Apprendiamo dal Fatto Quotidiano del 6 gennaio che è in uscita in Italia Un cazzo ebreo, romanzo d’esordio di successo scritto in inglese da una giovane di origine tedesca, Katharina Volckmer, che lavora a Londra presso una agenzia letteraria. Il romanzo, leggiamo, è stato un caso editoriale all’ultima Fiera di Francoforte ed è consacrato come “libro dell’anno 2020” dal Times Literary Supplement. Il titolo italiano è un pugno nello stomaco, su questo torneremo.
Ma quale è il titolo originale di quest’opera, pubblicata nel nostro paese da La Nave di Teseo? Dice l’articolo: The Appointment: Or, The Story of a Jewish Cook; ovverossia, “L’appuntamento; o, la storia di un cuoco ebreo”. Proprio così: un “cuoco ebreo”… Qualcosa non torna. Cerchiamo dunque in rete l’originale inglese, e scopriamo che nell’edizione originale britannica il titolo di copertina è soltanto The Appointment: cioè, “L’appuntamento”. All’interno, nel frontespizio, al titolo in evidenza viene aggiunto, tra parentesi e in caratteri minori, un sottotitolo a sorpresa: (Or, The Story of a Cock), ossia, “(O, la storia di un cazzo”). Tutto qui.
Nell’edizione americana, il titolo The Appointment viene stampato in copertina a grandi caratteri su tre righe, come The/Appoint-/ment, in modo da evidenziare l’elemento “mentale” del romanzo – costituito dal lungo monologo a Londra di una giovane tedesca sul lettino di un certo dottor Seligman, ginecologo ebreo, presente solo come ascoltatore delle traumatiche confessioni della protagonista, che hanno per oggetto la sua identità di donna e di tedesca gravata da sensi di colpa per l’Olocausto, e i suoi desideri erotici femminili e transgender. L’appuntamento del titolo è quello con il dottore, sul cui lettino la giovane ha la possibilità di rivelare le sue pene; è anche l’appuntamento di lei con sé stessa.
Nell’edizione americana, Amazon.com, per evidenti ragioni di censura, non permette di andare oltre il titolo di copertina ed entrare entro il libro. Amazon.it, che già promuove senza censure il titolo dell’edizione italiana, Un cazzo ebreo, per l’edizione americana offre invece il titolo esilarante, The Appointment; or, The Story of a Jewish Cook. Il “Cock” del sottotitolo americano (Or, The Story of a Jewish Cock), che neanche l’editore americano osa mettere in rete ma è presente nelle recensioni sul romanzo, è diventato, per incredibile auto-censura, un “Cook”. E la cosa ancora più divertente è che, nella recensione italiana da cui abbiamo appreso la notizia, come titolo inglese del testo viene indicato, come se nulla fosse, quello fornito da Amazon.it, di cui quello italiano costituirebbe una versione abbreviata… Ma veniamo ora a parlare del titolo italiano: Un cazzo ebreo. Perché, è proprio l’arbitraria volgarità di una parte essenziale di questo titolo che vorrei segnalare. E stupisce che sia una casa editrice di livello quale La Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi a farsi portatrice di una simile operazione editoriale. Mi riferisco semplicemente al titolo italiano, non certo alla pubblicazione del romanzo in sé, e neppure al suo titolo inglese, nelle sue due versioni britannica e americana.
Nella trasformazione del titolo dall’originale all’italiano, infatti, è avvenuto quanto segue: 1) Il vero titolo, “L’appuntamento”, è stato omesso; 2) Il sottotitolo, divenuto titolo, è stato ridotto alla sola appendice scandalistica americana del “Jewish Cock”; 3) Fin qui, si potrebbe obiettare che la scrittrice ha confessato in una sua intervista che il primo titolo a cui aveva inizialmente pensato era proprio A Jewish Cock; vi aveva poi saggiamente rinunciato, per non sciupare l’effetto sorpresa nel lettore, e per non correre il rischio di trasformare, dietro ad un titolo di facile appeal scandalistico, un romanzo di sofferta autoriflessione tedesca sulla Shoah in uno di suono larvatamente antiebraico; e questa scelta andrebbe accolta anche dall’edizione italiana. Ma il punto chiave, e quello che ancor più ferisce e spinge a non tacere, è che qui da noi si è anche proceduto a tradurre l’aggettivo “Jewish” in maniera linguisticamente scorretta, favorendo, e per così dire sanzionando, la diffusione in Italia di un uso maldestro del termine “ebreo”. Il problema, infatti, non consiste tanto e soltanto nell’introduzione nel titolo del termine volgare per l’organo maschile, che l’originale pubblicato aveva nascosto pudicamente nel frontespizio interno; il vero problema, una volta sbattuto tale termine in copertina (ben diverse le sottigliezze ironiche del maestro Philip Roth, nel suo storico Lamento di Pornoy!), è quello di avervi associato brutalmente accanto il sostantivo “ebreo”, cosa che non corrisponde al testo originale.
Ebbene, in inglese “Jewish” (ossia “ebraico”) è un aggettivo, ben distinto per funzione e significato dal sostantivo “Jew” (“ebreo”), riferito alla persona, e la stessa distinzione esiste anche in italiano. Traducendo l’aggettivo “Jewish” dell’originale nel suo corrispondente sostantivo, si produce in chi legge un vero pugno nello stomaco e si promuove ad altissimo livello un uso distorto della parola “ebreo” in funzione aggettivale, già molto diffuso erroneamente tra i parlanti della lingua italiana. La confusione tra ebreo ed ebraico, segno di un imbarazzo storico della cultura di questo paese, è una questione che già ebbi modo di segnalare anni fa, in un mio scritto introduttivo alla sezione letteraria di una ricerca sull’Editoria ebraica in Italia promossa dal Ministero dei Beni Culturali, e dispiace dover sollevare il problema nuovamente oggi, di fronte ad una iniziativa di così alto livello culturale. Un “ebreo” è una persona, e il sostantivo può essere usato correttamente in funzione aggettivale solo se riferito alla persona nella sua interezza: si può parlare di uno scrittore ebreo, di un partigiano ebreo, di un amico ebreo. Ma la letteratura è “letteratura ebraica” (e non ebrea); la musica è “musica ebraica” (e non ebrea); una bocca è una “bocca ebraica” (e non ebrea), e così dicasi per le altre parti del corpo di cui si volesse parlare in questi termini.
Che dire allora, di fronte ad una scelta così sgradevole, almeno per le orecchie ebraico-italiane, compiuta da una casa editrice di gusto così raffinato? Speriamo che Elisabetta voglia trovare il modo di riparare ai due Sgarbi che ha fatto: al popolo ebraico e alla lingua italiana! Si mandino al macero le copie stampate (le copie già circolate diverranno oggetto di prezioso antiquariato), e si proceda ad una nuova titolazione, più rispettosa delle intenzioni della stessa autrice.