzi artificiali.
E’ vietato lasciare solo un morente e i presenti accompagnano con la lettura dei salmi i suoi ultimi istanti; poi, avvenuto il decesso, recitano la professione di fede (lo Shemà Israel…) e secondo la tradizione è sull’ultima parola Echad, “Uno” (riferita all’unicità di Dio), che lo spirito inizia il distacco dal corpo.
“Benedetto sia il Giudice di verità”: i congiunti pronunciano questa benedizione all’annuncio del decesso, in segno di rassegnazione alla volontà divina 16, e ancora “Il Signore aveva dato, il Signore ha tolto, il nome del Signore sia lodato”.
Forse non sempre, o non per tutti, tanta rassegnazione corrisponde ad una reale accettazione della volontà divina: certamente esplodono, nell’intimo di chi è appena colpito, sofferenza e ribellione. L’ebraismo, pur considerando la morte parte dell’ordine divino dell’universo, comprende la fragilità umana e quindi la vulnerabilità di chi vive un lutto e per questo formula tutta una serie di regole per indicare alle persone colpite la via da seguire.
La tradizione stabilisce diversi periodi di lutto, per lasciare che ciascuno esprima la propria pena secondo la propria sensibilità e soprattutto per limitare il periodo di afflizione affinché ognuno possa tornare alla vita normale senza tema di venir meno alle regole e per evitare che qualcuno si imponga lunghi periodi di lutto.
Con questo però non si pretende di codificare il dolore che è, e resta, un fatto del tutto personale ben distinto dai riti formali del lutto.
A volte i parenti più prossimi, in particolare i figli, compiono la keriah, uno strappo nell’abito all’altezza del cuore: è un’antica usanza ricordata nella Bibbia (Gen. 37,34), ma non è obbligatoria
A questo punto la confraternita di Ghemiluth Chasadim (esercizio della carità) si occupa della preparazione del corpo, dell’organizzazione del funerale e delle riunioni di preghiera nella casa del defunto. Gli onenim (afflitti) infatti, prostrati dal dolore, non sono in grado di provvedere a queste dolorose incombenze.
La Torà dice “Polvere sei tu e in polvere ritornerai” (Gen. 3.19), pertanto è vietata la imbalsamazione, quindi il corpo viene lavato, avvolto in un lenzuolo (molti lo preferiscono di lino, ma non c’è alcuna indicazione al riguardo) 17, e nel talléd che ha usato in vita, e infine posto nella bara chiusa, sotto il capo una manciata di terra di Israele o comunque di un luogo caro al defunto. E’ usanza coprire gli specchi in casa, ma questa forse è solo una superstizione per non vedere raddoppiata l’immagine del feretro.
Anche se nel Deuteronomio (21.23) è scritto ”non passerà la notte… e lo seppellirai”, tuttavia, specie nel caso di decesso dei genitori, troppa fretta è considerata disdicevole e comunque attendere uno o due giorni è possibile quando questo sia in onore del defunto: per attendere l’arrivo di parenti lontani o per una più accurata preparazione del funerale. Nello Shulchàn Arùch 18 viene precisato anche a chi dare la precedenza in caso di più decessi nella stessa comunità: un grande chakhàm, eminente studioso della Torà, prima di un uomo comune anche se ricco o potente, una donna prima di un uomo, anche se deceduto prima di lei.
Partecipare al funerale è una mitzvah (precetto) così come fare in quell’occasione opere di tzedakah (carità-giustizia), cioè offerte in memoria del defunto a favore di chi ha bisogno o per la piantagione di alberi in terra di Israele. Sono sorti così in Erez Israel (Terra d’Israele) negli ultimi decenni boschi e foreste disseminate di cippi marmorei eretti in memoria di ebrei deceduti in qualunque parte del mondo.
Il servizio funebre si svolge prima in casa, poi o sulla tomba o nell’oratorio del cimitero, mai in sinagoga; l’officiante seguito da almeno dieci uomini (minyan) recita attorno alla bara le preghiere di rito, prima che questa sia calata nella fossa. E’ compito dei congiunti iniziare a gettarvi sopra la terra, tre manciate ciascuno a partire dai parenti più prossimi. Tutto ciò può apparire crudele ma la tradizione vuole che si prenda piena coscienza della realtà della morte, che ognuno viva pienamente il lutto, solo così poi potrà a poco a poco superarlo.
Saranno i genitori o i coniugi o i figli a recitare per i loro cari scomparsi il Kaddish 19, e un figlio per i genitori lo reciterà ogni giorno per undici mesi. Infatti soltanto per gli empi si ritiene che sia necessario un intero anno di particolari preghiere.
E’ una mitzvah portare conforto agli avelim, coloro che sono in lutto, perciò al ritorno dal cimitero parenti e amici offriranno loro del cibo (uova sode e legumi rientrano nella tradizione) 20, e li serviranno e avranno cura di loro poiché, a causa dello stato di prostrazione, potrebbero trascurare se stessi.
Verrà accesa una candela nella camera del defunto secondo il versetto che recita “lo spirito umano è la luce dell’Eterno” (Proverbi 20. 27) e resterà accesa per il periodo della Shiv’à, poi ad ogni anniversario.
Durante la Shiv’à, gli amici in visita, che all’inizio rispetteranno il silenzio se gli avelim mostrano di preferirlo, cercheranno poi di indurli a parlare della persona defunta e dei ricordi che si hanno di lei. Il ricordo fa bene agli “afflitti” ed è così struggente che a poco a poco, chi non è più torna a rivivere tra le pareti domestiche nel racconto di tanti episodi della sua vita terrena e nel ricordo delle sue opere.
Oltre al ricordo e alla preghiera collettiva, in quei giorni si dovrà pensare anche allo studio della Toràh poiché è opinione diffusa che ciò aiuti il defunto. In questi sette giorni vanno rispettate numerose usanze come non uscire di casa, astenersi dal lavoro, non pensare alla cucina o alla cura degli abiti, né radersi, né tagliarsi i capelli, non sedersi a tavola, ma consumare i pasti su seggiole basse (anticamente scalzi e seduti in terra). Si ritiene che in quei sette giorni lo spirito del defunto resti ancora legato alle persone che ha amato e forse anche alle cose che gli furono care. In molte famiglie ebraiche, là ove è possibile, si conserva per undici mesi la camera del defunto così come l’ha lasciata, senza toccare nulla delle sue cose e ad ogni compimese vi si accende una candela.
L’arrivo dello Shabbath interrompe il periodo di Shiv’à perché l’afflizione del lutto non può coesistere con la serenità del sabato perciò si passa al periodo successivo.
Negli sheloshim, i trenta giorni dopo la sepoltura, la persona in lutto torna gradualmente alla vita attiva, pur evitando attività sociali e divertimenti. Per gli uomini resta la proibizione di radersi la barba. Per tutti invece resta l’obbligo della recita del Kaddish. La fine degli sheloshim segna la fine del lutto per i parenti, mentre per i genitori e per i figli il lutto continua per gli undici mesi successivi alla sepoltura.
Nel primo anniversario parenti e amici riuniti in sinagoga, prima della ashkavà (la preghiera in memoria del defunto), leggono passi biblici e talmudici adatti alla circostanza: un momento di studio collettivo per il quale è necessario il minyan. La consuetudine di apporre in questo giorno la pietra tombale è di origine ashkenazita, così come certe preghiere composte all’epoca cruenta delle crociate. E’ di tradizione ashkenazita anche l’usanza di posare un sassolino sulla tomba, questo resta a ricordo della visita e non appassisce come i fiori.
Non c’è infatti nell’uso ebraico l’obbligo di effettuare frequenti visite, queste anzi sono limitate al massimo per evitare ogni possibile culto dei morti. Tuttavia è considerata una mitzvah visitare la tomba ad ogni anniversario, affinché una volta fissata la data (o quella civile o quella ebraica), la famiglia abbia la possibilità di ritrovarsi almeno una volta all’anno per rinnovare non il lutto, bensì il ricordo del defunto.
Questa pratica, che nel rituale sefardita è chiamata “l’anniversario del ricordo” e prevede la recita di preghiere anche a Yom Kippur (il giorno di espiazione e digiuno), deve essere accompagnata dall’osservanza di altre mitzvoth come lo studio e le offerte in memoria. Infatti quello della tzedakah (carità) è per l’ebraismo un precetto così importante che può essere definito semplicemente “il precetto” poiché vale quanto tutti gli altri messi insieme.
E’entrata anche nel rito italiano l’usanza sefardita di recarsi a visitare la tomba alla fine della Shiv’à, alla fine degli sheloshim, ogni venerdì (in quanto vigilia di Shabbath), il 9 del mese di Av (giorno di lutto per la distruzione del Tempio e non solo) e nelle vigilie di Rosh Ha-Shanà (capodanno ebraico), di Yom Kippur (il giorno del digiuno di espiazione) e di ogni capomese. Il rito sefardita anticipa l’apposizione della pietra tombale già alla fine degli sheloshim e raccomanda la massima semplicità, poiché “Nessuno deve erigere un monumento per i giusti, è il ricordo dei loro atti il loro memoriale”.
1 A est, verso Gerusalemme.
2 Cfr. P. De Benedetti, Resurrezione e immortalità, in Due grandi sapienze: Bibbia ed ellenismo, Firenze, 2002.
3 Shiv’à, i primi sette giorni di lutto a partire dalla data della sepoltura.
4 Sheòl deriva dalla radice ebraica sh’l che significa chiedere: è il luogo che “chiede” le anime. Cfr. P. De Benedetti, Nonsense e altro, Milano 2002, p. 52.
5 I sette principi essenziali espressi dalla legge divina, rispettati da Noè tanto da meritarsi la salvezza, sono il divieto di qualsiasi altro culto all’infuori di quello dovuto a Dio, il divieto della bestemmia, dell’omicidio, dell’adulterio e incesto, del furto, del cibarsi di parti strappate ad animali in vita e l’obbligo di costituire tribunali (perché l’uomo non si faccia giustizia da sé).
6 Il termine matzevah è composto da quattro consonanti, la mem (m), la zade (tz), la bet (b,v) e la he (h), lette da destra a sinistra e vocalizzate.
7 Il secondo Comandamento, così come è scritto nel testo ebraico, vieta l’uso di immagini sia scolpite che dipinte, e quindi anche le fotografie, nel timore che ciò possa portare al peccato di idolatria.
8 Maghèn-Davìd [= scudo di David], la stella a sei punte formata da due triangoli equilateri, opposti e intrecciati. Quello con il vertice verso l’alto rappresenta l’anelito dell’uomo verso Dio, quello verso il basso la ricerca di Dio verso l’uomo: la forza che esso racchiude sta proprio nello stretto legame tra l’uomo e Dio.
9 La proprietà del terreno, in origine della comunità israelitica di Pesaro, è passata, come pure quella delle sinagoghe pesaresi, alla comunità di Ancona in seguito alla legge Falco del 16 ottobre 1930 (D.L. n. 1731).
10 Asp, Np, notaio Guglielmo Tedeschi, 11 luglio 1695, cc. 220v.-228r.
11 Bop, ms. XII-d-2, c. 129 r., estimi del quartiere S.Niccolò (1690). Cortesemente segnalato da Federica Tesini.
12 Asp, Lettere delle Comunità, b. 54, Pesaro 1695. Cortesemente segnalato da R.P. Uguccioni.
13 Per estensione dell’editto di Granada del 1492, gli ebrei furono cacciati anche dalla Sicilia, e dopo alcuni anni trascorsi nel regno di Napoli, giunsero in quelle città delle Marche che, avendo un porto, apparivano più sicure in caso di una nuova fuga. A Pesaro affluiscono già a partire dal 1507 e più ancora dopo il rogo degli ebrei portoghesi di Ancona. Vedi M.L. Moscati Benigni, Marche Itinerari Ebraici, Marsilio, Venezia, 1996, p.30. Tornerà nella natia Pesaro anche rabbi Mosè Bàsola (1555) per fondarvi una jeshivà di studi cabalistici e di musica sinagogale, scuole che attireranno in città studiosi famosi come i fratelli Lusitano e il banchiere filantropo e mecenate Mordekhaj Volterra, cui si deve la costruzione della sinagoga sefardita di via delle Scuole. Vedi M.L. Moscati, La sinagoga sefardita di Pesaro, in “Pesaro città e contà”, 5, 1995, pp. 55-62.
14 M.T. Fulgenzi, Pesaro, catalogazione del Consorzio A.R.S. per conto del ministero dei Beni culturali, 1990.
15 Se fu una condotta a portarli in città, doveva trattarsi di una condotta medica, perché nel ‘200 non poteva ancora trattarsi di una condotta feneratizia dal momento che, come afferma lo stesso San Tommaso di Aquino, per tutto il secolo gli ebrei ancora non prestavano denaro, essendo il prestito sino ad allora esclusivo appannaggio dei cristiani.
6 E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, Firenze,1978, p. 164.
17 Questa pratica venne istituita da Rabban Gamliel che nonostante la sua fama e la sua ricchezza, chiese di essere sepolto in una semplice bara e avvolto in un lenzuolo di lino, in modo che le famiglie meno abbienti non dovessero affrontare grandi spese né si sentissero per questo umiliate. Da allora tale pratica è seguita in tutte le comunità.
18 Shulchàn Arùch (tavola apparecchiata), di rav Josef Caro, scritto nella metà del XVI secolo, contiene tutte le indicazioni per un corretto procedere in ogni momento della vita. L’opera è stata trascritta nell’800 da rav Shlomo Gantzfried e oggi pubblicata in italiano con testo ebraico a fronte, dalle edizioni Lamed, Milano 2001.
19 Il Kaddish è erroneamente considerata una preghiera legata al lutto, in realtà è un’antica preghiera in aramaico con cui si santifica il nome di Dio. Nel rito italiano, per la sua recitazione, è necessaria la presenza del minyan.
20 L’uovo è, per la sua forma che non ha inizio né fine, simbolo di vita e di morte. Così sono, per la forma arrotondata e forse anche per l’alto valore nutrizionale, i legumi in genere.